lunedì 6 gennaio 2014
Stevenson e gli spiriti animali della società capitalistica
Da Jekyll al Master di Ballantrae, lo scrittore scozzese inaugura l’età del doppio che impregnerà di sé il ’900
Ernesto Ferrero La Stampa 2 gennaio 2014
A partire dal 1880, anche per effetto delle leggi che prescrivono l’istruzione obbligatoria, nasce in Europa un imponente mercato di nuovi lettori, e subito fioriscono narratori capaci di soddisfarne le esigenze. L’Italia si entusiasma per scrittori che vengono dal giornalismo, Collodi, De Amicis e Salgari; l’Inghilterra per lo scozzese Robert Louis Stevenson, letterato finissimo, già bambino malaticcio e sognatore, poi bohémien e viaggiatore compulsivo. Nel 1883 ha pubblicato con enorme successo L’isola del tesoro, libro pensato per i ragazzi che incanta gli adulti, ma ha ben altre ambizioni, prima fra tutte quella di indagare l’insanabile duplicità dell’animo umano, dilaniato tra il dovere sociale del bene e le pulsioni anarchiche e trasgressive del male. Tre anni dopo, altro grande successo per un breve thriller magistrale, Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde. Qui l’avventura è tutta cittadina, notturna e interiorizzata. Le violenze improvvise, i delitti imprevedibili che scuotono la città sono opera di un laido e protervo individuo, tale Hyde appunto, di cui è subito sospetta la familiarità con l’irreprensibile dottore, di cui frequenta il laboratorio come se ne fosse il vero titolare.
Mentre Charcot a Parigi tiene le sue affollate lezioni sull’isteria, il giramondo scozzese è tra i primi esploratori dell’inconscio. Con lui comincia l’età dell’ombra, del doppio, delle scissioni che impregneranno di sé il Novecento. Cereo, affilato, figlio di una Scozia scabra, arcaica, intrisa di leggende, fobie, ossessioni religiose, con la sua aria da perfetto revenant il giovane Stevenson, buon lettore di Darwin, è un appassionato cultore di scienze psicologiche, fenomeni paranormali, dissociazioni psichiche, sogni. «In fondo sono sempre stato uno psicologo e me ne vergogno», dirà poco prima di morire, quasi dovesse giustificare scissioni e doppiezze sue proprie, che peraltro nessuno gli rimproverava.
L’autodiagnosi ingiustamente restrittiva ignorava le capacità, insieme affabulatorie e geometriche, di dar vita a mondi narrativi perfettamente compiuti. Certo Stevenson non è mai tanto lucido come quando fa parlare i suoi protagonisti delle proprie sofferte scissioni. Afferma il dottor Jekyll che «l’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due», e non esclude che altre ricerche possano documentare che l’uomo sia «una mera associazione di soggetti diversi, incongrui e indipendenti». E aggiunge: «È una maledizione per l’umanità che queste due incongrue metà si trovino così legate, che questi due gemelli nemici debbano continuare a lottare così, nel fondo di una sola e angosciata coscienza». Quando diventa Hyde, sia pure a prezzo di sofferenze e patimenti, Jekyll si ritrova più giovane, più leggero, più felice fisicamente: scopre in sé stesso una «caparbia temerarietà, una rapida e tumultuosa corrente di immagini sensuali, uno scioglimento dai freni dell’obbligo, un’ignota ma non innocente libertà dell’anima». Non prova ripugnanza, ma accettazione di sé.
La nuova incarnazione gli sembra più viva «dell’imperfetta e ambigua sembianza che fino a quel giorno avevo chiamato mia», e che dunque rifiuta come ipocrita. Ha avuto la pigrizia di non sviluppare la parte buona di sé, e se ha scelto una vita di lavoro e di studio è per rassegnazione, non per libera scelta. Ridurre tutto a un banale conflitto tra Bene e Male, come di solito si fa citando Jekyll e Hyde, è una delle tante semplificazioni di cui ci accontentiamo, in questo piú simili a Jekyll che a Hyde.
Non contento, Stevenson ha continuato a lavorare sul tema dei «gemelli nemici». Nella limpida notte stellata di un inverno americano, in un remoto lago sperduto tra le foreste, associando le memorie di antichi racconti di morte apparente con la nostalgia dell’odiosamata terra natia (amata perché lontana) concepisce l’ariosa partitura del Master di Ballantrae (1889). È una fosca vicenda ambientata nella Scozia di metà Settecento, al tempo della rivolta, poi tragicamente finita a Culloden, dei giacobiti Stuart contro re Giorgio, che rappresenterà anche l’ultimo conato indipendentista scozzese. In molte versioni italiane, «Master» era sempre stato tradotto con «Signore», ma con quella parola in Scozia (e in Inghilterra) si indica l’erede designato di una casata importante. Quando da noi c’erano ancora padroni e servi, poteva accadere che i dipendenti chiamassero rispettosamente «signorino» o «padroncino» il primogenito destinato alla successione. Meglio dunque stare su «Master», come ha fatto l’edizione dei «Grandi Libri» Garzanti (2000), e di recente quella dell’editrice Nutrimenti, a cura di Simone Barillari, che qui si consiglia (2012). Tanto più che a tirare le fila del racconto è proprio un probo dipendente della nobile famiglia dei Durie, Mackellar, che ne è insieme il segretario, l’amministratore e il maggiordomo.
Il conflitto tormentoso che il dottor Jekyll covava dentro di sé qui si incarna e si sdoppia in due fratelli rivali, il cadetto Henry (presunto buono) e il primogenito James (presunto cattivo). Partito alla guerra con i ribelli giacobiti e dato per morto, James, fascinoso seduttore e carismatico attaccabrighe, perde il titolo e la promessa sposa, che finisce al mite fratello incolore. Quando ricompare dopo anni, si dedicherà a estorcere quanti più soldi possibile a Henry con una serie di provocazioni vieppiù oltraggiose. Dato per morto in duello (per mano di Henry), risuscita una seconda volta, finché la sfida si sposta a New York (allora un’amena cittadina immersa nel verde) e nei grandi spazi incontaminati ancora infestati dagli Indiani, sino al doppio esito funesto che spegne nello stesso istante i duellanti.
È proprio l’America a favorire la metamorfosi del fratello «buono», che si ritrova ad architettare un piano diabolico per eliminare il fratello, partito a cercare un tesoro da lui sepolto. È lì che Henry trova il proprio Hyde, abbrutendosi nell’odio; è lì che scopre il James che è in lui, liberando i bacilli del male di cui era il portatore sano e inconsapevole. Quando cala il sipario, i ruoli sono invertiti, e il lettore si ritrova senza facili risposte.
Ma quali sono poi le vere colpe del Master di Ballantrae, lo charmeur avventuriero e ribelle, presunta spia del governo inglese? La spregiudicatezza, il cinismo, il volere tutto, il battersi sino allo spasimo, il rifiuto delle ipocrisie, la protervia dichiarata. Ma anche la fame di vita e d’assoluto, l’allegra sperimentazione esistenziale, il chiamare le cose con il loro nome. Nessun dubbio che vadano a lui le simpatie (magari inconscie) di Stevenson. E che non si dia alcuna catarsi finale. L’uomo è schiacciato tra Caso e Destino. La frattura tra Bene e Male non sembra componibile. Jekyll si uccide per non farsi sopraffare da Hyde, i due fratelli muoiono nello stesso istante perché non possono esistere l’uno senza l’altro. L’ultima riga che Stevenson scrive per il romanzo I Weir di Hermiston, prima di morire alle Samoa a 44 anni il 3 dicembre 1894, suona così: «Un’ostinata convulsione di materia bruta».
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