lunedì 10 marzo 2014

Togliatti, Putin e Stalin uccisero tutti gli italiani di Crimea. il Corriere torna al suo antico mestiere: la Guerra Fredda culturale

Deportati perché «fascisti»

Gulag e Torture. La tragedia degli italiani di Crimea

di Francesco Battistini Corriere 9.3.14

Maggiore Khvatov, dove sei? Qualcuno poi sarebbe andato a cercarlo, il suo Priebke sovietico, il suo carnefice stalinista. Bartolomeo Evangelista non l’ha mai dimenticato: gli furono date solo due ore per fare fagotto, otto chili e non di più. «Il 29 gennaio 1942, quel Khvatov era diventato il capo della polizia segreta comunista, l’Nkvd. Mi convocò. Era seduto alla fine d’un lungo tavolo, al secondo piano dell’edificio verde d’Uliza Lenina. Mi disse: “Bartolomeo, io ricordo tuo padre dai tempi in cui correvamo senza pantaloni. Adesso andrai in un sobborgo di Kerc, dove sono riuniti tutti gli italiani. Vi manderanno a Est. Sappi: occhio per occhio, dente per dente…”. Tre “falchi” mi portarono a casa su un camion. Ma a casa non c’erano più né mia moglie, né mio figlio…». 
Di Khvatov, oggi a Kerc nessuno parla più. Degl’italiani che il maggiore russo spedì nei gulag siberiani, nelle prigioni del Mar Glaciale Artico o ai lavori forzati del Kazakistan, nessuno si cura. Una lapide alla stazione ferroviaria commemora i tatari, gli armeni, i greci, perfino i tedeschi deportati da Stalin. Gl’italiani, no. Morti da niente. L’Olocausto con più omissis della nostra storia. Il genocidio ignoto d’una comunità che fu accusata d’avere sostenuto i fascisti, quando l’Armata Rossa arrivò a liberare la Crimea dai nazi, e che venne lasciata stare solo quand’ormai non c’era più nulla da fare («è stato un errore», riconobbe Mosca nel 1948), e che fu riabilitata dal Krusciov del XX Congresso (1956) quando da lucidare non c’erano nemmeno le tombe. Una volta il giurista Giulio Vagnoli provò a scriverne a Berlusconi e a Frattini, a Fassino e a Napolitano, esigendo almeno lo sforzo tardivo della memoria che s’è fatto per gl’istriani o i dalmati: ottenne solo un gran silenzio. Un’altra volta, anni ‘90, chiesero a Scalfaro in visita in Ucraina se volesse dire qualcosa di quella tragedia: il presidente guardò i microfoni, si guardò intorno smarrito. E tacque. 
Talianski, quanta gente. Erano quattromila, sono meno di 400. Nell’arcipelago dei popoli e dei martiri ucraini, gl’italiani di Crimea non hanno le cifre apocalittiche dei tatari musulmani, degli ebrei, dei kulaki. Ma il loro sterminio ha racconti spaventosi: persi per due mesi nelle stive dei piroscafi e su vagoni bestiame, 50 persone a vagone, morti di fame o scampati mangiando erba, baraccati senza coperte su bancali a trenta sottozero, schiavizzati per anni nell’industria pesante. Gli Evangelista erano 11: ne tornarono sei, e nessuno dei cinque bambini; i Simone erano sette: rimasero in due; i Demartino, cinque: sopravvissero in due… Un olocausto da museo: passati per la Crimea ai tempi di Marco Polo, era stata Caterina la Grande a chiamarne migliaia dalla Liguria e dalla Puglia, perché curassero il Borgogna dello Zar, insegnassero la navigazione, piantassero un pomodoro («l’italiano») che ancora oggi si trova sui mercati di Mosca… I loro guai cominciarono negli anni ‘30, quando il fratello di Pajetta e il cognato di Togliatti si rifugiarono qui: la chiesa fu trasformata in palestra, l’economia locale collettivizzata nel kolkoz «Sacco e Vanzetti». L’aria si fece rossa e pesante. E il Pci, già troppo impegnato a ignorare i comunisti «anomali» torturati alla Lubianka, non mosse un dito per salvarli dalle purghe. Russificati per scelta o necessità, oggi cinquecento discendenti sono rimasti nel Kazakistan: gli altri sono qui. Non vogliono la secessione dall’Ucraina, ma il referendum va loro bene: «L’unica strada per salvare la Crimea», dice la loro presidentessa, Giulia Giacchetti Boico, e per vedersi riconoscere almeno da Mosca l’indennizzo che spetta alle vittime del comunismo. Molti vivono da poveri, poche centinaia d’euro al mese. Alle loro famiglie era vietato parlare italiano e oggi, se sognassero di tornare in Italia, non saprebbero in che lingua. Chi ci prova, è per l’unico mestiere concesso a chi viene dall’Ucraina: la badante. 

L’ex Urss e la rinascita dei nazionalismi
Ucraina, Georgia, Caucaso: lotte per l’identità Ma anche Mosca manovra le sue minoranze
di Luigi Ippolito 
Corriere 9.3.14

A fornire la giustificazione ideologica (e anche un po’ poetica, che non guasta mai) di quanto sta accadendo in Ucraina ci ha pensato l’altro giorno il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, secondo cui l’ingresso della Crimea in Russia «non è una raccolta delle terre sovietiche sulla base di un progetto del Cremlino, è un processo naturale di raccolta di connazionali attorno al loro centro, alla loro patria storica che è attraente, che suscita fiducia, e che può fungere da garante della loro sicurezza e di un loro futuro prospero», insomma un processo in cui le terre si raccolgono «secondo il principio della calamita».
E difatti la rinascita delle identità nazionali nello spazio geo-politico dell’ex Urss segue un doppio movimento: allo stesso tempo centrifugo e centripeto. Da un lato le nazionalità costrette per secoli nella «prigione dei popoli» che fu prima l’impero zarista e poi quello sovietico tendono ad affermare la loro individualità nei confronti del centro (russo-moscovita), dall’altro i frammenti della nazione russa sparsi nell’ex impero tendono a ricomporsi verso la madrepatria destabilizzando le giovani nazioni nate dall’implosione dell’Unione Sovietica.
Il caso ucraino è emblematico sotto entrambi i punti di vista. Qui l’evoluzione del sentimento nazionale è stata complicata dalla composizione multi-etnica della popolazione. Mentre già nel periodo sovietico le regioni occidentali del Paese, storicamente e culturalmente vicine alla Polonia e alla Lituania, affacciavano richieste di maggiore autonomia, le regioni orientali, popolate in larga parte da russi o ucraini russofoni, mostravano maggiore resistenza a queste domande.
D’altra parte il sentimento nazionale ucraino, accompagnato da un linguaggio scritto, una grammatica standardizzata e una coscienza di sé, è un prodotto abbastanza tardo, della fine dell’Ottocento. E la popolazione rurale ha acquisito consapevolezza di sé come nazione distinta probabilmente ben oltre l’avvio del XX secolo. In fin dei conti il nucleo originario della statualità russa si colloca proprio nella Rus’ di Kiev del X secolo e solo più tardi va ad identificarsi con la Moscovia e le sue successive espansioni. E l’ideologia pan-russa vede i Grandi Russi, i Piccoli Russi (Ucraini) e i Russi Bianchi (Bielorussi) come appartenenti a un’unica vasta nazione accomunata da storia, religione e vicinanza linguistica.
Ma è evidente che gli ucraini non hanno finito per fondersi nell’alveo russo come i bavaresi nella Germania, bensì dopo il raggiungimento dell’indipendenza nel 1991 hanno accentuato le loro caratteristiche nazionali con un’attiva promozione della lingua e della cultura autoctone. Il che ha condotto a una messa in tensione delle contraddizioni fra regioni occidentali e regioni orientali, già esplose durante la Rivoluzione arancione del 2004, che vide il Paese dividersi lungo linee etnico-linguistiche fra sostenitori del filo-occidentale Yushchenko e sostenitori del filo-russo Yanukovich. Fino ad arrivare alla crisi odierna, che vede il Cremlino utilizzare le popolazioni russe delle regioni orientali e della Crimea come grimaldello per destabilizzare l’intera Ucraina.
La leva delle minoranze russe fuori dai confini nazionali è stata già sperimentata da Mosca, ad esempio con i Paesi Baltici. Estonia, Lettonia e Lituania sono state protagoniste del più forte movimento di rinascita nazionale al tramonto dell’Unione Sovietica. Entità non slave, forti di influenze storiche polacche, tedesche e scandinave, non sono mai state assimilabili all’interno del corpo della Russia e non è un caso che siano le uniche Repubbliche ex sovietiche entrate a far parte della Nato e dell’Unione europea. Ma anche al loro interno sono presenti significative minoranze russe (specialmente in Estonia e Lettonia) che non hanno mancato di far sentire il loro peso sulla vita politica. E che potrebbero essere «riattivate» da Mosca in una situazione di crisi.
Ancora più complesso lo scenario caucasico, dove la rinascita nazionale post-sovietica ha visto protagonisti soprattutto i georgiani e gli armeni. Questi ultimi sono invischiati da vent’anni in un conflitto con il vicino Azerbaigian a proposito del Nagorno-Karabach, l’enclave armena (e cristiana) in territorio azero (e musulmano) che vorrebbe ricongiungersi con la madrepatria. Anche qui Mosca è intervenuta favorendo lo Stato-cliente armeno e usando l’irredentismo del Nagorno-Karabach per tenere sotto pressioni i riottosi azeri.
A loro volta i georgiani, antica e orgogliosa nazione, hanno cercato di affermare con veemenza il loro distacco dalla Russia, soprattutto dopo la Rivoluzione delle Rose del 2003. Ma l’intervento armato deciso da Putin nel 2008 li ha riportati a più miti consigli: e ancora una volta Mosca si è fatta scudo dell’irredentismo di una piccola nazione, l’Ossezia del Sud, che fa risalire la propria identità etnica agli antichi Alani. Gli osseti, russofoni inclusi nella Georgia, hanno invocato l’aiuto fraterno del Cremlino quando si sono visti minacciati dai georgiani: aiuto prontamente accordato, con la conseguente occupazione di porzioni di territorio georgiano che dura ancora oggi.
Infine il Caucaso russo, con la sua miriade di nazionalità sparse fra Cecenia, Ossezia del Nord, Inguscezia, Daghestan, Cabardino-Balcaria, Repubblica circassa. Una regione tra le più fiere, sottomessa dagli Zar solo a metà dell’Ottocento e dopo aver pagato un duro prezzo di sangue. E che negli ultimi vent’anni, dopo la fine dell’Urss, ha prodotto una nuova scia di lutti. Al centro di essa la Cecenia, nazione mai doma, che ha ottenuto con due guerre una autonomia di fatto, pur pagando formale tributo a Mosca.
In conclusione, il tratto comune che rende problematiche le rinascite nazionali nello spazio post-sovietico è la sovrapposizione irrisolta di etnie e confini, specialmente quando dei confini amministrativi e artificiali (è il caso della Crimea) si sono trasformati in frontiere statuali. Una contraddizione foriera di ulteriori, destabilizzanti crisi internazionali. 

Dalle dominazioni ai crimini staliniani
Il sogno di libertà Molti padroni, i grandi conflitti, l’indipendenza: la storia di Kiev
di Ettore Cinnella 
Corriere 9.3.14

Negli anni di Gorbaciov venne rotto nell’Urss, per la prima volta, il silenzio sulla morte per fame di milioni di contadini nel 1932-1933. L’ansia di verità sorse dal basso, prese cioè l’avvio dalle lettere inviate ai giornali dai testimoni di quegli eventi. Da allora gli storici, russi e ucraini, non hanno smesso d’indagare sul crimine più aberrante e spaventoso del regime staliniano. Grazie al loro congiunto sforzo di ricerca, noi oggi conosciamo infiniti dettagli sulla tragedia che si abbatté sulle campagne dell’Urss, provocando milioni di vittime.
Quando la verità emerse in tutta la sua crudezza, ebbero inizio anche i primi dissapori tra i protagonisti delle due storiografie. Ricorrendo al termine holodomor (sterminio per fame), gli studiosi ucraini individuarono nella grande fame un autentico genocidio contro la loro nazione: fu perfino usata l’espressione «olocausto ucraino». Per i russi, invece, si trattò di una spietata guerra condotta dallo Stato bolscevico contro una parte consistente del mondo contadino in tutta l’Urss.
Che di stenti e d’inedia siano allora periti gli appartenenti a molti popoli dell’impero comunista di Stalin, è verissimo. In termini relativi, l’ecatombe umana più raccapricciante si ebbe nelle steppe del Kazakistan, dove perse la vita oltre un terzo dei nomadi. In Ucraina morirono circa tre milioni e mezzo (sembra questa la cifra più attendibile) di laboriosi agricoltori. Se a ciò si aggiunge la lotta senza quartiere all’intellighenzia e a una parte dei quadri comunisti locali, risulta chiara la volontà di distruggere le basi materiali e culturali della nazione ucraina. Si capisce dunque perché quella tragedia venga interpretata come un genocidio; e, a questo riguardo, forse non ha molto senso disquisire se si sia trattato di genocidio sociale o nazionale. Anche chi non ha dimestichezza con il russo e l’ucraino, può farsi un’icastica idea dello spaventevole holodomor leggendo le raggelanti e veridiche relazioni, inviate allora dai diplomatici italiani a Mussolini (e pubblicate da Andrea Graziosi in Lettere da Kharkov , Einaudi).
La memoria delle inenarrabili sofferenze e delle distruzioni materiali, subite per colpa della politica di Stalin, è essenziale agli ucraini per tener viva la consapevolezza che mai più essi dovranno sottostare al giogo comunista e straniero. Ma se il holodomor è ormai assurto a tragico simbolo dell’identità nazionale di quel popolo, ben più antiche e profonde sono le radici e le ragioni dell’indipendenza dell’Ucraina.
È diffusa la credenza che la Russia di Kiev (fiorita nei secoli X-XIII) sia stata la culla della civiltà russa. Gli storici ucraini, invece, la considerano il primo nucleo della propria cultura. In realtà, quella splendida civiltà degli slavi orientali ‒ legata agli altri Stati cristiani dell’Europa medievale fu un momento storico a sé stante, conclusosi per una complessa serie di ragioni (tra le quali la principale è la traumatica invasione mongola).
Dopo il tramonto della civiltà di Kiev, l’Ucraina e la Russia conobbero destini assai diversi. Fu il principe lituano Algirdas a conquistare Kiev nel 1362, liberandola dalla dominazione mongola. L’Ucraina entrò quindi a far parte del Granducato di Lituania (uno degli Stati più vasti dell’epoca, esteso dal Baltico al Mar Nero), la cui forza stava nella saggia politica interna oltre che nel valore guerriero dei suoi principi.
Con l’Unione di Lublino (1569), che sancì la nascita dello Stato polacco-lituano, la maggior parte delle province ucraine passò sotto il dominio diretto del re di Polonia. Se per i contadini ciò significò la dura soggezione alla nobiltà polacca, sul piano culturale le conseguenze furono positive: i dotti ucraini entrarono a contatto con la civiltà occidentale e poterono usufruire del clima di relativa tolleranza che si respirava nella Polonia del Cinquecento. A Raków (l’«Atene sarmatica»), celebre per le sue fiorenti tipografie, trovò rifugio anche l’eretico italiano Fausto Socini.
Le cose peggiorarono nel corso nel Seicento, per colpa dell’avanzata dell’integralismo cattolico in Polonia e dell’inasprimento del dominio signorile sui contadini. Così, i cosacchi ucraini volsero lo sguardo verso Mosca e decisero, con il trattato di Perejaslav del 1654, d’unirsi al limitrofo Stato ortodosso. Per la Russia, l’incorporazione delle nuove terre rappresentò un enorme vantaggio sul piano economico e strategico, nonché culturale: grazie all’Ucraina polonizzata, infatti, penetrarono nella Moscovia i primi germi della civiltà occidentale.
A partire dal Settecento, gli ucraini persero ogni forma di autonomia: per loro la dominazione moscovita si fece via via più soffocante, tesa com’era alla russificazione del Paese. Falliti, nel 1917-1920, i tentativi di creare uno Stato indipendente, gli ucraini rimasero legati per un settantennio alla Russia sovietica. Oggi che hanno conquistato l’indipendenza, non vogliono che sia effimera o fittizia.
 

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