L'apoteosi di Dio
Scalfari, testimone del nuovo
Eugenio Scalfari ha spinto l’opinione dei liberal verso socialisti, comunisti e democratici. E spiega la sua vocazione alla scrittura come desiderio “freudiano” di realizzare l’impegno civile
SCALFARI, UNA CERTA IDEA DI NOTIZIA
I MIEI INCONTRI COL DIVO GIULIO TRA MISTERI E SCANDALI
CON L'ESPRESSO LA SUA AUTOBRIOGRAFIA
Autobiografia di Scalfari la scrittura e il desideriodi Massimo Recalcati Repubblica 4.4.14
Il liberale che stregò la sinistra
I 90 anni di Eugenio Scalfari tra memoria e preveggenza Un’avventura, la sua, che appartiene a una intera generazione intellettuale: quella che ha generato la democrazia italiana di Bruno Gravagnuolo l’Unità 6.4.14
ILLUMINISTA RADICALE, AMANTE DELLA SCRITTURA E DELL’AVVENTURA CON VOCAZIONE ALL’EGEMONIA CULTURALE E POLITICA Seppur declinata sul versante di una certa idea della borghesia illuminata in Italia. Non su quello della sinistra classica e del movimento operaio, per intendersi. C’è tutto questo nei 90 anni di Eugenio Scalfari. Con la parabola di un’esistenza speciale. Che al contempo appartiene a una intera generazione intellettuale: quella nata negli anni del fascismo. E che, con viaggio lungo o breve, ha generato la democrazia italiana e il suo «spirito pubblico». Laico e progressista in questo caso.
L’avventura comincia lo sappiamo bene dalla sua densa autobiografia dai Meridiani a Civitavecchia. A poca distanza dagli ormeggi di un porto che alimenta l’immaginario infantile del futuro inventore de l’Espresso e Republica. E comincia dalle radici giacobine, massoniche e carbonare, di due famiglie singolari che gli danno le radici, e di cui Scalfari rivendica le ascendenze. Grandi radici, calabresi e trapiantate a Sanremo e a Roma. E grandi ricordi intimi, che a ben guardare forgiano un «carattere». Paterno, egemonico, come quello di chi tiene uniti i genitori che non si amano o si amano poco. E malgrado la latitanza familiare di un padre dannunziano (va a Fiume), poi direttore di Casinò e in futuro tra i datori di lavoro del figlio (nel dopoguerra tra escursioni professionali varie).
Esperienza cruciale in questi anni: il fascismo, il Guf. E prima ancora gli studi a Roma e Sanremo con preti modernisti e altri grandi insegnanti e l’amicizia con Calvino. Scalfari è fascista, studioso di economia e corporativismo. Ultra fascista, frondista e dissidente. Espulso da Scorza perché su Roma fascista attacca l’Eur, gli arricchimenti e la speculazione edilizia (è nuovista e contro i burocrati corrotti). Qualcosa del genere gli capiterà quando Bonomi esigerà il suo licenziamento dalla Bnl, per gli articoli sul Mondo di Pannunzio contro la «bonomiana» e gli ammassi superpagati dallo stato, a fini clientelari. Ma la svolta nel frattempo è questa: Scalfari è entrato nel giro di Raffaele Mattioli, gran patron della Comit, di La Malfa, di Giulio De Benedetti, di cui sposa la figlia Simonetta, di Bruno Visentini, Leopoldo Pirelli e di grandi intellettuali come Strehler, Cancogni, Bo, Montale, Elena Croce. E nel salotto Comit conosce anche Piero Sraffa.
Così l’ex monarchico e crociano, diviene un liberale di sinistra a contatto con l’eredità dello scomparso partito d’Azione. Un “liberal” insomma che tenterà senza successo di mettere in piedi un altro partito liberale, dalle cui costole viene anche il primo partito radicale. Ma non è la politica la vera artiglieria del giovanotto versatile e ben accolto dai salotti della borghesia riformista. È l’editoria, l’opinione, la battaglia delle idee. Ritradotta nel linguaggio alto-basso dei giornali. Dall’elitario Mondo, con Pannunzio, tra Croce, la Malfa, Carandini, e Ricardo Lombardi. All’Europeo, dove Scalfari impara a spiegare l’economia, previa cestinatura da parte di Benedetti dei primi suoi tre pezzi. Con Benedetti nel 1955 è la volta dell’Espresso, che all’inizio doveva essere quotidiano, e che sarà matrice e dna originario della Repubblica. Slalom tra i finanziamenti, oltre al mondo già citato, c’è Olivetti, e inizialmente Enrico Mattei (ma la joint tra i due non può funzionare). Sicché Scalfari, con Benedetti e l’amico Caracciolo, cognato di Agnelli, si ritrova controllore azionario della sua creatura. La «lenzuolata» che fa la storia della stampa italiana: un settimanale dalla grinta «quotidiana». Con il meglio della cultura alta e memorabili inchieste e scoop. «Capitale corrotta, nazione infetta», Sifar, rumore di sciabole, la campagna contro la «razza padrona» del capitalismo assistito e di stato. E pure l’avanguardia letteraria, a dispetto del crocianesimo e del «proustianesimo» di Scalfari: «Avanguardia in vagone letto», come da titolo ironico in testa all’inchiesta di Viola sul Gruppo 63. Qual è il punto di «costume» cruciale in questo scorcio finale degli anni 60 che incrocia il 1968? Eccolo: la cultura radical socialista di Scalfari in condominio iniziale con Arrigo Benedetti prima della rottura su Israele conquista una egemonia «terzaforzista». Conquista borghesia riformista e ceti medi progressisti. Apre falle nell’insediamento comunista e all’insegna del rifiuto dell’anticomunismo, moderato e non. L’Espresso è una sorta di lasciapassare per il comunismo italiano: non più demonizzato ma difeso, ancorché criticato per i suoi suoi ritardi. Che sdogana al contempo l’azionismo sconfitto, sia a destra che a sinistra, favorendone la presa trasversale tra schieramenti e generazioni diverse. È uno status symbol illuminista al tempo della contestazione. Un difensore civico dell’Italia che chiede laicità, diritti civili, modernità non clientelare, capitalismo democratico. Contro le paure dell’Italia reazionaria e i «padroni del vapore», per citare lo slogan di Ernesto Rossi, di cui Scalfari diviene la reincarnazione non elitaria.
Il codice di Repubblica nel 1976, fortificato dalla battaglia di Segrate anti Craxi e anti-Berlusconi sarà lo stesso: contro il terrorismo, contro la degenerazione politica e clientelare. E per l’evoluzione «berlingueriana» del Pci. Da associare a governi istituzionali, e presidenzial-parlamentari: per la modernizzazione italiana. Sulla falsariga di ciò che fu la destra storica dopo l’unità italiana. Operazione egemonica ancora vincente, ora che la sinistra storica pare dissolta e Repubblica ha assunto il format veloce «news-commento in uno». Il «fondatore» comunque è ancora lì, e su Renzi da Repubblica a lungo evocato scriveva solitario a marzo: «Ci sta vendendo come suo proprio il programma già contabilizzato e in piena esecuzione del suo predecessore». Incontentabile, ma è Scalfari. Figlio del 900 ma intriso di memoria e preveggenze. Resterebbe lo Scalfari filosofo, di cui diremmo solo questo: è un «Io» che si mette in comune ragionando ad alta voce con gli altri. Sulla finitezza e sul dar «forma», leopardiano e nietzscheano, al «non-senso» e al dolore. Per vincere la morte, con la civiltà con-vissuta e rammemorata. È un invito che raccogliamo volentiri, e che «ricambiamo» con l’augurio più sincero a Scalfari. Di continuare ancora a lungo.
Il fondatore di “Repubblica” compie oggi novant’anni
Ci confessa ricordi, paure desideri. E affronta nuove sfide intellettuali Eugenio Scalfari: “Ho inseguito l’ideale di perfezione, ma la verità è che danziamo sul caos”intervista di Antonio Gnoli Repubblica 6.4.14
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