domenica 12 gennaio 2014

Il dibattito sulle Larghe Intese Accademiche si allarga...

Una questione che viene dibattuta dai tempi di Dilthey e ancor da prima è affidata ora ad Asor Rosa e della Loggia [SGA].

I due saperi, rivali o alleati
«Il Mulino» riapre il dibattito su scienza e umanesimo Il degrado degli studi produce una politica senza idee
di Antonio Carioti Corriere 12.1.14

Il grido d’allarme in favore dell’umanesimo lanciato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia, pubblicato dalla rivista «Il Mulino», denuncia lo svilimento degli studi storici, filosofici e letterari come un pericolo mortale per l’Italia. Un tema che può essere considerato da svariati punti di vista. L’appello non è piaciuto agli autori convinti che il guaio peggiore del Paese sia piuttosto la carenza di cultura scientifica, mentre altri studiosi ne hanno apprezzato e sottolineato la valenza sul terreno politico. Al primo gruppo appartiene Gilberto Corbellini, autore del saggio Scienza (Bollati Boringhieri): «Io insegno Storia della medicina e vedo che quasi tutti gli studenti escono dalla scuola superiore senza sapere nulla del metodo scientifico, senza avere idea, per esempio, di come si accerta l’efficacia di un farmaco: poi non c’è da stupirsi se si dà credito agli imbonitori, come nel caso Stamina». A suo avviso l’appello uscito sul «Mulino» ha un taglio conservatore: «È pervaso dall’idea che la conoscenza umanistica sia più profonda e dinamica, rispetto al presunto appiattimento del sapere scientifico». Assai diverso l’approccio di Massimo Adinolfi, docente di Filosofia teoretica e autore del saggio Continuare Spinoza (Editori Internazionali Riuniti), che ha commentato positivamente l’appello sul «Messaggero» del 5 gennaio: «Il punto cruciale colto dai tre sottoscrittori riguarda il destino della politica.

Essa in Italia ha tratto la sua linfa da una tradizione impregnata di cultura umanistica. Se quel patrimonio storico finisce nel dimenticatoio, come sta accadendo, si perdono le coordinate della vita pubblica. E poi ci ritroviamo ad essere governati da partiti come quelli attuali: formazioni senz’anima e senza storia, incapaci persino di declinare un albero genealogico coerente».
Non tutti però apprezzano il retroterra della cultura politica italiana. Molto critico si mostra ad esempio il sociologo Luciano Pellicani nel libro Contro la modernità (Rubbettino), scritto con Elio Cadelo: «L’appello uscito sul “Mulino” — dichiara — rispecchia una grave arretratezza. Penso all’invettiva contro la cosiddetta “idolatria del mercato”, che forse ha un senso negli Stati Uniti, ma è paradossale in un Paese votato allo statalismo come il nostro. Quanto alla tradizione politica, nelle campagne elettorali italiane non si fa cenno ai temi della ricerca scientifica, che sono invece centrali nei dibattiti delle presidenziali americane. Lungi da me l’idea di sottovalutare l’importanza della letteratura o della filosofia, ma l’emergenza di cui soffriamo è su un altro versante». Roberto Esposito, firmatario dell’appello, mette in guardia contro gli equivoci: «Abbiamo puntato l’attenzione sull’umanesimo in modo molto netto, forse anche provocatorio, ma non pensiamo certo che si debbano ridimensionare le discipline scientifiche. E siamo consapevoli della necessità di un’osmosi.
Essa tuttavia è possibile solo se ciascuno dei due ambiti (anzi tre, se si aggiungono le scienze sociali come l’economia e la sociologia) mantiene la sua specificità. L’errore è omologare i saperi come fanno certi meccanismi di valutazione, tutti basati su parametri quantitativi e oggettivi, che non possono valere per gli studi umanistici, fortemente caratterizzati in senso qualitativo e soggettivo».
Su questo Corbellini concorda: «Anch’io trovo ridicole le modalità di valutazione oggi in uso e la sceneggiata dell’abilitazione nazionale per la docenza universitaria. I tre firmatari dell’appello hanno ragione nel definire umiliante e provinciale la richiesta che un commissario straniero partecipi alle procedure di valutazione. Ed è assurdo che chi scrive fesserie in inglese abbia più probabilità di essere abilitato rispetto a chi scrive cose intelligenti, ma solo in italiano». Tuttavia, a suo avviso, questi sono proprio i risultati di una tradizione che ha svalutato la scienza: «La nostra classe politica, cui si devono i guasti denunciati sul “Mulino”, non viene quasi tutta da una formazione umanistica? Servirebbe una franca autocritica da parte di chi opera in quel campo. Invece l’appello esalta i tratti peculiari dell’identità italiana, proponendo quasi una riedizione del Primato di Vincenzo Gioberti, mentre trascura il ruolo cruciale che la scienza ha giocato nello sviluppo della modernità, della tolleranza e della democrazia liberale».
È un’impostazione che non convince Adinolfi: «L’idea che tutti i Paesi si debbano adeguare a un modello unico liberale di matrice anglosassone mi sembra priva di senso storico. In realtà l’Italia del dopoguerra ha conosciuto enormi progressi economici e civili finché hanno tenuto i filoni politico-culturali originali radicati nella nostra vicenda nazionale, come il cattolicesimo democratico della Dc e la tradizione socialista del movimento operaio. Quando quei riferimenti ideali si sono consunti, il nostro Paese ha perso quota ed è entrato in una fase di grave declino». «Vorrei ricordare — osserva a sua volta Esposito — che l’attuale ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, e il suo predecessore, Francesco Profumo, sono docenti di materie scientifiche, quindi il monopolio dell’umanesimo al governo non esiste più. Riconosco comunque che la tradizione culturale italiana è stata spesso interpretata in modo mediocre dalle classi dirigenti. Aggiungo che tuttavia negli Stati Uniti, dove ha sempre prevalso il sapere scientifico, oggi si riscopre l’importanza della visione umanistica e proprio la filosofia italiana è molto apprezzata. Ma quella espressa nel nostro appello sul “Mulino” non è una posizione di difesa identitaria: semmai abbiamo voluto sottolineare una innegabile specificità italiana, cioè il ricchissimo patrimonio artistico e culturale che ci deriva dal passato. È una risorsa immensa, di cui altri Paesi non dispongono. Ma come si può valorizzarla, se si emarginano gli studi umanistici?». Pellicani pensa che la priorità sia un’altra: «Mancano i laureati in matematica e in fisica, per giunta i più dotati tra loro vanno all’estero. E troppi studiosi di materie umanistiche continuano a ignorare gli sviluppi delle scienze naturali e il loro contributo alla comprensione delle nostre esperienze individuali e sociali. Mi sembra che temano un’invasione di campo, anche per la diffidenza diffusa verso tutto ciò che è misurabile e quantitativo. Io invece, come sociologo, giudico prezioso, per esempio, l’apporto della psicologia evoluzionista, che studia il tasso di condizionamento biologico nei comportamenti della specie umana». Esposito nega però ogni paura di contaminazione: «Nessuna chiusura. Al contrario, personalmente parlo da anni di biopolitica, cioè sostengo la necessità di mettere in rapporto politica e dinamiche biologico-naturali. Neuroscienze e filosofia trovano un terreno comune nella categoria di bios, la vita biologica, attraverso la quale si va facendo strada un nuovo paradigma scientifico più flessibile, attento al divenire, alle differenze, alle varianti. Ma un confronto fecondo esige che non si pretenda di allineare tutti i saperi lungo l’unico orizzonte delle scienze naturali».


I saperi in Parlamento Umanisti e scienziati: 77 a 23
di Lamberto Maffei Il Sole 24 Ore Domenica 12.1.14

Il buon senso, se ancora è possibile parlarne nella nostra Italia, suggerirebbe che i cittadini, con le loro varie professioni e mestieri, fossero ugualmente rappresentati nel parlamento, affinché tutte le istanze, richieste, esigenze fossero portate avanti e sostenute con uguale impegno e competenza.
Fatto salvo questo principio di democrazia non si può ignorare che la scienza e il sapere scientifico sono vergognosamente trascurati nel nostro Paese e le facoltà scientifiche vedono diminuire il numero degli studenti. Ora è indubbio che il futuro sociale ed economico, con le problematiche emergenti a livello mondiale, trova e sempre più troverà, nella scienza un punto di forza. Non a caso molte nazioni cercano di potenziarla sia nell'educazione che nella ricerca, mentre nel nostro Paese gli investimenti in questi campi vengono continuamente tagliati e l'Ocse ci ricorda che le nostre capacità matematiche, tecniche e persino la nostra capacità di lettura e comprensione sono al di sotto della media europea e che noi dedichiamo solo l'1,2% del Pil per istruzione e ricerca.
Ci si può domandare il perché di questa situazione in un Paese la cui storia è segnata da vette di eccellenza in tutti campi della cultura? Nel tentativo di trovare una risposta ho preso in esame la distribuzione dei titoli di studio nei 630 parlamentari della camera dei deputati: laureati 68,41% (431); muniti di diploma di istruzione secondaria superiore 25,71% (162); con la sola licenza media 1,27% (8), mentre il 4,60% (29 deputati) non indica il titolo di studio.
In ordine alle aree disciplinari dei laureati la formazione umanistica è assolutamente prevalente (il 77,7%), con predominanza della laurea in giurisprudenza (128), seguita da scienze politiche, economia, filosofia, lettere, lingue, scienze della comunicazione e storia.
Tra i 96 (ovvero il 22,3%) laureati di formazione scientifica prevale la laurea in ingegneria (34), seguita da medicina (20), e con peso decrescente architettura, chimica, fisica, informatica, scienze agrarie, scienze geologiche, farmacia, medicina veterinaria, scienze infermieristiche, scienze forestali, scienze statistiche biotecnologie fisioterapia pianificazione territoriale scienze biologiche, scienze naturali scienze e tecnologie per l'ambiente.
Il numero degli "scienziati" è veramente esiguo. Viene il dubbio allora che a livello politico il sapere scientifico e la scienza vengano trascurati perché non sono rappresentati. Predominano gli esperti nell'arte del linguaggio e, maliziosamente, si potrebbe dire che questa è la loro principale professionalità. Come si può sperare che un umanista verosimilmente in difficoltà nelle materie scientifiche, ne difenda l'incentivazione?
Ma si può azzardare un'ipotesi ancora più pericolosa e cioè che l'assenza di conoscenza o di interessi scientifici porti inevitabilmente i parlamentari a legiferare tenendo conto dei desideri popolari spesso influenzati, nel migliore dei casi, da pregiudizi e ignoranza. Votare una legge contro gli Ogm o contro l'uso di animali per la ricerca medica o a favore di ipotetiche terapie immaginarie, (esemplare di recente il caso stamina) risulterà quindi poco faticoso ed elettoralmente redditizio. In questa maniera i pregiudizi e ignoranza dei cittadini vengono automaticamente rinforzati con totale disprezzo dell'educazione e del sapere.
Da quanto detto risulta molto probabile che quando una legge riguardante problematiche scientifiche viene posta in votazione alle camere, la conoscenza del problema è nulla o quanto meno scarsa.
In questo contesto ha riscosso interesse e approvazione la recente proposta, apparsa sul sole 24 ore di domenica 8 dicembre (articolo di A. Massarenti) di considerare un senato della cultura cioè di competenti che analizzano criticamente e tecnicamente problemi in questioni fuori da influenze politiche o lobbi interessate, prima che questi passino alle valutazione dei politici che avrebbero il vantaggio di decidere conoscendo il problema.
«Conoscere per deliberare» come suggeriva la saggezza di Einaudi, mi sembra un dovere ineludibile.

Nessun commento: