domenica 12 gennaio 2014
Un episodio della Seconda guerra mondiale e della resistenza al nazifascismo
Bo Lidegaard: Il popolo che disse no. La storia mai raccontata di come una nazione sfidò Hitler e salvò i suoi compatrioti ebrei, traduzione di Giuseppe Maugeri, Garzanti, Milano, pagg. 440, € 22,00
La Resistenza della Danimarca
Settemila ebrei si salvarono nell'ottobre del '43 attraversando lo stretto di Øresund: il popolo danese, racconta Bo Lidegaard, si oppose all'operazione di pulizia etnica
di Sergio Luzzatto Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14
L'8 settembre della Danimarca fu inaugurato da un telegramma. Era il
telegramma inviato a Berlino da Werner Best, giovane ufficiale delle SS
che Hitler aveva nominato da poco, in quell'estate 1943,
plenipotenziario del Reich a Copenaghen. «Una coerente attuazione del
nuovo corso in Danimarca comporta adesso, a mio parere, una risoluzione
della questione ebraica nel Paese»: così Best telegrafava a Berlino, e
tutto lasciava intendere che la risoluzione della faccenda coincidesse
anche lì con la Soluzione finale. Invece no. La storia prese tutt'altra
piega. Per gli ebrei locali – diversamente che in Italia – l'8 settembre
'43 segnò l'inizio di una tragedia a lieto fine.
Ormai da tre anni e mezzo la Danimarca era stata occupata dai tedeschi
sotto uno strano regime di compromesso, una specie di occupazione
pacifica per cui il Reich non aveva dichiarato lo stato di guerra né si
era assunto la responsabilità degli affari interni danesi. A differenza
che in Norvegia, dove la monarchia e il governo costituzionale erano
stati deposti con l'avvento del collaborazionista Quisling, in Danimarca
il re Cristiano X era rimasto sul trono e le istituzioni democratiche
avevano continuato a funzionare. I tedeschi avevano tenuto quasi
soltanto a garantirsi, attraverso il controllo dello stretto di Øresund,
la regolarità delle comunicazioni dal mar Baltico al mare del Nord, e
inoltre un accesso diretto alla produzione agricola danese.
Ma nell'agosto 1943 il precario equilibrio dell'occupazione pacifica si
era infranto contro un'ondata di sabotaggi, scioperi, sommosse, cui i
tedeschi avevano risposto instaurando la legge marziale. E scatenando
infine la caccia – anche in Danimarca – contro il nemico per eccellenza,
l'orrido giudeo: contro i sette-ottomila ebrei presenti allora sul
territorio danese. Tremila circa di questi discendevano da famiglie
insediate fin dal Seicento e appartenevano a un'élite assimilata. Circa
altrettanti, i cosiddetti «ebrei russi», erano arrivati all'inizio del
Novecento fuggendo la povertà e i pogrom dell'Europa orientale. Mille e
passa erano giunti di recente: profughi tedeschi, austriaci, boemi, in
fuga dalla persecuzione nazista.
Uomo di fiducia di Himmler, il «dottor Best» – come rispettosamente
veniva qualificato a Copenaghen – sapeva quel che il capo delle SS si
aspettava da lui: un personale contributo all'opera di disinfestazione
razziale, la liquidazione degli ebrei dalla Danimarca verso le terre
dello sterminio. Senonché Werner Best era un ufficiale nazista
particolarmente colto, sensibile, e scaltro. A fine settembre '43,
quando ricevette da Berlino l'ordine esplicito di procedere all'arresto e
alla deportazione di tutti gli ebrei «purosangue», Best ebbe
l'intelligenza di capire che la Danimarca non era, agli effetti della
Soluzione finale, un Paese d'Europa come un altro. Decise allora di
intraprendere un temerario doppiogioco. In apparenza, promosse
l'operazione di pulizia etnica. In sostanza, procurò di limitarne la
riuscita.
Ciò che rendeva la Danimarca un Paese diverso era una diversa concezione
del "noi" e del "loro". Agli occhi dell'opinione pubblica, l'altro da
sé non era l'israelita, cittadino danese o profugo straniero, che
partecipava di una diaspora millenaria: l'alieno era il nazista, tedesco
o indigeno, che designava l'ebreo come un «sottouomo». Così, proprio
l'avvio dell'operazione antiebraica suscitò in Danimarca – dopo tre anni
e mezzo di attendismo, o di larvato collaborazionismo – un movimento
spontaneo di resistenza civile. E generò, rispetto ad altri contesti di
persecuzione degli ebrei d'Europa durante la Seconda guerra mondiale,
una configurazione originale del rapporto tra carnefici, vittime e
spettatori.
Sapientemente ricostruita ed efficacemente raccontata, è questa la
storia che si legge nel libro di Bo Lidegaard, Il popolo che disse no: è
l'avventurosa storia del salvataggio di massa di quei sette o ottomila
ebrei di Danimarca. Entro le prime due settimane dell'ottobre 1943 la
stragrande maggioranza di loro poté traversare lo stretto di Øresund e
raggiungere la Svezia, la cui neutralità nella guerra equivaleva alla
salvezza. Gli ebrei furono indirettamente aiutati dagli uomini delle
istituzioni, che rifiutarono di prestare ai tedeschi qualunque tipo di
assistenza politica, militare, culturale. Furono indirettamente aiutati
da uomini di chiesa come il vescovo di Copenaghen, che contro la
violazione nazista del diritto fece appello alla libertà di coscienza
del suo gregge. Soprattutto, gli ebrei furono aiutati dal soccorso
diretto della gente comune. Inseguite dai carnefici, le vittime vennero
assistite dagli spettatori, che in Danimarca non rimasero tali.
Si prenda un posto come Gilleleje, villaggio di pescatori all'estremo
nord dello stretto di Øresund. Millesettecento anime che da un giorno
all'altro si trovano ad accogliere – a nascondere, a scaldare, a
nutrire, infine a imbarcare – diverse centinaia di ebrei sconosciuti,
danesi o stranieri, uomini donne vecchi bambini. Certo, per i pescatori
di Gilleleje la rotta degli ebrei braccati dalla Gestapo corrisponde a
una benvenuta opportunità economica: pur di salire su una barca e
arrivare in Svezia, i profughi sono pronti a sborsare fino all'ultima
corona che resti loro in tasca. Ma i soldi versati ai pescatori non
bastano per spiegare la nascita, a Gilleleje, di un «Comitato ebraico»
animato dal meccanico Petersen e dal droghiere Lassen insieme al
falegname del villaggio, al maestro di scuola, al medico condotto e al
presidente del consiglio parrocchiale. I soldi non spiegano la
mobilitazione di una comunità locale che, salvando la vita agli ebrei
fuggiaschi, intende salvarsi come comunità umana.
La notte del 6 ottobre soldati della Gestapo avevano fatto irruzione
nella chiesa di Gilleleje, avevano arrestato ottantacinque ebrei
precariamente nascosti in quel luogo sacro, ne avevano disposto la
deportazione verso il ghetto boemo di Terezin, anticamera dei Lager. La
nascita del Comitato ebraico di Gilleleje costituiva una risposta a
questo schiaffo. Non rappresentava soltanto un gesto di solidarietà
verso sconosciuti ebrei in fuga: era anche un gesto di rivendicazione
del l'identità comunitaria. Era una mobilitazione in difesa dei valori
non negoziabili su cui tale identità si fondava.
Lungo le coste danesi dell'Øresund si moltiplicarono esperienze
collettive di salvataggio come quella di Gilleleje. In totale, nei primi
quindici giorni dell'ottobre '43, le traversate in barca organizzate
clandestinamente furono circa settecento: e circa settemila furono gli
ebrei che così scamparono in Svezia ai colpi della Soluzione finale.
Mentre nessuno dei settecento trasporti illegali (neanche uno!) fu
intercettato dalle pattuglie della Marina tedesca.
L'inefficacia dei pattugliamenti navali si spiega, prima di tutto, con
il sottile doppiogioco del dottor Best. Il plenipotenziario germanico
riuscì allora a convincere perfino Adolf Eichmann, giunto in missione a
Copenaghen, che gli ebrei di Danimarca stavano meglio dispersi per le
città della Svezia che ammassati nei ghetti di Boemia o nelle camere a
gas di Polonia. Ma a un livello più profondo, l'improbabile inefficacia
dei pattugliamenti lungo l'Øresund – e l'inusuale arrendevolezza di un
uomo come Eichmann – si spiegano attraverso una dinamica propriamente
politica. In Danimarca, il Terzo Reich rinunciò a realizzare la
Soluzione finale per una ragione molto semplice, insopportabilmente
semplice: perché fu posto di fronte all'opposizione di un popolo intero.
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