domenica 6 aprile 2014

Il compleanno di Dio e tanti auguri di gratitudine dalle creature miracolate

Un paese dalla lingua morbida e allenata [SGA].

L'apoteosi di Dio

Scalfari, testimone del nuovo
Eugenio Scalfari ha spinto l’opinione dei liberal verso socialisti, comunisti e democratici. E spiega la sua vocazione alla scrittura come desiderio “freudiano” di realizzare l’impegno civile

Federico Orlando  STAMPA

SCALFARI, UNA CERTA IDEA DI NOTIZIA
172 04-04-2014 corriere della sera 49

174 04-04-2014 la repubblica 41 

CON L'ESPRESSO LA SUA AUTOBRIOGRAFIA
175 10-04-2014 l' espresso 42


Autobiografia di Scalfari la scrittura e il desiderio
di  Massimo Recalcati Repubblica 4.4.14



Quando uno psicoanalista si interessa di una biografia non è per raccogliere i dettagli della cronaca di una esistenza ma per provare a individuare quei tratti che, nel variare infinito delle esperienze e degli eventi, hanno conferito una forma singolare ad una vita. Nel caso di Eugenio Scalfari, per come egli si descrive nel suo Racconto Autobiografico, uno di questi tratti, se non il tratto principale, è la vocazione della scrittura («la mia vera passione era quella di scrivere»). “Vocazione” non è un termine qualunque. Per la psicoanalisi esso traduce la parola tedesca Wunsch con la quale Freud descriveva il desiderio.
Dunque per Scalfari, che domenica compie novant’anni, la scrittura è stata la manifestazione più forte, più costante e più imprescindibile, del suo desiderio. Qualcosa di cui sarebbe per lui, come afferma a conclusione del suo racconto, «impossibile fare altrimenti». Questa vocazione è ciò che lo rende un testimone. Il lettore troverà in questo racconto non solo la storia di una vita, di una formazione, dei suoi inciampi e delle sue realizzazioni, ma anche quella della nostra storia più recente, dall’affermazione del fascismo sino alla “seconda repubblica”. La testimonianza della scrittura non è mai solo un esercizio privato, ma si carica di una responsabilità pubblica. La vocazione personale che vive la scrittura come una necessità paragonabile a quella di respirare o di mangiare non si disgiunge dal suo impegno militante alla ricerca della verità sia essa quella più intima, legata alle sorti del proprio Io, sia quando coinvolge le sorti di un intero paese.
Un secondo tratto della personalità di Scalfari è quello del coraggio e del senso dell’avventura «per l’alto mare aperto», come titola uno dei suoi ultimi libri. Questo coraggio non è solo una dote soggettiva, ma è un suo modo di essere erede. Il coraggio gli viene innanzitutto dal padre. È lì, attraverso il padre calabrese, ardito dannunziano, lettore avido di storia e di poesia e sciupafemmine, che il figlio potrà respirare il desiderio dell’avventura. Quel figlio che ha sempre avuto una predilezione speciale per la fragilità addolorata e malinconica di sua madre, con la quale si è sempre sentito “una cosa sola”, è nel padre che può riconoscersi erede della capacità di non indietreggiare di fronte al rischio della propria vocazione. In pagine struggenti, tra le più toccanti del libro, Scalfari indugia sull’ultimo anno di vita trascorso insieme al padre afflitto da un tumore alla prostata. Era il 1972, Scalfari aveva già fatto molto nella sua vita. Ma è proprio quel «giorno piovoso di marzo», quando il padre se ne andò nel regno dei morti, a rivelare al figlio la sua eredità più autentica: la trasmissione della memoria. Non è di questo che, come ci ricorda Philip Roth, si nutre la pratica della scrittura? Accogliere il padre malato nella propria casa mostra tutto il senso positivo del debito simbolico. Diversamente dalla “razza padrona” che ha gestito le sorti spesso spregiudicate e criminogene del capitalismo italiano nel segno di una avidità pulsionale sconfinata, il gesto umanissimo di accompagnare alla morte il padre malato ci rivela l’essenza dell’ereditare: portare dentro di sé l’altro da cui proveniamo, custodirlo in noi, non per riprodurlo passivamente, ma per oltrepassarlo.
Un terzo tratto che emerge in questo racconto autobiografico è l’illuminismo di Scalfari. Non si tratta solo di una adesione libresca ad una cultura, ma di una attitudine esistenziale. Il richiamo alla ragione critica è costante in tutta la sua vita ed è ciò che lo porta a guardare con diffidenza ogni rappresentazione metafisica della verità. Qui il giornalista e l’intellettuale si intrecciano. Il giornalista: non accontentarsi mai della pura cronaca (politica o economica), ma svelare sempre il suo retroscena, allargare lo sguardo, estendere l’argomentazione, rendere la ragione critica operativa mostrando quello che una descrizione empirica dei fatti non può cogliere. È l’ispirazione fondamentale da cui è nata l’impresa straordinaria
di Repubblica. Un altro modo di intendere il giornalismo: una ricerca permanente della verità che la superficie degli eventi tende talvolta a occultare. L’intellettuale: diffidare dalla Verità con la V maiuscola, includere l’incertezza come condizione insuperabile della vita e del pensiero, affermare il primato dell’etica – della ragion pratica – rispetto a qualunque speculazione ontologica. È questo il modo con il quale Scalfari rilegge Nietzsche attraverso Diderot e Voltaire e gli altri philosophes della grande stagione dei lumi. L’uomo è una tensione mai risolta tra la spinta della libertà (volontà di potenza) e l’esigenza di costruire argini civili che permettano la vita insieme.
L’ultimo tratto è il più intimo e, almeno per lo psicoanalista, fatalmente, il più decisivo. Veniamo a sapere che un’angoscia profonda attraversa la vita del piccolo Eugenio. È un’angoscia che non l’abbandonerà mai. È l’angoscia suscitata dalla possibilità che i propri genitori possano separarsi. Troppo diversi. Il figlio unico si prodigherà per eccellere, per non deludere, per soddisfare tutte le loro attese e per fugare il terrore per la loro separazione. Sarà lui a tenerli insieme, lui il padre dei suoi genitori. Ecco emergere il tratto decisivo della personalità di Scalfari: la sua attenzione ai legami e il suo sogno di ricomporli, la sua tendenza ad assumere una funzione paterna («la componente paternale è stata la dominante d’ogni mio tipo di affetto e di amore per gli altri», scriveva in L’amore, la sfida e il destino). Non è forse questa la cifra segreta, l’anima più profonda, arcaica, inconscia, del suo riformismo? Non è forse sempre stata una sua aspirazione quella di ricomporre differenze che apparivano irriducibili, eterogenee per storia e cultura? Per lui riformismo è una forza ricompositiva che non cede al compromesso, ma che avvicina elementi apparentemente opposti, sordi, finanche ostili. È quello che assume le forme di una vera e propria strategia politica nello sforzo di avvicinare il liberalismo repubblicano di La Malfa con il Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer negli anni tra i più bui della nostra vita collettiva che culminarono con l’assassinio di Moro. Se il terrorismo si configurò come una rottura atroce e traumatica del legame sociale, come una separazione violenta dalla cultura democratica, egli vide nell’avvicinamento tra le forze laiche liberali e quelle comuniste, la possibilità di liberare le energie più sane del capitalismo italiano dall’avventurismo e i comunisti italiani dall’egemonia sovietica. Riformismo per Scalfari ha sempre voluto dire possibilità di ricomporre produttivamente le differenze, di evitare che la separazione risulti solo sterile e traumatica.


Il liberale che stregò la sinistra
I 90 anni di Eugenio Scalfari tra memoria e preveggenza Un’avventura, la sua, che appartiene a una intera generazione intellettuale: quella che ha generato la democrazia italiana di Bruno Gravagnuolo l’Unità 6.4.14

ILLUMINISTA RADICALE, AMANTE DELLA SCRITTURA E DELL’AVVENTURA CON VOCAZIONE ALL’EGEMONIA CULTURALE E POLITICA Seppur declinata sul versante di una certa idea della borghesia illuminata in Italia. Non su quello della sinistra classica e del movimento operaio, per intendersi. C’è tutto questo nei 90 anni di Eugenio Scalfari. Con la parabola di un’esistenza speciale. Che al contempo appartiene a una intera generazione intellettuale: quella nata negli anni del fascismo. E che, con viaggio lungo o breve, ha generato la democrazia italiana e il suo «spirito pubblico». Laico e progressista in questo caso.
L’avventura comincia lo sappiamo bene dalla sua densa autobiografia dai Meridiani a Civitavecchia. A poca distanza dagli ormeggi di un porto che alimenta l’immaginario infantile del futuro inventore de l’Espresso e Republica. E comincia dalle radici giacobine, massoniche e carbonare, di due famiglie singolari che gli danno le radici, e di cui Scalfari rivendica le ascendenze. Grandi radici, calabresi e trapiantate a Sanremo e a Roma. E grandi ricordi intimi, che a ben guardare forgiano un «carattere». Paterno, egemonico, come quello di chi tiene uniti i genitori che non si amano o si amano poco. E malgrado la latitanza familiare di un padre dannunziano (va a Fiume), poi direttore di Casinò e in futuro tra i datori di lavoro del figlio (nel dopoguerra tra escursioni professionali varie).
Esperienza cruciale in questi anni: il fascismo, il Guf. E prima ancora gli studi a Roma e Sanremo con preti modernisti e altri grandi insegnanti e l’amicizia con Calvino. Scalfari è fascista, studioso di economia e corporativismo. Ultra fascista, frondista e dissidente. Espulso da Scorza perché su Roma fascista attacca l’Eur, gli arricchimenti e la speculazione edilizia (è nuovista e contro i burocrati corrotti). Qualcosa del genere gli capiterà quando Bonomi esigerà il suo licenziamento dalla Bnl, per gli articoli sul Mondo di Pannunzio contro la «bonomiana» e gli ammassi superpagati dallo stato, a fini clientelari. Ma la svolta nel frattempo è questa: Scalfari è entrato nel giro di Raffaele Mattioli, gran patron della Comit, di La Malfa, di Giulio De Benedetti, di cui sposa la figlia Simonetta, di Bruno Visentini, Leopoldo Pirelli e di grandi intellettuali come Strehler, Cancogni, Bo, Montale, Elena Croce. E nel salotto Comit conosce anche Piero Sraffa.
Così l’ex monarchico e crociano, diviene un liberale di sinistra a contatto con l’eredità dello scomparso partito d’Azione. Un “liberal” insomma che tenterà senza successo di mettere in piedi un altro partito liberale, dalle cui costole viene anche il primo partito radicale. Ma non è la politica la vera artiglieria del giovanotto versatile e ben accolto dai salotti della borghesia riformista. È l’editoria, l’opinione, la battaglia delle idee. Ritradotta nel linguaggio alto-basso dei giornali. Dall’elitario Mondo, con Pannunzio, tra Croce, la Malfa, Carandini, e Ricardo Lombardi. All’Europeo, dove Scalfari impara a spiegare l’economia, previa cestinatura da parte di Benedetti dei primi suoi tre pezzi. Con Benedetti nel 1955 è la volta dell’Espresso, che all’inizio doveva essere quotidiano, e che sarà matrice e dna originario della Repubblica. Slalom tra i finanziamenti, oltre al mondo già citato, c’è Olivetti, e inizialmente Enrico Mattei (ma la joint tra i due non può funzionare). Sicché Scalfari, con Benedetti e l’amico Caracciolo, cognato di Agnelli, si ritrova controllore azionario della sua creatura. La «lenzuolata» che fa la storia della stampa italiana: un settimanale dalla grinta «quotidiana». Con il meglio della cultura alta e memorabili inchieste e scoop. «Capitale corrotta, nazione infetta», Sifar, rumore di sciabole, la campagna contro la «razza padrona» del capitalismo assistito e di stato. E pure l’avanguardia letteraria, a dispetto del crocianesimo e del «proustianesimo» di Scalfari: «Avanguardia in vagone letto», come da titolo ironico in testa all’inchiesta di Viola sul Gruppo 63. Qual è il punto di «costume» cruciale in questo scorcio finale degli anni 60 che incrocia il 1968? Eccolo: la cultura radical socialista di Scalfari in condominio iniziale con Arrigo Benedetti prima della rottura su Israele conquista una egemonia «terzaforzista». Conquista borghesia riformista e ceti medi progressisti. Apre falle nell’insediamento comunista e all’insegna del rifiuto dell’anticomunismo, moderato e non. L’Espresso è una sorta di lasciapassare per il comunismo italiano: non più demonizzato ma difeso, ancorché criticato per i suoi suoi ritardi. Che sdogana al contempo l’azionismo sconfitto, sia a destra che a sinistra, favorendone la presa trasversale tra schieramenti e generazioni diverse. È uno status symbol illuminista al tempo della contestazione. Un difensore civico dell’Italia che chiede laicità, diritti civili, modernità non clientelare, capitalismo democratico. Contro le paure dell’Italia reazionaria e i «padroni del vapore», per citare lo slogan di Ernesto Rossi, di cui Scalfari diviene la reincarnazione non elitaria.
Il codice di Repubblica nel 1976, fortificato dalla battaglia di Segrate anti Craxi e anti-Berlusconi sarà lo stesso: contro il terrorismo, contro la degenerazione politica e clientelare. E per l’evoluzione «berlingueriana» del Pci. Da associare a governi istituzionali, e presidenzial-parlamentari: per la modernizzazione italiana. Sulla falsariga di ciò che fu la destra storica dopo l’unità italiana. Operazione egemonica ancora vincente, ora che la sinistra storica pare dissolta e Repubblica ha assunto il format veloce «news-commento in uno». Il «fondatore» comunque è ancora lì, e su Renzi da Repubblica a lungo evocato scriveva solitario a marzo: «Ci sta vendendo come suo proprio il programma già contabilizzato e in piena esecuzione del suo predecessore». Incontentabile, ma è Scalfari. Figlio del 900 ma intriso di memoria e preveggenze. Resterebbe lo Scalfari filosofo, di cui diremmo solo questo: è un «Io» che si mette in comune ragionando ad alta voce con gli altri. Sulla finitezza e sul dar «forma», leopardiano e nietzscheano, al «non-senso» e al dolore. Per vincere la morte, con la civiltà con-vissuta e rammemorata. È un invito che raccogliamo volentiri, e che «ricambiamo» con l’augurio più sincero a Scalfari. Di continuare ancora a lungo.

Il fondatore di “Repubblica” compie oggi novant’anni
Ci confessa ricordi, paure desideri. E affronta nuove sfide intellettuali Eugenio Scalfari: “Ho inseguito l’ideale di perfezione, ma la verità è che danziamo sul caos”intervista di Antonio Gnoli Repubblica 6.4.14

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