mercoledì 23 aprile 2014
La polemica sul "libero pensiero" nel Settecento
Conseguenze del libero pensiero
Perché uno spirito anticonformista come Swift decise di attaccare il «free-thinking» di Collins? Il suo animo conservatore ne prevedeva alcuni pericoli
di Massimo Firpo Il Sole24ore Domenica 20.4.14
In
un libro apparso nel 1935 e ormai diventato un classico, La crisi della
coscienza europea, lo storico francese Paul Hazard definiva con quel
titolo una svolta decisiva della cultura europea, grosso modo tra il
1685 e il 1715. Due date che segnavano per la Francia gli ultimi e
difficili anni del regno di Luigi XIV, tra la revoca dell'editto di
Nantes, con l'abrogazione della libertà di culto per i calvinisti,
espulsi dal Paese, e la morte dell'ormai decrepito re Sole, che
consegnava un regno in macerie a un'incerta successione; e per
l'Inghilterra la gloriosa rivoluzione che, con la cacciata di Giacomo II
Stuart, inaugurava una fase nuova della vita politica, fondata sul
primato del Parlamento anziché sul diritto divino dei re, e la salita al
potere di Robert Walpole, che avrebbe aperto la strada a una lunga
egemonia whig. A fare da sfondo a quella svolta erano dunque la crisi
della Francia, prigioniera di un assolutismo diventato sempre più
bigotto e autoritario, e l'ascesa dell'Inghilterra, libera e tollerante,
che nel 1734 Voltaire avrebbe additato a esempio di civiltà nelle sue
Lettres anglaises. Fu allora che si chiuse definitivamente il secolo di
ferro delle guerre religiose, degli scontri confessionali, delle
controversie teologiche, con tutto il suo seguito di violenze, di
persecuzioni, di fanatismo, e si aprì un'altra stagione, che di lì a
breve avrebbe inaugurato l'età dei Lumi. Dalla cultura dell'obbedienza e
dei doveri si passò allora a quella della libertà e dei diritti,
spiegava Hazard, che dedicava pagine penetranti all'Inghilterra di sir
Isaac Newton e delle Boyle Lectures, di John Locke e dei suoi irrequieti
discepoli, di John Toland, di Matthew Tindal, di Anthony Collins.
Fu
quest'ultimo a pubblicare nel 1713 un celebre Discourse of
free-thinking, in cui teorizzava il diritto universale di pensare
liberamente ed esprimere liberamente il proprio pensiero, negando
l'esistenza di qualunque autorità morale, civile o religiosa che potesse
arrogarsi il diritto di limitarlo o reprimerlo. In un'Inghilterra
allora governata dai tories, quel libro di grande successo fu subito al
centro di aspre polemiche che ne denunciavano il carattere eversivo
nell'emancipare la ragione umana dai poteri di controllo e repressione
tanto dello Stato quanto della Chiesa. Tra i critici più feroci fu
Jonathan Swift, che pure era uno spirito libero, un giornalista
corrosivo, capace come pochi di usare l'arma della satira, come farà poi
nei suoi celebri Viaggi di Gulliver, e non certo un bigotto, nonostante
il suo ruolo istituzionale nella Chiesa anglicana d'Irlanda in qualità
di decano del Trinity College a Dublino. Lo dimostrano la sua feroce
Tale of the Tub (Favola della botte), pubblicata anonima nel 1704, in
cui egli non risparmiava battute al vetriolo contro le religioni
rivelate e il clero (anglicano, calvinista o cattolico che fosse), e i
suoi violenti attacchi contro i più accaniti presbiteriani, gli
entusiasti, convinti di avere il monopolio della parola di Dio e pronti a
scagliarsi contro chiunque non la pensasse come loro. E allora, perché
Swift se la prendeva con Collins, pubblicando una sintesi parodistica
del suo libro, definito come «una breve e completa sintesi di
ateologia»?
Lo faceva perché a suo giudizio, nutrito di rabbiosa
avversione contro il partito whig, contro la sua cultura, contro il suo
ottimismo antropologico, un conto era pensare liberamente e un altro
dire pubblicamente quello che si pensava, se ciò rischiava di mettere a
repentaglio l'autorità della Chiesa e dello Stato, e con essi l'ordine
sociale. «Ogni uomo - scriveva - in quanto membro dello Stato dovrebbe
accontentarsi di possedere le proprie opinioni in privato, senza
confondere il prossimo o disturbare il pubblico». Riteneva sbagliato e
inutile imporre una qualche fede religiosa, e poteva anche capire che
qualcuno non avesse alcuna fede religiosa, ma in questo caso il bene
pubblico gli imponeva di tenere la cosa per sé, di non manifestare la
sua incredulità, definita come «un difetto che dovrebbe essere nascosto
quando non si riesce a dominare». La Chiesa anglicana non chiedeva fede
ai suoi adepti, ma solo obbedienza, non reclamava il possesso delle loro
anime e dei loro cuori, ma solo il conformismo e la moralità dei loro
comportamenti. Non altro. Scrutinare i sacri testi non serve a nulla,
affermava Swift, anzi è pericoloso, perché la religione si fonda sul
mistero e non sulla ragione. Certo, da quest'ultima possono scaturire
dubbi corrosivi, che in sé sono del tutto legittimi poiché la ragione
stessa è opera di Dio, «purché io abbia cura di nascondere agli altri
quei dubbi e faccia del mio meglio per dominarli, e purché essi non
abbiano alcuna influenza sulla condotta della mia vita». Insomma, Swift
era un conservatore così disilluso sulle virtù degli uomini da ritenere
indispensabile che ci fossero autorità costituite che gliele
imponessero. Di qui la sua insofferenza per quel blaterare di libero
pensiero senza rendersi conto dei rischi che comportava, per quella
fiducia nella libertà che rischiava solo di recidere le briglie che
tenevano a freno i vizi degli uomini.
Ma a differenza dei reazionari,
che difendono quel che non c'è più, i conservatori sono talora in grado
di guardare al proprio mondo e ai tentativi o alle speranze di
cambiarlo con la smagata lucidità e l'impietoso cinismo di intelligenze
consapevoli della infinita complessità delle cose. Con luciferina
abilità retorica, per esempio, Swift faceva dire a Collins che un libero
pensatore deve necessariamente concludere «che il cristianesimo è tutto
un imbroglio», lasciando però intuire il caos di opinioni e
comportamenti che ne sarebbe derivato; e si divertiva a prenderlo in
giro con l'evocazione della tolleranza esistente nella «felice
monarchia» dell'Impero ottomano in una pagina in cui la sua penna sapeva
diventare davvero feroce: «Là i cristiani e gli ebrei sono tollerati e
vivono a loro agio se riescono a trattenere le loro lingue e a pensare
liberamente, purché non mettano mai piede nelle moschee né scrivano
contro Maometto: qualche saccheggio dei giannizzeri ogni tanto è tutto
ciò che devono temere».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento