Guido Panvini: Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano, Marsilio
Risvolto
A ridosso del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro da parte delle
Brigate rosse, nel 1978, il dibattito sulle origini della lotta armata
di sinistra si articolò in diverse e spesso contrapposte posizioni.
Rossana Rossanda sul «Manifesto» sostenne che la cultura d’origine del
brigatismo fosse comunista e che le Br condividessero «lo stesso album
di famiglia» del Pci. Ma ci fu anche chi, come Giorgio Bocca, si domandò
se le Br non avessero invece una matrice religiosa, da lui individuata
nel «cattocomunismo».
Si poneva, dunque, un problema fondamentale: il
nesso tra religione cattolica e violenza politica. Quando non pochi
appartenenti alle formazioni armate di sinistra risultarono avere
iniziato la militanza rivoluzionaria nell’associazionismo cristiano -
frequentato anche durante la clandestinità - questo nesso si rivelò in
tutta la sua evidenza. Tra i casi più clamorosi, Renato Curcio e
Margherita Cagol, provenienti entrambi da un’educazione cristiana. Ma
non solo a sinistra: anche l’estremismo e il terrorismo nero si
intrecciavano con gli ambienti cattolici tradizionalisti.
In questo
saggio Guido Panvini fa rivivere il clima e le vicende di quegli anni,
in un percorso esaustivo e documentato: dai primi anni sessanta al ’77,
dalle ricadute post-conciliari al conflitto in fabbrica e ai preti
operai, fino agli anni ottanta. Nuovi elementi, troppo a lungo
trascurati, vengono finalmente alla luce, consentendo di fare i conti
con una zona d’ombra della nostra storia nazionale.
L’altra faccia dei cattolici Così il terrorismo politico dilagò nella società italiana
Il
libro di Guido Panvini ricostruisce il clima nel Paese durante gli anni
di piombo quando anche insospettabili scelsero la lotta armata
di Marco Almagisti l'Unità 12.3.14
DURANTE
I CINQUANTACINQUE GIORNI DEL SEQUESTRO DI ALDO MORO, ROSSANA ROSSANDA
INDICÒ UNA CONTINUITÀ NELLE MATRICI CULTURALI DEI BRIGATISTI RISPETTO
ALLE PAROLE D’ORDINE DELLO STALINISMO, parlando di un «album di
famiglia» (Il Manifesto, 2 aprile 1978). In quelle settimane, un altro
punto di riferimento della cultura di sinistra, quale Giorgio Bocca,
allargò l’ambito d’origine del terrorismo italiano anche ad alcuni
spezzoni del mondo cattolico, parlando di «cattocomunismo». (Il
terrorismo italiano, 1970/78, Garzanti, 1978). L’incandescente polemica
politica scatenata soprattutto dalle riflessioni di Rossanda – in realtà
molto più complesse di quanto fossero disposti ad intendere molti suoi
interlocutori – tradusse in termini di conflitto strumentale una
questione cruciale per la storia italiana, ossia la ricostruzione delle
matrici culturali della violenza politica.
Bene ha fatto Guido
Panvini ad iniziare il suo ottimo libro Cattolici e violenza politica.
L’altro album di famiglia del terrorismo italiano (Marsilio, 2014)
richiamando proprio le analisi a caldo di Rossanda e Bocca, con cui
condivide la volontà di non limitarsi ad interpretare la violenza
politica quale semplice rigurgito irrazionale. Come già nel precedente
Ordine nero, guerriglia rossa (Einaudi, 2009), Panvini analizza
l’insorgenza della violenza politica in Italia collocandola in un
contesto entro il quale risultano determinanti le reazioni delle diverse
culture politiche nei confronti dei processi di modernizzazione in
corso nel Paese. Nella fattispecie, con riguardo agli ambienti cattolici
significa analizzare le trasformazioni dell’Italia contemporanea in
costante rimando al Concilio Vaticano II. Chiunque coltivi una visione
monistica della Chiesa cattolica dovrebbe leggere la ricostruzione di
cosa il Concilio provocò nel mondo cristiano, con il venir meno
dell’identificazione acritica fra Cristianesimo e Occidente. In quel
contesto, molti giovani cattolici si socializzarono all’impegno
simpatizzando con i movimenti di liberazione nazionale in Africa, Asia
ed America Latina. Opportunamente, il secondo capitolo del libro (Alla
destra del Padre) mostra l’altra faccia della luna, analizzando le
posizioni dei cattolici tradizionalisti vicini alla destra radicale. Qui
a flirtare ambiguamente con la violenza vi erano quanti ritenevano la
democrazia liberale un argine troppo friabile contro il comunismo e
vivevano la modernità quale «cospirazione». Ambiguità verso la violenza
v’erano anche fra i cattolici di sinistra, come emerge dal quarto
capitolo («Il nodo della violenza tra post-concilio e contestazione»),
nel quale si ricostruisce come la critica dello sfruttamento e della
mercatizzazione della società divenga per alcuni avversione per la
democrazia e ricerca di vie insurrezionali.
Il valore aggiunto del
libro è costituito dalla capacità di intrecciare piani diversi: Panvini
ci guida sapientemente lungo processi che vedono mescolarsi le grandi
questioni di un mondo in trasformazione con storie di vita di persone
che scelgono esperienze di militanza radicale, fino, in alcuni casi, ad
entrare nel gorgo della lotta armata.
Due sono le questioni in
merito alle quali il libro di Panvini mi ha indotto a riflettere, una
volta terminata la lettura. La prima concerne la profondità della
frattura che in Italia separa la società dalle istituzioni. L’epilogo
del libro lo sottolinea attraverso il resoconto di un accadimento dotato
di elevato impatto simbolico: il 13 giugno 1984 i Comitati comunisti
rivoluzionari (Cocori) consegnano il proprio arsenale al Cardinale di
Milano, Martini, ossia alla Chiesa. Frutto della «silenziosa attività
che la Chiesa aveva svolto nell’azione sociale e nella riconciliazione»
(p. 384) quell’atto ci interpella per le sue implicazioni politiche. A
tal punto giunge la sfiducia nello Stato, che la Chiesa in Italia
finisce per supplire anche alla funzione cardine della moderna
statualità: garantire il monopolio dell’uso legittimo della forza. Il
secondo spunto che induce questa lettura richiama l’ambiente complessivo
entro il quale Panvini ha condotto la sua analisi. Il «focus» concerne
le sorgenti di alcuni percorsi che, dalla militanza in corpi intermedi
cattolici, scaturiscono nella violenza politica. Eppure, per delineare
tali esperienze l’autore ricostruisce magistralmente l’intero contesto
del mondo cattolico negli anni Sessanta e Settanta. Il Concilio Vaticano
II costituisce l’immenso punto di svolta di una stagione problematica,
innovativa e fertile, come emerge appieno anche dal bel libro di
Giuseppe Battelli (Società, Stato e Chiesa in Italia), edito da Carocci
nelle scorse settimane. Il confronto serrato con la «multiforme
modernità » produce nel mondo cattolico risposte articolate. È da
rimarcare quanto questo pluralismo interno al cattolicesimo italiano sia
sopravvissuto alle scelte eversive di alcune minoranze e al susseguente
richiamo all’ordine delle gerarchie, rimanendo a volte latente durante
le stagioni in cui più forte è risultato l’allineamento unitario e
antemurale guidato dalla Cei. Ma senza mai disperdersi del tutto. In
questi anni, a molti è capitato di incontrare esponenti politici che
parlano «a nome dei cattolici» (con il sottinteso che solo loro – non
certo altri – possono farlo e quindi possono rappresentare politicamente
i cattolici). Salvo poi verificare empiricamente quale varietà di
posizioni politiche possano germogliare all’interno dello stesso mondo
cattolico. Papa Francesco pare volgersi coraggiosamente a tale pluralità
considerandola quale ricchezza e lievito potenziale della sua azione
riformatrice. Sono da attendere anche da questa variegata filigrana i
contributi di un pensiero che sappia essere critico di come oggi vanno
le cose nel mondo.
L’album di famiglia cattolico dell’utopia rivoluzionaria
Anche un’ispirazione religiosa alle radici del terrorismodi Paolo Mieli Corriere 4.2.14
Lo
snodo che consente di approfondire il rapporto tra cattolici e violenza
politica nel secondo dopoguerra ha una data (7 luglio 1960), un luogo
(il sagrato della chiesa di San Francesco di Reggio Emilia), e anche un
nome: Lauro Farioli. Siamo nei giorni del governo presieduto da
Ferdinando Tambroni e sostenuto dal Movimento sociale italiano. Le
sinistre sono in rivolta dopo che a Genova, città medaglia d’oro della
Resistenza, si è tentato, tra la fine di giugno e i primi di luglio, di
celebrare il congresso del Msi. Celebrazione autorizzata dal governo. Ma
una rivolta di piazza ha impedito che si tenessero le assise e la
rivolta si è subito estesa ad altre città italiane, avendo a bersaglio,
oltre al Msi, il governo stesso. A Reggio Emilia, il 7 luglio, la
polizia spara e uccide cinque persone: Lauro Farioli, Afro Tondelli,
Ovidio Franchi, Marino Serri ed Emilio Reverberi. Ancora nel 2010,
cinquant’anni dopo, Silvano Franchi, fratello di Ovidio, ricordava così
quei tragici accadimenti: «Quel pomeriggio ci fu premeditazione e gli
omicidi furono portati a termine grazie a un’organizzazione impeccabile
da parte dello Stato. Con la grave collaborazione del vescovo di allora,
Beniamino Socche, che fece chiudere tutti i portoni delle chiese del
centro. Così facendo precluse le vie di salvezza per i manifestanti». A
cominciare da quel Farioli il cui corpo giacque, come si è detto, sul
sagrato della chiesa di San Francesco. Ettore Farioli, figlio di Lauro,
in un’intervista al «Resto del Carlino» del 7 luglio 2010, indicava
ancora una volta nell’alto prelato il responsabile del terribile lutto
che aveva colpito la sua famiglia: «Era tutto premeditato. I portoni
delle chiese quel giorno erano chiusi, più di una persona me lo ha
confermato. Il primo tentativo di mio padre è stato quello di entrare in
San Francesco. Poi è caduto sul sagrato. Non potrò mai vedere la Chiesa
come un’istituzione al di sopra delle parti». Imputato di queste
ricostruzioni è sempre stato l’allora vescovo di Reggio Emilia Beniamino
Socche, avversato dai comunisti fin dal 1946, quando aveva celebrato la
messa funebre per don Umberto Pessina, ucciso da ex partigiani
nonostante la guerra di Liberazione fosse finita da oltre un anno. Dai
tempi del processo per la morte di don Pessina, Beniamino Socche non
aveva mai cercato di occultare il suo anticomunismo e si era anche
pronunciato per la messa fuori legge del partito di Palmiro Togliatti.
Quel 7 luglio — secondo queste ricostruzioni — avrebbe fatto chiudere i
portoni delle chiese per impedire che i «comunisti» scesi in piazza
contro Tambroni potessero avere una via di fuga dai proiettili della
polizia.
In un eccellente libro pubblicato per i tipi di Marsilio,
Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo
italiano , Guido Panvini individua in quell’episodio il prologo della
storia che ha ricostruito con impeccabile rigore. Impegnandosi ad
integrare l’«album di famiglia» dei brigatisti rossi descritto da
Rossana Rossanda alla fine degli anni Settanta. Nei giorni che avevano
preceduto l’eccidio, ricorda Panvini, Socche si era espresso duramente
sul comportamento dei manifestanti, «contribuendo», scrive, «a innalzare
il clima di tensione». A commento dei primi incidenti, il 4 luglio, «La
Libertà», settimanale della diocesi di Reggio Emilia, aveva così
ammonito il partito di Togliatti: la «violenza genera violenza e non si
può calcolare la forza di reazione che episodi come quello di Reggio
Emilia possono provocare». Poi, subito dopo l’uccisione di Farioli e
degli altri quattro, proprio mentre giungevano notizie di episodi
analoghi in Sicilia, Socche volle esprimere la propria solidarietà agli
agenti che avevano sparato. Nella relazione mensile della prefettura di
Reggio Emilia del 3 agosto 1960 si legge: «L’autorità ecclesiastica ha
voluto anch’essa far conoscere il proprio pensiero attraverso la viva
voce del vescovo di Reggio Emilia mons. Beniamino Socche, il quale, nel
corso di una conferenza tenuta presso il locale seminario alla parte più
qualificata del clero, ha rivolto un plauso alle forze dell’ordine per
aver saputo tutelare le istituzioni democratiche; dopo aver fatto
rilevare la pericolosità e la violenza dimostrata dai comunisti nelle
ultime manifestazioni di piazza, ha dichiarato che sono tuttora valide
le condanne contro il socialismo emanate dagli organi responsabili della
Santa Sede e che, pertanto, qualsiasi collaborazione col comunismo è
condannata, come è condannata qualsiasi collaborazione col socialismo
unito al comunismo». Un evidente sostegno all’azione di repressione dei
moti. E un altrettanto evidente altolà al dialogo che si stava
intrecciando tra Democrazia cristiana e Partito socialista italiano;
dialogo che di lì a breve avrebbe portato alla caduta del gabinetto
Tambroni e alla nascita di un governo presieduto da Amintore Fanfani,
appoggiato (tramite astensione) dai parlamentari del Psi.
Qui entra
in scena un protagonista della vicenda raccontata da Panvini: Corrado
Corghi. Corghi, capo della federazione della Dc di Reggio Emilia, nella
riunione della direzionale nazionale del partito che si tiene l’11
luglio, prendendo le distanze dal suo vescovo, condanna l’operato delle
forze di polizia. Insinua addirittura che tra i poliziotti siano stati
infiltrati amici e complici dei neofascisti. E partecipa ai funerali
delle vittime dell’eccidio. Ciò che provoca l’irritazione di monsignor
Socche, il quale se ne lamenta con il ministro dell’Interno, Giuseppe
Spataro, chiedendo esplicitamente che vengano presi provvedimenti contro
l’esponente dc della sua diocesi. «La chiusura delle porte della Chiesa
di San Francesco e il corpo di Lauro Farioli davanti al sagrato»,
scrive Panvini, «assumono, in questo contesto, una valenza emblematica, a
prescindere dalla possibilità di accertare se vi sia stata una
deliberata decisione da parte delle locali autorità ecclesiastiche di
sbarrare le chiese della città in occasione della manifestazione del 7
luglio». Già, perché nella ricostruzione è rimasto in ombra il fatto che
monsignor Socche non ricevette nessun rilievo, neanche vago, dal Papa
dell’epoca, Giovanni XXIII. Che Pasquale Marconi, deputato
democristiano, tra i fondatori del Cln di Reggio Emilia, difese in quel
frangente sia il vescovo che l’operato della polizia. Del resto, pochi
giorni prima della strage di Reggio, il 1° luglio 1960, l’Associazione
partigiani cristiani di Parma aveva denunciato fermamente i tentativi di
comunisti e socialisti di «servirsi del nome della Resistenza stessa
per inscenare agitazioni e rivolte di piazza, tese ad avvilire o
sovvertire gli ordinamenti democratici». Non va dunque trascurata la
circostanza che monsignor Socche si sentiva confortato da ex partigiani
bianchi, i quali consideravano le manifestazioni contro Tambroni una
strumentalizzazione dei sentimenti antifascisti da parte del Pci e un
tentativo dei socialisti di forzare la mano alla Democrazia cristiana in
vista della formazione di un nuovo governo «aperto a sinistra». In
Senato, Raffaele Cadorna aveva sostenuto Tambroni, dimettendosi dalla
presidenza della Federazione italiana dei Volontari della libertà, e
allo stesso modo Mario Ferrari Aggradi, esponente di spicco del mondo
partigiano cristiano, aveva accettato di sostituire alla guida del
ministero dei Trasporti Fiorentino Sullo, che, ai primi di aprile, si
era dimesso (assieme ad altri due titolari di dicastero: Giulio Pastore e
Giorgio Bo) per protesta contro i voti determinanti del Msi. Socche per
di più sostenne che le accuse formulate contro di lui da alcuni
familiari dei morti di Reggio Emilia non avevano fondamento. Tant’è che
don Emilio Landini, in tempi recenti, ha potuto così ricordare — senza
peraltro ricevere smentite o puntualizzazioni — quella tragica giornata
di luglio: «Il vescovo non aveva assolutamente emanato alcuna
disposizione per la chiusura delle chiese. La basilica della Ghiara era
aperta, come altre chiese della città, nonostante si trattasse di un
primo pomeriggio di luglio. Chiusa invece era la chiesa di San
Francesco, prospiciente la piazza dove sono avvenuti gli scontri. Chiusa
volutamente per iniziativa del viceparroco (curato) di allora don
Cesare Frignani, il quale tuttora ribadisce che, volendo prevenire
tafferugli in chiesa, anche altre volte aveva preso la stessa
precauzione in occasione di precedenti manifestazioni a rischio di
degenerare».
Ma torniamo al luglio del 1960. Fino a quell’estate la
Chiesa di Giovanni XXIII sembrava non voler scegliere tra i settori del
mondo cattolico favorevoli e ostili al governo Tambroni. Il 19 aprile un
articolo del giornale della Dc, «Il Popolo» (Il mito dello Stato forte
), a firma Giovanni Lupo, denunciò — in sottile polemica contro i
sostenitori di Tambroni — i movimenti nell’ombra di «notevoli gruppi di
“catilinari” nei più diversi partiti» che si attivavano per rafforzare
«il potere esecutivo a discapito di quello legislativo». Il 18 maggio
«L’Osservatore Romano» pubblicò l’articolo Punti fermi , in cui si
ribadiva la condanna del socialismo (vale a dire anche del Psi). Alla
fine di quello stesso mese parve che si materializzassero i «catilinari»
di cui sopra, allorché i centri Luigi Sturzo organizzarono
all’Angelicum di Roma un convegno, coordinato da Luigi Gedda, sul tema
«La liberazione dal socialcomunismo». Al convegno presero parte Oscar
Luigi Scalfaro, sottosegretario al ministero dell’Interno, e Giuseppe
Rapelli, esponente della sinistra democristiana, assieme a Randolfo
Pacciardi (in procinto di abbandonare il Partito repubblicano per i
contrasti con Ugo La Malfa, favorevole al centrosinistra), a Gianni
Baget Bozzo (fondatore di «Ordine civile», che auspicava un fronte
anticomunista che andasse dalla Dc al Msi: «Tutto ciò che si oppone al
comunismo, in quanto si oppone al comunismo, ha ragione di bene»,
scriveva), al direttore del «Borghese» Mario Tedeschi, ai missini Giulio
Caradonna e Pino Romualdi. Scalfaro si compiacque del fatto che
potessero lì «parlare insieme uomini che forse quattordici anni fa
(quando era stata fondata la Repubblica, ndr) si poteva pensare fossero
su posizioni inconciliabili». Garante del dialogo, secondo il futuro
presidente della Repubblica, sarebbe stato il Vaticano, alle cui
direttive i cattolici avrebbero dovuto conformarsi senza riserve: «Come
figli devoti della Chiesa, quando la Chiesa ha parlato, se ne prende
atto e si ubbidisce», disse Scalfaro. Ancor più avrebbe alzato i toni
Enzo Giacchero, un altro parlamentare dc (che anni dopo approderà
all’estrema destra), il quale aveva esortato a «combattere» nel nome
dell’impegno «che ci deriva dalla morale e dalla dottrina della Chiesa».
«Era chiara», scrive Panvini, «la strumentalità di questa retorica,
ancor più evidente dato che il richiamo alla liceità dell’uso della
forza alludeva non tanto alla ribellione, quanto, piuttosto, a un’azione
di repressione preventiva da parte dello Stato di fronte all’avanzare
delle sinistre nella società».
La Dc si irritò. E già il 27 maggio
sul «Popolo» (organo democristiano) Raniero La Valle sconfessò quel
convegno che, a suo giudizio, aveva fatto notizia solo per il fatto,
sgradevole, di aver «mischiato» Sturzo con «Il Borghese». Ma quando poi
si ebbero le manifestazioni e la reazione a fuoco della polizia
destinata a provocare la caduta del governo Tambroni, «L’Osservatore
Romano» pubblicò un articolo dal titolo Il Governo intende impedire che
la piazza si sostituisca al Parlamento . Con un’«asettica cronaca» che,
scrive Panvini, «poteva essere fraintesa e letta come indizio di una
neutralità benevola del Vaticano nei confronti di Tambroni». Al momento
delle manifestazioni di Genova, però, alcune federazioni democristiane
avevano permesso l’afflusso dei propri militanti nel capoluogo ligure e
lo stesso avevano fatto molte sezioni delle Acli e della Cisl. Ciò che
generò nell’universo cattolico un grande disorientamento, per il quale
due parti di quel mondo si sospettavano l’un l’altra di essere
inconsapevolmente finite sotto la guida dei comunisti o dei neofascisti.
Sospetti destinati a perpetuarsi nel tempo. Nell’ottobre del 1961
il cardinale Alfredo Ottaviani, a capo della Congregazione del
Sant’Uffizio e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede,
compì un viaggio in Spagna nel corso del quale rinnovò l’appoggio
entusiasta della Chiesa al regime franchista. Nell’occasione il
cardinale esaltò il ruolo avuto da Francisco Franco alla fine degli anni
Trenta quando — sono parole sue — «furono rigettate dal sacro suolo
della Spagna le orde devastatrici di ogni ordine cristiano e di ogni
umana dignità e libertà». «Dirò di più», aveva proseguito l’illustre
porporato, «con quelle gesta eroiche fu salvata non soltanto la Spagna,
ma tutto l’Occidente cristiano dalla minaccia della schiavitù che veniva
dall’Oriente… Fu dunque santa crociata che frenò in Occidente l’impeto
assaltatore dei rossi, nemici della Croce di Cristo… Dobbiamo alla
Spagna la prima resistenza, non soltanto armata, ma interiore e di
pensiero a queste civiltà anticristiane che han tentato via via di
abbattersi sul cristianesimo». Per poi concludere con parole di
riconoscenza all’uditorio spagnolo: «La Chiesa sa cosa sono i vostri
cuori; la Chiesa ha veduto con che eroica fortezza avete resistito a chi
voleva strappare dal vostro cuore Cristo e dalla vostra terra la
Croce». Tutto ciò, fa osservare Panvini, nel terzo anno di pontificato
di papa Roncalli (il quale però veniva già allora indicato come nemico
del cardinale Ottaviani). E qualche mese dopo l’enciclica giovannea
Mater et magistra (luglio 1961), pur ribadendo la condanna dei regimi e
delle ideologie socialiste, denunciava i danni del colonialismo e
l’egoismo dei ceti privilegiati, lasciando intuire che la Chiesa a modo
suo stava aprendo alle novità della decolonizzazione. Ancor più
esplicita, in direzione di un’apertura di dialogo con i Paesi comunisti,
sarebbe stata la prima enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam , emanata
il 6 agosto del 1964. In tal senso Paolo VI può essere considerato il
vero Pontefice della svolta. Ma né quelle encicliche né i lavori del
Concilio Vaticano II furono tali da dissipare i sospetti — da parte di
quei settori del mondo cattolico che andavano avvicinandosi alla
nascente sinistra extraparlamentare — che la Chiesa stesse scivolando a
destra. Sul versante opposto encicliche e Concilio provocavano, per
reazione, una radicalizzazione della destra cattolica, destinata ad
alimentare altrettanti sospetti di «scivolamento» nei settori
contrapposti.
Assai interessante, nello studio di Panvini, è la
descrizione del contesto internazionale in cui si svolse questo
complicato dibattito. Con un riferimento piuttosto esplicito alla guerra
d’Algeria. Nell’oltremare francese era in atto una lotta di liberazione
che nel 1962 avrebbe portato il Paese all’indipendenza. Ma che, nel
frattempo, aveva prodotto, in Algeria, forme di terrorismo e di
repressione particolarmente cruente. Nonché, in Francia, il colpo di
Stato gollista del 1958. Di particolare rilievo fu a quei tempi la
legittimazione teologica, compiuta dalla Cité catholique, delle brutali
pratiche dell’esercito francese in Algeria, che costituì «uno dei
principali punti di raccordo» tra questo movimento e gli ambienti
militari più oltranzisti, decisi a mantenere il controllo sulla colonia.
La Cité catholique, assieme alla rivista «Verbe», era stata fondata nel
1946 da Jean Ousset, già dirigente dell’Action française. Il gruppo
propugnava «la difesa dell’Europa dalla minaccia del comunismo ateo che
si era alleato all’islam per abbattere l’ultimo baluardo della
cristianità occidentale in Nord Africa», di modo che le «quinte colonne
sovietiche» in Francia avessero l’occasione «di “scattare” per prendere
il potere». Secondo Ousset, «minacciando le fondamenta dell’ordine
cristiano, i comunisti commettevano un crimine superiore a ogni altro e
per questo motivo contro di loro ogni mezzo di repressione era lecito,
compresa la tortura». Tesi che suggestionarono fortemente il mondo
cattolico francese. E che legittimarono, come si è detto, gli ultras del
colonialismo.
A farne le spese fu monsignor Léon-Etienne Duval,
arcivescovo di Algeri, sostenitore della coabitazione tra francesi e
algerini e, in quanto tale, oggetto di duri attacchi da parte degli
estremisti che si erano dati come simbolo il Sacro cuore rosso
sormontato da una croce. Interessante è la ricostruzione dell’influenza
della Chiesa (o di parte di essa) sulle motivazioni ideali del tenente
colonnello Jean-Marie Bastien-Thiry. Nel parlò lui stesso nel 1963,
prima di essere fucilato per aver attentato, nell’agosto dell’anno
precedente, alla vita di Charles de Gaulle: «Noi non siamo dei
sovversivi e abbiamo agito per salvare delle vite umane innocenti,
sacrificate da un potere tirannico. San Tommaso d’Aquino ci dice che ad
essere sedizioso e ad alimentare nel popolo le discordie e le sedizioni è
il tiranno, dal momento che il regime tirannico non è giusto e non ha
come fine il bene comune: sono perciò degni di lode coloro che liberano
il popolo da un potere tirannico. Noi pensiamo che gli eminenti
ecclesiastici che abbiamo consultato e che non ci hanno dissuasi dalla
nostra azione non abbiano fatto altro che ricordarsi dei comandamenti
divini, del principio e del diritto di legittima difesa e della morale
tradizionale insegnata dalla Chiesa».
Finita o in via di conclusione
la guerra d’Algeria, nel mondo cattolico questo genere di
considerazioni continuarono ad avere una qualche eco. Non irrilevante.
Come anche, però, quelle di segno opposto. Il 25 aprile del 1961, il
presidente dell’Eni, ex comandante partigiano cattolico, Enrico Mattei
commemorava l’anniversario della Liberazione con queste parole allusive
all’azione del Fronte di liberazione algerino: «Se allarghiamo lo
sguardo ad altre terre, vediamo popoli al di là dei mari che ancora oggi
lottano per la libertà. Noi ci sentiamo ad essi vicini, appunto perché
la nostra esperienza ci ha reso particolarmente sensibili a questo
dovere di comprensione umana. Dovunque un’invasione sia tentata,
dovunque piccoli tiranni o grandi potenze minaccino di soffocare la
libertà umana, la nostra reazione non può essere che di condanna».
Condanna della Francia, beninteso. Poi Mattei entrava nello specifico e
proponeva un paragone tra i «resistenti» italiani e quelli di Algeri:
«Essi sono ribelli, o amici partigiani, è vero, come lo siamo stati noi
quando fummo costretti a ribellarci contro la ingiustizia, la prepotenza
e la sopraffazione, per la sacrosanta difesa dei diritti umani, e noi
siam convinti che quando un popolo, bianco o di colore, combatte con
tutta l’anima per la sua libertà, Dio è suo alleato». Questo, sei mesi
prima delle parole di cui si è detto, pronunciate dal cardinale
Ottaviani, di entusiastico elogio dell’esperienza franchista in Spagna. E
sette mesi prima che su «La Vita cattolica», un periodico della diocesi
di Cremona, si proponesse (il 28 novembre 1961), una maliziosa
comparazione tra le tattiche sperimentate dai comunisti nella Resistenza
e quelle adottate dai guerriglieri asiatici: «Ad essi (i partigiani del
Pci, ndr ) risale la responsabilità di massacri di inermi popolazioni
colpite dalla rabbia vendicativa delle SS tedesche aizzate con ben
premeditate azioni di guerra dai rossi… Lo stesso metodo è stato attuato
in Corea, in Cina, nel Laos, nel Vietnam». Come si vede, dal mondo
cattolico venivano indicazioni tra loro fortemente contraddittorie.
Nel
1964 il segretario nazionale di Pax Christi, René Coste, promosse un
convegno sul tema della coscienza cristiana al cospetto delle «nuove
tecniche della sovversione comunista». «La Civiltà Cattolica» ne scrisse
una recensione entusiasta. «Per Pio IX e Leone XIII», sosteneva la
rivista dei gesuiti, «l’uso della violenza per rovesciare un regime,
anche se tirannico e lesivo della legge naturale e dei diritti
fondamentali della persona umana, era da intendersi come proibito dalla
morale; per altri, invece — a capo della schiera sta san Tommaso
d’Aquino —, a certe condizioni che si possono enucleare dal caso della
legittima difesa, era da ritenersi legittimo. A questa opinione diede il
suo autorevole suffragio Pio XI, nella lettera all’episcopato messicano
del 28 marzo 1937… Il caso particolare allora discusso può, senza
dubbio, presentarsi anche al tempo presente». Con il che ad ogni
evidenza si intendeva proiettare quella presa di posizione di papa Ratti
sulla situazione italiana degli anni Sessanta.
Nel 1964, il
responsabile del dipartimento di Agitazione e propaganda dell’Urss,
Leonid Illicev, annunciò una campagna antireligiosa accompagnata
dall’istituzione nelle università di cattedre di ateismo. Paolo VI, che
pure — come si è detto — fu il Papa che arginò la deriva più
conservatrice della Chiesa, a quel punto provò a raffreddare anche la
politica del dialogo con il mondo comunista. Ma quei cattolici che si
erano avviati per i sentieri dell’interlocuzione con la sinistra
proseguirono spediti il loro cammino: il loro giudizio sull’Unione
Sovietica, fa notare Panvini, «venne formulato in parallelo a una
serrata critica della democrazia liberale, accusata di essere subalterna
ai poteri economici». Una critica «così viscerale da spingerli a una
fondamentale omissione… Per quanto imperfetti e contraddittori, infatti,
i sistemi democratici garantivano, comunque, i diritti politici e
civili ai quali di fatto venne, invece, anteposta la “libertà
sostanziale” dei regimi comunisti, considerata superiore alle libertà
formali presenti in Occidente».
Siamo a metà degli anni Sessanta e
inizia a delinearsi l’«album di famiglia» cattolico. Assai diverso da
quello comunista di cui avrebbe parlato Rossana Rossanda. Nel senso che
l’album cristiano prendeva forma in contrasto a una supposta deriva
della Chiesa avvertibile nella confusione che caratterizzò la
transizione da Pio XII a Giovanni XXIII e, successivamente, a Paolo VI.
Di
modelli ne venivano da ogni parte del mondo. In Francia l’abbé Pierre,
frate cappuccino, già cappellano nella Resistenza, fondatore della
comunità Emmaus, difensore dei Tupamaros uruguayani e amico dei
fondatori delle Brigate rosse, fu il primo a prendere in considerazione
la via della lotta armata. Qualcuno ha sostenuto che sia stata, quella
dell’abbé Pierre, un’iniziativa che faceva riferimento a «centrali
internazionali della provocazione». Ma anche riguardo alla tesi che la
scuola di lingue Hyperion, riconducibile all’entourage dell’abbé Pierre,
fosse legata alla Cia o ai servizi segreti di mezzo mondo (formulate da
Giovanni Pellegrino, Rosario Priore e Giovanni Fasanella), secondo
Panvini, si tratta «di congetture e di interpretazioni basate su una
documentazione spesso parziale e lacunosa, che per quanto suggestive
sono in gran parte da provare».
In Italia fa scalpore a metà degli
anni Sessanta il sostegno offerto dal sindaco di Firenze Giorgio La Pira
(e da ampi settori della sinistra Dc) all’«eroica lotta dei vietcong»
contro l’imperialismo statunitense. Altro personaggio di riferimento
diviene padre Camilo Torres, guerrigliero dell’Esercito di liberazione
colombiano caduto in combattimento nel febbraio del 1966, poco dopo aver
lasciato l’abito talare ed essersi dato alla clandestinità. Nel 1966 la
rivista francescana «Frères du monde» propone alla Chiesa di condannare
la violenza «oppressiva» del capitalismo e di solidarizzare con quella
«liberatrice» dei movimenti di guerriglia. Nel febbraio del 1967, prima
che sia emanata l’enciclica Populorum progressio , si tiene in Francia
la XIX Settimana sociale degli intellettuali cattolici, nel corso della
quale l’arcivescovo di Parigi Pierre Veuillot denuncia la violenza
insita nell’«ordine economico e sociale» delle democrazie, René Rémond
quella che «giunge a degradare l’altro a rango di mezzo o di strumento
in un piano che lo assorbe e lo ingloba» e il direttore di «Esprit»
Jean-Marie Domenach punta l’indice contro la violenza «subdola, quella
che si nasconde dietro l’abitudine, l’ordine, la galanteria dei salotti,
l’anonimato degli uffici». Un insieme così suggestivo che nel giugno
del 1967 Flaminio Piccoli (tra i più cauti dirigenti della Dc) poté
scrivere su «La Discussione»: «Molti di noi se avessero l’occasione di
entrare in intimo contatto con il mondo latinoamericano, sarebbero
tentati di diventare guerriglieri essi stessi, come in realtà altre
persone coscienti hanno fatto… Ogni collaborazione con le attuali classi
dirigenti latinoamericane è inutile e assume l’apparenza di colpevole
complicità; i cattolici del resto non sono nuovi alla lotta di
opposizione ai regimi dispotici, la resistenza europea nel corso
dell’ultima guerra ne è stata la prova migliore… È vero che in questo
caso manca la premessa di un’azione bellica cui opporsi; i cattolici
hanno però il dovere di opporsi a un’aggressione sociale quasi
altrettanto violenta». E sono trascorsi appena sei anni dagli
incondizionati elogi — di cui abbiamo detto — del cardinale Ottaviani al
regime franchista.
Adesso è il momento in cui Pedro Arrupe,
preposito generale della compagnia di Gesù, offre un’interpretazione
assai ardita della Populorum progressio (marzo 1967); sono i giorni in
cui 17 vescovi di Asia, Africa, America Latina ed Europa orientale
sottoscrivono una lettera che invoca un maggior impegno della Chiesa per
la giustizia sociale (settembre 1967); in cui si tiene una riunione di
esponenti cattolici a Santiago del Cile, nella quale si spiega come la
«violenza rivoluzionaria» sia in totale sintonia con gli insegnamenti
del Concilio Vaticano II (dicembre 1967); in cui a Montevideo si svolge
il convegno latinoamericano dal titolo «Cristianismo y Revolución»
(febbraio 1968); in cui a Medellín, in Colonia, si ha la terza assemblea
plenaria della Conferenza episcopale latinoamericana, che dà il la alla
teologia della liberazione (27 agosto-7 settembre 1968). In alcuni
casi, come in Brasile, frati domenicani prendono le armi. E dall’America
Latina questi concetti e queste parole d’ordine rimbalzano rapidamente
in Europa, soprattutto in Italia. «Colpisce», scrive Panvini, «il modo
repentino con cui molti ambienti cattolici passarono dal sostegno alle
pratiche e alle teorie della non violenza, all’ammissibilità della
violenza rivoluzionaria». Praticamente all’epoca quasi soltanto Danilo
Dolci, Carlo Cassola e i radicali di Marco Pannella tengono il punto.
L’editoriale del settembre 1967 della rivista «Testimonianze» avanza
espliciti dubbi sui metodi della non violenza così come erano stati
pensati da Gandhi e da Martin Luther King, definendoli «poco utili al
Terzo Mondo». Il 17 novembre 1967 inizia la grande stagione del
movimento studentesco con l’occupazione a Milano della Cattolica. A
Trento, nel febbraio del 1968, nove sacerdoti solidarizzano con gli
studenti che occupano l’università, sostenendo che «la violenza prima e
più colpevole è quella organizzata in sistema» e che «prima della
collera dei poveri viene la sopraffazione dei ricchi». Nella stessa
città, in marzo, lo studente Paolo Sorbi interrompe la predica di un
sacerdote durante la messa e inaugura sul sagrato del Duomo i cosiddetti
«controquaresimali». A Lecce accade qualcosa di analogo. La presenza di
cattolici nelle manifestazioni studentesche e nelle leadership del
movimento è ragguardevole. Persino i gruppi che si richiamano a don
Giussani si lasciano contagiare. Ma non siamo ancora alla lotta armata.
Qui torna in campo la figura di quel Corrado Corghi che abbiamo
conosciuto come avversario, nel luglio 1960, del vescovo Socche. Corghi
ha agito da agente di collegamento con gli irrequieti cattolici
dell’America Latina, è diventato amico di Régis Debray, tra il 1967 e il
’68 è uscito dalla Dc. Il Pci guarderà a lui con cautela, il Psiup con
grande apertura, Alberto Franceschini, uno dei primi brigatisti rossi,
lo indicherà come un maestro. Corghi raccomanda ai ragazzi che si
rivolgono a lui di seguire l’«imperativo evangelico»: «Noi cristiani
siamo nati nella fede non per mediare tra i violenti e gli oppressi, tra
i fascismi di ogni tempo e i torturati… noi siamo nati nella fede di
Cristo per assumere tutte le responsabilità che ci vengono dalla nostra
condizione di uomini di questo tempo storico… stai con l’oppresso e
difendi l’oppresso, vivi nella condizione dell’oppresso se vuoi essere
capace di lottare contro ciò che opprime». E il brigatista Franceschini
dirà di aver raccolto questa esortazione. Anche se, scrive
esplicitamente Panvini, «sarebbe errato indicare Corghi come il grande
vecchio del terrorismo di sinistra». Dopo la deposizione e l’uccisione
di Allende in Cile (11 settembre 1973), le compromissioni della
Democrazia cristiana locale con il colpo di Stato di Pinochet fecero
riapparire nelle menti di molti cattolici i fantasmi degli anni
Sessanta. E si moltiplicarono le giustificazioni della lotta armata. A
questo punto, scrive Panvini, «nonostante i distinguo, le specificazioni
e le sottigliezze», si ha da parte di molti, come Giovanni Franzoni (ma
non solo lui), «quasi una legittimazione indiretta di chi ha
imbracciato le armi». Persino nei movimenti che fanno capo a don
Giussani si ritrova qualcosa di «ambivalente».
Ma questa
ambivalenza, che è poi di tutto il mondo cattolico, consentirà alla
Chiesa (soprattutto per un ripensamento più profondo seguito
all’uccisione, nel 1980, di Vittorio Bachelet) di essere pronta ad
accogliere l’onda di riflusso dal terrorismo. C’erano stati già eventi
particolarmente traumatici, primo tra tutti il rapimento e l’assassinio
di Aldo Moro. Ma Panvini sceglie come data simbolica per la chiusura di
questa indagine il 13 giugno del 1984, e di nuovo una chiesa, stavolta a
Milano. Quel giorno un giovane consegnò al segretario del cardinal
Martini, don Paolo Cortesi, tre borsoni pieni di armi provenienti
dall’arsenale dei Comitati comunisti rivoluzionari. La lettera che
accompagnava quegli attrezzi di morte riconosceva alla Chiesa «un ruolo
esemplare per comprensione e disponibilità» e al cardinale «l’opera di
riconciliazione, prima umana e sociale che politica, indicata a tutti
con altrettanti inequivoci gesti». Da quel momento molti ex della lotta
armata tornarono a casa, scegliendo percorsi indicati loro da sacerdoti.
Ma l’interessante storia di questo ritorno di terroristi, accolti dalle
braccia della madre Chiesa, è ancora tutta da scrivere.
Il mondo sottosopra del cattolicesimo
Saggi. «Cattolici e violenza politica» di Guido Panvini per Marsilio. Ecco le tensioni all’interno della Chiesa che portano una minoranza di cattolici alla successiva scelta della lotta armata
Alessandro Santagata, il Manifesto 16.5.2014
In un celebre articolo pubblicato sul Manifesto nel marzo 1978 Rossana Rossanda scriveva che nel linguaggio delle Br era possibile sfogliare l’«album di famiglia» del comunismo italiano degli anni Cinquanta. Siamo nel pieno del sequestro Moro e l’articolo susciterà forti polemiche, in particolar modo nel Pci. Con il suo Cattolici e violenza politica (Marsilio, pp. 400, euro 22) Guido Panvini, studioso estraneo alle polemiche di allora, torna in maniera brillante sul tema allargando la prospettiva alle radici religiose del percorso che avrebbe portato negli anni Settanta alla scelta della violenza politica. L’obiettivo è seguire i passaggi che hanno dato forma a un immaginario in cui l’opzione della violenza era maturata già prima del Sessantotto e «all’interno di un percorso religioso». Due eventi sono posti al centro della ricostruzione: la repressione poliziesca nel luglio 1960 (in occasione delle proteste contro Tambroni) e il Concilio Vaticano II (1962–1965).
Tra anticomunismo e rinnovamento
La scelta del luglio ’60 come data di partenza coglie nella riemersione del mito della Resistenza, nuovamente «tradita», un momento di radicalizzazione alla vigilia del primo centro-sinistra. Si colloca in questo contesto l’inizio della polarizzazione investigata con dovizia dal libro: da un lato, l’ostilità crescente dei settori della destra cattolica (spesso in collegamento con i neo-fascisti) nei confronti dell’apertura ai socialisti; dall’altro, lo spostamento di una parte della sinistra cattolica verso posizioni più radicali. I paragrafi dedicati al sottobosco conservatore, più eversivo a mano a mano che si riduceva la capacità della Dc di riassorbirlo, sono probabilmente i più originali, anche perché forti di un inquadramento internazionale dei miti dell’intransigentismo: si pensi al laboratorio francese dell’Oas, l’organizzazione eversiva nata contro l’indipendenza dell’Algeria.
In Italia questa forma di anti-comunismo trovava riscontro nel milieu di Luigi Gedda e in certi settori dei partigiani cattolici. Panvini ricorda come si trattasse di un’area variegata, al cui interno si trovavano anche pulsioni apertamente anti-clericali. Si comprende quindi come il legame tra le diverse anime fosse politico e non tanto religioso, nonostante la capacità performativa della cultura dell’anti-modernità, forte di un bagaglio secolare che identificava l’ultima crociata nella battaglia (anche violenta) per il ritorno alla Cristianità. Venendo alla questione dei rapporti di forza, non si può tralasciare la sostanziale marginalizzazione di questi settori nella chiesa di Giovanni XXIII, uno dei principali bersagli della polemica degli intransigenti.
Certo, ha ragione Panvini quando ricorda che questa destra ha pesato nella scrittura delle pagine più nere della storia d’Italia, ma il parallelismo tra i due opposti percorsi (estrema destra e gauchisme cristiano) risente di una mancanza di specularità, non soltanto quantitativa, ma soprattutto d’immaginario, parole d’ordine e aspirazioni. Il campo su cui si giocava la partita di una generazione di cattolici era dentro la chiesa del Concilio Vaticano II. A questo proposito, l’autore sottolinea come l’aggiornamento conciliare abbia favorito il dialogo con la cultura comunista e con i movimenti guerriglieri latinoamericani. Dalla contaminazione con i movimenti anti-coloniali e per il Vietnam è partita quella riflessione sulla legittimità della violenza contro il potere (Gutiérrez, Torres) che ha trovato riscontro nei Cristiani per il socialismo, nelle Comunità di base e perfino in Gioventù studentesca, il primo gruppo di Giussani. Si può dunque convenire con lui quando scrive che pauperismo e terzomondismo cristiano sono stati due elementi costitutivi del discorso sulla violenza e della cultura del Sessantotto.
Per comprendere perché i gruppi del «dissenso cattolico» abbiano abbracciato la causa della nuova sinistra l’elemento culturale non è però sufficiente. Occorre ricordare che per l’Italia la vera scommessa politica sollevata dal Concilio era scardinare la compenetrazione tra chiesa e potere su cui si era fondato lo stesso patto costituente. Anche se la sinistra cattolica rivoluzionaria non è stata un prodotto esclusivamente italiano,una cesura va quindi ricercata nella sconfitta del progetto post-conciliare di fronte alla crisi del centro-sinistra e all’irriformabilità della chiesa italiana di Paolo VI. Con l’esplosione del ‘68 si passerà da una sfida (democratica)per liberare la chiesa e riformare lo Stato alla lotta contro lo «Stato borghese». Anche se la speranza di una chiesa diversa non verrà mai completamente abbandonata, altri erano ormai i riferimenti di una generazione cattolica in via di secolarizzazione: il martirio laico di Guevara, l’operaismo, la riflessione di Marcuse sull’alienazione della società tecnologica.
Un binomio irrisolto
Nelle pagine finali dedicate alla biografia dei militanti cattolici che hanno intrapreso la lotta armata Panvini disegna un quadro in cui figure provenienti dagli ambienti della chiesa incrociano quelle di militanti dal trascorso religioso: da Curcio e Margherita Cagol a Semeria a Annamaria Ludmann. Una figura importante – spiega Panvini – era quella di Corrado Corghi, dirigente della sinistra democristiana, profondo conoscitore dei movimenti latinoamericani e, dopo aver abbandonato il partito nel ‘68, un punto di riferimento del gruppo reggiano dell’«appartamento» di Alberto Franceschini dove era forte una componente cattolica protestataria. Senza entrare nel merito dei singoli casi, resta il problema di capire se ci fosse un collegamento diretto tra l’appartenenza religiosa e l’opzione del comunismo. Se il binomio fede e politica risulta evidente nelle esperienze del dissenso, lo è invece meno in questo secondo passaggio di una strenua minoranza dall’esperienza extra-parlamentarealla lotta armata. Di mezzo ci sono eventi traumatici e nuove cesure che hanno coinvolto l’intera generazione di militanti: da piazza Fontana alla radicalizzazione del conflitto politico dopo il biennio ’68–69.
Con questo libro Panvini ha dunque aperto un nuovo filone di storia culturale che senza dubbio darà nel tempo i suoi frutti. Il principale punto tutto da sciogliere riguarda quel complicato rapporto che lega tra loro le culture politiche, l’evoluzione del contesto storico, la genesi e la penetrazione del linguaggio della violenza (e del martirio) e quella sfera insondabile dalla quale scaturiscono scelte così drammatiche.
Parlato 167 30-05-2014 libero quotidiano 31
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