lunedì 17 marzo 2014
Il ruolo di Berlinguer nella mutazione del Pci nei ricordi del suo aspirante mandante
Berlinguer perché ti abbiamo voluto tanto bene
di Eugenio Scalfari Repubblica 16.3.14
Comincio quest’articolo con un paradosso ed è questo: Enrico
Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in
qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella
religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un
percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti
rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro
avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e
alimentava un sogno.
Oggi, anziché commentare i fatti politici della
settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui
quest’anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in
questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la
forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo
rinnovamento della sinistra.
La sua somiglianza al ruolo di papa
Francesco - l’ho già detto - è un paradosso, ma come tutti i paradossi
contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si
sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati.
Per quanto
riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia
personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972,
quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il
terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.
La
prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del
’77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel ’78, nell’80,
nell’81, nell’83. Morì nel giugno dell’84 e ancora ricordo che mentre
era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure
dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono
quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.
Ricordo quella
mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di
condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave
perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo
dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa,
salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all’uscita da quella
sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai
piangendo e anche lui pianse consolandomi. M’è rimasto in mente perché
non era mai accaduto qualcosa di simile: d’essere consolato nella sede
del Pci per la morte del capo d’un partito al quale non sono mai stato
iscritto né di cui ho mai condiviso l’ideologia politica. Nelle
interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico
prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu.
Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo
segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a
casa mia.
Oltre alle interviste su Repubblica accettò anche un
dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc.
Che sosteneva da tempo nel suo partito l’idea dell’“arco costituzionale”
dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere
escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De
Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra
democristiana e in polemica con il resto del suo partito.
In quel
dibattito, trasmesso suRete4che allora era di proprietà della famiglia
Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di
minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per
modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo
storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una
stretta delle nostre tre mani, una sull’altra, e così fummo fotografati.
Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi
viene da pensare che quelli d’allora erano altri tempi e altre persone.
Nel
corso degli anni, dal 1977 all’84, le domande più importanti che gli
feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito
comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che
operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l’Urss e col Partito
comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione
che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e
con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci
doveva avere con l’Italia; il problema da lui sollevato della questione
morale.
Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non
furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma
l’evoluzione fu comunque coerente.
Ricordo ancora una telefonata che
ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca
rivendicando la sua autonomia rispetto all’Urss, al Pcus e al
Cominform. «Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto
ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in
cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la
nostra democrazia sia finalmente compiuta».Gli risposi che aveva ragione
ma che l’uscita dal ghetto non sareb-be stata facile, una parte del Pci
era ancora sedotta dall’ideologia leninista stalinista. Noi avremmo
certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte
esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. «Hai ragione - rispose
Ugo - ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi
riguarda mi impegnerò fino in fondo». Gli chiesi chi fosse il
“miserabile” che avrebbe cercato di bloccare l’evoluzione democratica
del Pci. «Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni».
Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome.
Purtroppo
La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono
che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza
politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo
abbastanza strano: s’innamora più spesso dei clown che dei politici
impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse
personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto
capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato
che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.
*** Sullo
stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla
segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e
il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura
criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto
con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni
cambiò segnando l’evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne
cito il passo più significativo tratto dall’intervista del settembre
1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in
quell’occasione (l’avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era
la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che
continuava ad accettare. Rispose così: «Lenin ha identificato il partito
con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre
sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del
percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo
non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi
nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente
una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di
conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore
irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società
socialista». Mi pare - dissi io in quel punto - che voi rifiutate tutto
di Lenin. «No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe
operaia e noi siamo pienamente d’accordo su questo punto. Infine Lenin
non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su
questo noi siamo d’accordo».
Questo, gli dissi io, l’ha sostenuto
anche Machiavelli molto prima di Lenin. «Anche noi comunisti abbiamo
letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale
però si riferiva “alla virtù individuale di un Principe” mentre noi ci
riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per
trasformare la società».
Un altro tema fu quello della questione
morale, affrontato da lui nell’intervista del 1981 ma poi ripreso molte
volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da
uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La
questione morale era invece l’occupazione delle istituzioni da parte dei
partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe
dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più
volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l’aveva
sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall’81 ma ci ritornò con la
massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell’83. «Noi vogliamo
un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base
dell’articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del
presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza
patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto
puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a
far così l’esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti,
banche, unità sanitarie, televisione e tutta l’infinita serie del
sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque
governo dev’essere costituito così indipendentemente dal colore della
maggioranza che lo sorregge».
Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983).
«Non
si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben
determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra
possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti
debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l’indebitamento serve
solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla
sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d’una certa fascia di
redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca
propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo».
Ve
l’aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent’anni fa, parlando d’un
governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi
portanti, auspicasse una sanità che i redditi medio alti finanziassero
di tasca propria? Attenzione a chi parla dell’attuale tentativo del
nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un
governo più a sinistra degli ultimi trent’anni. Berlinguer, proprio
trent’anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese
dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata
di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta
possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è
ritenuto “sovversivo”.
Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho
conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era
prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad
Amendola, l’austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i
valori della classe operaia coincidessero con l’interesse nazionale,
come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di
sintonizzarsi con tutto il paese.
Sandro Pertini piangeva quando il
feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò
all’aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel
che mi disse: «Se n’è andato l’ultimo grande della sinistra italiana.
Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e
non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che
esonderà».
Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva
passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate
Matteotti della guerra partigiana.
C’era più gente a quel funerale di
quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato
milioni di persone. Quella fu l’ultima fiammata, il ploro di tutta la
nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si
motteggia o s’impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per
un vecchio testimone del tempo non è affattoun bel vedere.
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