venerdì 28 febbraio 2014
Guerra, Stato nazionale e modernità
Contro le preponderanti forze francesi, il re inglese Enrico V
trionfa facendo leva sulla disperazione degli umili: finisce l’età
aristocratica dei guerrieri, s’inizia quella dei soldati
di Antonio Scurati La Stampa 27.2.14
Davanti a sé ha soltanto la piana, a perdita d’occhio.
Jean Le Meingre in persona gli ha riconosciuto l’onore di potersi
schierare nella prima linea. Lui va così fiero del favore del
Maresciallo che tra il cuore e il capo del proprio scudo, nel posto
d’onore, ha chiesto e ottenuto di poter mettere il suo blasone, l’aquila
rossa membrata d’azzurro.
Ora tutto è pronto e tutto è perfetto. Il terreno, certo, è fangoso e
solcato dall’aratro ma è sgombro da ostacoli e da trabocchetti. Pare che
l’Onnipotente stesso abbia scelto il luogo per la carica dei Suoi
cavalieri nella radura tra le foreste di Azincourt. E quei cavalieri non
mancheranno al loro dovere verso se stessi, verso i propri compagni
d’arme, verso i prìncipi di Francia e verso l’Altissimo: fra pochi
minuti caricheranno a fondo e non si sottrarranno ai colpi del nemico
sulla linea di battaglia.
Lui indossa un’armatura completa e monta un cavallo da guerra. Il suo
corpo di carne è interamente rivestito d’acciaio, dall’elmo a coppo fino
alla scarpa a zampa d’orso infilata nella staffa. Ma la cavalcatura non
è da meno del cavaliere. Gli scudieri l’hanno strigliata, abbeverata e
foraggiata, poi l’hanno corazzata, quindi l’hanno sellata. Non manca
niente al suo orgoglio di guerriero: il cavallo lo solleva da terra e lo
innalza verso il cielo, l’armatura sublima la sua carne. Lui non
disdegna la carne, perché è nella carne che gode e che soffre. Ma la
verità di un uomo non sta nella sua carne. E quell’armatura, che non
lascia scoperto nemmeno un brandello di pelle, non serve a proteggere il
suo corpo, serve a nascondere e a rivelare. A nascondere la menzogna
del corpo e a rivelare la verità dell’anima. Le placche d’acciaio sono
la manifestazione visibile dell’invisibile spirito di un uomo. Sono
spirito forgiato nel ferro.
Tutto è perfetto tranne il terreno e il nemico. Lui vorrebbe lanciarsi
contro un battaglione di cavalieri suoi pari, che come lui amassero il
gioco bello della guerra, che volentieri danzassero in quella festa
crudele. Ma gli hanno comandato di caricare gli arcieri inglesi, dei
villani che hanno appena smesso la vanga per imbracciare l’arco. Quella
plebaglia non combatte per l’onore ma per vivere ancora. Non combatte
per la gloria ma per vincere. Non cercano la mischia, la fuggono.
Combattono a piedi, seminudi, senza alcun segno manifesto della loro
anima, ragion per cui lui dubita che ne abbiano una. Quella gente
scaglia dardi di lontano, non c’è verso che uno di loro possa essere
ricordato. Combattono per mettere le mani sui gioielli di un principe,
per poi scambiarli con un fiorino e comprarci il pane da portare alle
loro famiglie sui monti del Galles. Davanti a lui, adesso quei pezzenti
impastati di fango piantano in silenzio pali nel terreno. Come
falegnami.
Ma poi nemmeno questo importa perché accanto a lui i suoi compagni
lanciano urli di guerra, agitano le loro insegne, si passano fiasche di
vini odoriferi, millantano, motteggiano, si amano e ammirano a vicenda,
ricordano e si preparano a essere ricordati.
Lui è pienamente felice. Ancora solo quelle due piccole crepe nella sua
felicità. Il fango che rallenterà la corsa dei cavalli e il silenzio che
proviene dal fondo della piana: la schiera degli arcieri inglesi è
laboriosa ma muta, non c’è gioia tra le loro file, soltanto una cupa
ferocia.
Fortunatamente non c’è più tempo per i pensieri. A momenti giungerà
l’ordine della carica e lui sente attorno a sé l’aria impregnarsi degli
umori del sangue che ribolle quando migliaia di cuori pulsano
all’impazzata nel buio delle armature. Ma l’ordine non viene, le
bandiere rosse non volano, la voce profonda del corno non risuona e su
tutti loro, invece della gloria di Dio, comincia a scendere una sciocca
pioggia di frecce.
Immedesimarsi in un cavaliere francese negli istanti che precedettero la
battaglia di Azincourt è fondamentale per comprenderne gli esiti.
Azincourt non fu, infatti, una grandiosa vittoria ma una grandiosa
sconfitta. Vi furono sconfitti il Medioevo cavalleresco e l’orgoglio del
guerriero a cavallo. Un’intera epoca tramontò nel massacro e un’altra
vi si annunciò. Se non si comprende questo sarà impossibile spiegare
quella memorabile carneficina.
Quando il 25 ottobre 1415 i francesi sbarrarono la marcia degli inglesi
verso Calais, l’esercito d’invasione di Enrico V era effettivamente
ridotto a una banda di pezzenti. Decimati dalle febbri e dalla
dissenteria, sfiniti dalle marce, braccati da settimane, indeboliti
dalla fame, gli inglesi contavano non più di seimila combattenti – mille
uomini d’arme (vestiti di corazza) e cinquemila arcieri – a fronte di
circa venticinquemila francesi, quasi tutti uomini d’arme dei quali
circa un migliaio a cavallo, ben nutriti e ben equipaggiati. Ma contro
la coscienza della superiorità numerica e della supremazia che le
aristocrazie guerriere dei cavalieri avevano esercitato lungo tutto
l’Alto Medioevo, Enrico schierò la tenace disperazione degli umili, la
rigida disciplina dei fanti, il professionismo militare come arte
servile. Schierò, insomma, il futuro.
Il sovrano inglese dispose i suoi in tre gruppi, con gli uomini d’arme
al centro e il grosso degli arcieri collocati sui fianchi, leggermente
aggettanti. Attesero così quattro ore all’inpiedi, ore di fame e di
freddo, l’attacco dei francesi, poi Enrico ordinò ai suoi di avanzare
fino al punto in cui le zone boscose che delimitavano il campo
convergevano a formare un imbuto (a circa 270 metri dai francesi). Fu
allora che gli arcieri cominciarono a piantare indisturbati i loro pali
nel terreno trincerandosi contro la carica dei cavalieri. Se i francesi
li avessero caricati in quel momento, li avrebbero sbaragliati
facilmente. Ma i francesi erano impegnati da ore a bere, vantarsi,
soprattutto a disputarsi i posti d’onore in prima fila sotto lo
stendardo del loro signore feudale. Caricarono soltanto quando calò su
di loro la prima pioggia di frecce, offesi più nell’onore che non nel
corpo da quel tiro indiretto. La carica però si infranse contro
l’istrice di pali appuntiti dietro cui si schermavano gli arcieri che
adesso potevano abbatterli con il tiro diretto. La rotta della
cavalleria si trasformò in una controcarica di cavalli imbizzarriti che
ruppe l’avanzata degli uomini d’arme appiedati che sopraggiungeva alle
loro spalle. Questi, del resto, sdegnarono di battersi con gli arcieri –
che pure li tartassavano indisturbati – e si ammassarono tutti al
centro per incrociare le spade con i loro pari inglesi. Si raggrumarono
così in tre colonne la cui densità amorfa, sommata all’intralcio
dell’armatura, gli impediva quasi ogni movimento. Sotto la spinta dei
propri compagni alle spalle, crollavano come birilli. La vecchia
ideologia della guerra aveva trasformato in inermi i guerrieri di
un’altra epoca.
Ebbe allora inizio la mattanza. Gli arcieri, disinteressati alla
distinzione e interessati solo al bottino, deposero gli archi,
impugnarono asce, mazze e coltelli, e con la sapienza plebea o piccolo
borghese di macellai, maestri d’ascia e corazzai attaccarono i fianchi
scoperti dei francesi aggredendo in piccoli gruppi i singoli uomini
d’arme sconcertati e umiliati. Li finirono a terra, cercando con
punteruoli e squarcine le giunture tra le piastre di metallo. Alla fine
della giornata, accatasteranno più di diecimila cadaveri rivestiti di
acciaio splendente.
Ma già dopo mezzogiorno gli inglesi erano padroni del campo. I cavalieri
francesi della terza schiera rinunciarono alla carica. Volsero le terga
dei cavalli e se ne tornarono ciascuno al proprio castello. Il Medioevo
cavalleresco era finito. Cominciava la modernità, l’epoca della
«universale, indifferente e impersonale morte». Finiva l’età dei
guerrieri, iniziava quella dei soldati.
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