domenica 12 gennaio 2014
Archeologia politica
I ricordi, le passioni, la politica di una “inossidabile comunistaccia”
Luciana Castellina
“Tutti quegli anni davanti ai cancelli delle fabbriche per vedere oggi la classe operaia diventare irrilevante” Il suicidio di Lucio Magri? Forse solo ora sono riuscita a capirlo
intervista di Antonio Gnoli Repubblica 12.1.14
Tutte le case di sinistra in qualche modo si somigliano. Ammetto che è
un pensiero vago. Perfino insulso. Mi afferra una volta varcata la
soglia dell’abitazione di Luciana Castellina. I libri, tanti e disposti
quasi in ogni stanza, le foto attaccate ovunque alle pareti, i
manifesti, i quadri, il lieve disordine che fa molto vissuto evocano una
certa idea della politica e della morale. Sì, le case a volte parlano
come e più degli umani. Sedimentano storie, forniscono indizi, mostrano
il lato meno scontato del carattere: «Abito qui da sempre», dice, «in
questo quartiere borghese con scarsa propensione all’avventura, nella
Roma moderata e riccastra che si incistò ai Parioli dagli anni Trenta.
Se fosse stato per questo clima di spenta moralità e di scarso agonismo
non avrei fatto tutto quello che poi ho realizzato. Ho ereditato questa
casa, senza sceglierla. E penso che alla fine i ricordi e le abitudini
me l’abbiano resa non dico indispensabile, ma vicina, quasi una parte di
me».
Si sente una privilegiata?
«Penso di esserlo stata. Quando e dove nasci non dipende da te. Credo
che conti anche una certa dose di fortuna. Ma poi, senza troppi giri di
parole, la questione è semplice: sei tu che scegli da che parte stare e
con chi schierarti. È buffo. Proprio in questi giorni ripensavo
all’operazione della Fiat e al fatto che la Chrysler sia finita sotto
l’egida del marchio torinese».
Buffo in che senso?
«Ci fu un tempo che per questioni di militanza andavo spesso davanti
alla “porta 2” della Fiat. Era il 1970. Due anni dopo, in piena campagna
elettorale con Nixon lanciatissimo alla riconferma, arrivai a Detroit
per una lunga inchiesta sulle case automobilistiche. Ce ne erano ben
tre: General Motors, Ford e Chrysler. La più alta concentrazione di
classe operaia al mondo era lì. Apparecchiata, neanche fosse un film
dell’orrore, in una città agghiacciante. Dove un pedone era trattato
alla stregua di un pidocchio. Un pugno di grattacieli liberty, una marea
di casette bianche e in mezzo una enclave di disperazione, un vuoto
abitato da “negri” e bianchi sfigati. Accomunati dalla disoccupazione.
Ecco il capitalismo allo stato puro, pensai».
Immagino l’adrenalina.
«Era una delle rare volte in cui una comunista entrava in un paese che
vietava l’accesso ai comunisti. Mi colpì la diffusione della droga tra
gli operai. Molti di loro erano tornati dal Vietnam. Lì, per
sopravvivere e per dimenticare, avevano imparato a fumare e a farsi di
eroina. In fondo, le catene di montaggio non erano poi così diverse
dalla giungla del sud-est asiatico, pensai».
Fu una delusione?
«No, era una classe operaia diversa, meno politicizzata della nostra».
Quel mondo, comunque lo si veda, oggi va sparendo.
«Leggevo, da qualche parte, che il costo della mano d’opera alla Fiat
incide del 7 per cento. Sì, quel mondo è diventato irrilevante ».
E che conseguenze ne ha tratto?
«Mi chiede se siamo diventati degli orfani?»
Glielo chiedo.
«Non si tagliano le radici. Anche volendo reciderle, quelle continuano a restare confitte nel tuo terreno di appartenenza».
A proposito di radici, la sua era una famiglia borghese.
«Diciamo una famiglia irregolare. Nonno triestino, disertore della parte
austriaca, amico di Oberdan. Mia nonna, orfana, proveniva da una
famiglia di agrari di Tarquinia. Lui partì per l’Argentina. Lei lo
raggiunse, si sposarono. Tornarono in Italia. Mio nonno aprì a Roma una
litografia. Lo stabilimento crebbe e poi fallì. E lui tornò in
Argentina. Questo da parte di madre. Dal lato di mio padre non sono
molte le notizie».
Perché?
«Perché il matrimonio di mia madre, con Gino Castellina, durò poco. Lo
sposò pensando fosse ricco. Invece aveva la consistenza del fumo.
Quattro anni insieme, gli stessi che avevo io. Poi, grazie alla Sacra
Rota, ci fu il divorzio. La mamma impiegò altri otto anni per approdare
al secondo matrimonio. Era in parte ebrea e le leggi razziali impedivano
i matrimoni misti. Per un bel mucchio di soldi l’avvocato Le Pera
arianizzò mia madre. Fu così che lei si poté risposare. Con il secondo
marito ci trasferimmo a Verona. Periodo abbastanza orribile. Poi
tornammo a Roma. Mi iscrissi al Tasso. Cominciò una vita decente. Nella
mia classe c’era la figlia del Duce».
E che ricordo ne ha?
«Di una ragazzina consapevole dei propri privilegi. Anna Maria era
simpatica, spigliata, dotata di un’intelligenza aggressiva. Amareggiata
da una poliomielite che la costrinse tutta la vita a portare un busto. A
volte mi invitava a casa sua, nella residenza di Villa Torlonia.
Ricordo che ci faceva ascoltare il “bollettino di guerra” e poi
liberamente lo commentava con le parole che aveva ascoltato dal padre.
Fu incredibile sentire certi giudizi pesantissimi sul Re, sui ministri e
su certi esponenti del partito. Poi arrivò il 25 luglio 1943».
La data della caduta di Mussolini.
«La ricordo perfettamente. Ero a Riccione, ospite di Anna Maria.
Giocavamo a tennis. Alcune guardie interruppero la partita dicendo che
doveva rientrare immediatamente a Roma».
L’ha più rivista?
«Dopo la guerra. A casa di un’amica. Aveva perso un po’ della sua
baldanza. Ma era sempre sferzante. Mi colpì una frase: papà ha fatto
male a fidarsi di quel cretino del Re. So che poi sposò un attore e che
morì sul finire degli anni Sessanta».
Cosa è stato per lei il fascismo?
«Per lungo tempo ne ebbi una totale incomprensione. Nessuno in famiglia,
nonostante ci fossero diversi ebrei, si rendeva conto di quanto stava
accadendo. Del resto, l’antifascismo nel paese fu un fenomeno limitato
per lo più a coloro che erano esiliati o in galera. Scoprii tardi il suo
valore. E se vogliamo dare un peso alle parole, non è irrilevante che
si sia detto che il fascismo cadde e non che fu rovesciato».
“Cadere” nel senso del moto meccanico?
«In un certo senso sì, come se sia stata marginale la volontà di coloro che contribuirono alla fine di quel regime».
E lei vi contribuì sposando la causa comunista?
«La mia adesione al Pci venne dopo: alla fine della guerra. Fino a quel
momento non sapevo bene cosa fare. C’era il Partito d’Azione che mi
incuriosiva. Ma alla fine scelsi i comunisti. Mi pareva gente concreta e
intelligente».
Continua a pensarlo?
«Ho avuto la fortuna di incrociare compagni con cui ho fatto un lungo pezzo di strada».
Non le pesava l’eccesso di dogmatismo di quel partito?
«Fino a un certo punto della mia storia direi di no. Poi, quando ho
dovuto in qualche modo ripensarla, mi sono resa conto che la mia fu
spesso una militanza acritica».
Quanto acritica?
«È una bella questione. Non so risponderle. O forse non voglio farlo. Non lo so».
Dà l’impressione di una persona ricca di qualità individuali.
«So di apparire così. Ma ero convinta, e in parte ancora lo sono, che il
giudizio collettivo sia migliore di quello individuale».
Perché? Dopotutto, ognuno ha un cervello per ragionare in proprio.
«Ma vede, non c’entra niente l’obbedienza o il conformismo. È che nel
collettivo ci sono linee di forza, ragioni e sintesi che l’individuo non
possiede. Anche quando cominciai a dissentire dalla linea del Pci, lo
feci insieme ad altri».
Si riferisce all’uscita dal Pci e alla nascita del manifesto?
«Più che uscita ci buttarono fuori. Per la storia di quel partito si
ammetteva l’abiura o l’ortodossia. Noi fummo i primi a creare un
dissenso vero. Fu una battaglia che iniziò nei primi anni Sessanta e
preparò il ’68».
Cosa imputavate al Pci?
«Di essere un partito immobile. Stavano accadendo cose, codicendoleme la
nascita del femminismo, l’ecologia, i nuovi consumi, su cui il partito
non si esprimeva. Accettando solo la banalità del presente».
Vi accusarono di essere degli intellettuali.
«Era una critica che ci arrivava soprattutto da Lotta Continua. Ma
infondata. C’eravamo per anni fatti un culo tremendo davanti alle
fabbriche, nelle riunioni operaie e di partito. Venivo da una lunga
gavetta e per lungo tempo avevo diffidato degli intellettuali. Nel
partito loro erano la “marina” e io mi consideravo “fanteria”».
Però poi ha sposato Alfredo Reichlin, una delle teste pensanti del Pci.
«Ma questo avvenne molto dopo. E all’inizio, le confesso, guardavo con una certa diffidenza alle sue amicizie culturali».
Eravate ancora assieme quando la cacciarono dal partito?
«No, mi pare che fossimo separati già da una decina di anni».
Cosa provò per quella espulsione?
«Soffrii enormemente. Mi sembrava di essere stata buttata via dalla
finestra. Fu un periodo doloroso. Il partito si comportò orrendamente.
Con Pajetta in testa che ci gridava contro: chi vi paga? Tra i pochi che
si comportarono con dignità ci furono Nilde Iotti ed Emanuele
Macaluso».
Usciste in diversi: lei, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luigi Pintor,
Valentino Parlato, Lucio Magri e altri. Cosa è stato per lei questo
nuovo gruppo?
«Credo qualcosa di irripetibile. Come in tutte le famiglie abbiamo molto
litigato e siamo stati bene assieme. Mi fa male pensare che alcuni di
loro non ci siano più».
La morte di Lucio Magri, o meglio il suicidio, fu una vicenda dolorosa, che provocò qualche dissidio tra di voi.
«Ero nettamente contraria. Stiamo parlando della vita di una persona,
non di una mozione politica. Con Lucio ho avuto una storia privata che è
durata 25 anni. Non era facile accettare che una parte di te decidesse
di morire. In passato ero riuscita a farlo desistere già in un paio di
occasioni. Purtroppo, agiva su di lui una depressione patologica,
furente, insidiosa. E alla fine non ci fu nulla da fare».
Come giudica la scelta della Rossanda di accompagnarlo a morire?
«Non la giudico ma non ero favorevole. Lucio aveva un carattere
impossibile, ma era anche uno degli uomini più intelligenti che abbia
conosciuto. E pensavo che quell’atto, così disperatamente lucido, fosse
frutto di un profondo egoismo. Chi era lui per uccidersi? Per lasciarci
in un mare di dolore?».
E oggi?
«A distanza di due anni da quell’episodio penso che Rossana avesse compreso molto meglio di me il problema».
In che senso?
«È difficile da esprimere, ma penso che anche lei sia stata in qualche modo accecata dalla vita».
Accecata?
«Molto più di me ha conosciuto in questi anni la disperazione e il
dolore. Aveva antenne più sensibili. Io sono più vitaiola, mondana,
estroversa».
Per lungo tempo lei è stata considerata una delle donne più seducenti della sinistra. Cosa ha significato per lei essere bella?
«La bellezza facilita la vita. Ma negli anni Cinquanta la bellezza di una donna era spesso equiparata alla stupidità».
Se non avesse scelto la militanza politica, con tutto quello che ha comportato, cosa avrebbe voluto fare?
«Certamente il pittore. Ero bravina. Ma sarei stata un’artista mediocre. Meglio la politica».
Si riconosce il senso del limite?
«Per anni ho avuto enormi complessi di inferiorità. Mi iscrissi a Legge,
io che adoravo filosofia, perché ero convinta di non essere abbastanza
intelligente».
Non dà l’idea di una persona insicura o frustrata.
«Invecchiando si diventa più sicuri. Ho spesso provato dubbi e incertezze. E poi, il limite vero lo stabilisce la morte».
La spaventa?
«No, evito di parlarne. Se l’affronti hai già perso in partenza. Ricorda il Settimo sigillo?»
Le piace il cinema?
«È una fonte inesauribile di pensieri ed emozioni. Un modo di viaggiare con gli occhi».
Solo con quelli?
«Il viaggio è una parte di me. Da piccola dicevo che avrei fatto il
facchino alla Stazione Termini. Amavo guardare la gente partire».
I suoi bagagli le hanno pesato?
«A quali si riferisce?»
A quelli del suo impegno, della sua militanza, dei suoi sogni infranti, e
delle tante sconfitte. In fondo non è questo il mondo che si aspettava.
O no?
«Lo avevo immaginato diverso. Ma sono ancora qui. Dopo gli ottant’anni,
un po’ più frivola. Ma pensando di essere ancora quella ragazza che nel
’45 cambiò vita. Sì, malgrado tutto, resto la solita inossidabile
comunistaccia. Che continua a viaggiare, indignarsi e a scrivere».
Cosa sta scrivendo?
«Ad aprile, per il mio editore Nottetempo, uscirà un libro a quattro
mani scritto con Milena Agus. Un pezzo di storia italiana, molto
cruenta. In fondo questo paese deve ancora, in alcune sue parti oscure,
essere raccontato».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento