I corsivi tracimano già nel risvolto. Un nuovo record sarà battuto? [SGA].
Massimo Cacciari:
Labirinto filosofico, Adelphi
Risvolto
All'origine dei diversi discorsi, molti dei quali ‘alla moda', sulla
‘fine della filosofia' che, almeno da Nietzsche, caratterizzano tanto
pensiero dell'Occidente, sta la ‘sentenza' hegeliana: che la philo-sophía cessi di chiamarsi ‘amante' e si affermi finalmente come puro sapere, Sophia ovvero Scienza. Amore e Sapere debbono dirsi addio. Che il sophós
dismetta il suo abito di eterno pellegrino e fissi la sua dimora. È
questo il destino della nostra epoca? O ancora vi è ‘ciò' che non
possiamo esprimere, rappresentare, indicare se non amandolo? Il
discorso filosofico-metafisico porta in sé la traccia di questa
tensione, e proprio là dove affronta il suo problema, la sua aporia
costitutiva: che l'ente è, che nella sua singolare identità mai coincide con le determinazioni che il lógos ne predica, che la sua sostanza non può disvelarsi nella finitezza
del suo apparire. Ogni ontologia deve basarsi su questa differenza –
non differenza tra essere ed essente, ma differenza immanente alla
realtà dello stesso essente, e in particolare proprio di quello
stra-ordinario essente che ha corpo e mente. Oltre l'esercizio
sempre più vacuo delle de-costruzioni, oltre gli astratti specialismi,
oltre le accademie e le scuole, sarà a tale problema, eterno aporoúmenon,
e al ‘timore e tremore' che suscita, che questo libro intende fare
ritorno, ascoltando alcuni grandi classici della tradizione metafisica,
per svilupparlo ancora una volta. A partire da esso, o riattingendolo
sempre, magari inconsciamente, la filosofia ha condotto la propria
ricerca per diversi sentieri, in qualche modo contemporanei tutti, che
si contraddicono e intrecciano ad un tempo, in una sorta di inimicizia fraterna.
Col loro stesso procedere tali sentieri finiscono per creare il ‘luogo'
di un paradossale labirinto, che obbliga a far esodo dal suo centro
verso imprevedibili esiti – o col formare un grande albero, di cui essi
sono rami, radici e rizomi.
Letture filosofiche
Oltrepassare la Follia L’uomo nel labirinto
La nuova esplorazione di Cacciari finisce in Gloria
di Emanuele Severino Corriere La Lettura 27.4.14
Ancora oggi, come sempre, le religioni stanno al centro della storia.
Sia pure in modi tra loro conflittuali, aiutano i popoli a risolvere le
forme più profonde delle loro inquietudini. Parlano un linguaggio che si
fa capire. Dicono quel che l’uomo vuol sentirsi dire. Inevitabile
quindi che venga il tempo in cui egli voglia sapere anche perché le cose
debbano stare come egli vuole che stiano. Il tempo della filosofia. Vi
si rimane anche quando si dice che la filosofia è morta e che le cose
stanno come è stabilito dalla scienza moderna. Le cose ! Conosciamo il
significato della parola «cosa»? È proprio così ovvio? O non dovrebbe
essere il primo a venir messo in luce? Iniziando il proprio cammino,
proprio questo si domanda la filosofia. Essa chiama «essente» (ón ,
«ente») la cosa . L’intero sviluppo storico della filosofia riguarda il
modo in cui essa pensa l’essente . Ma ovunque si guardi — in terra o in
cielo, nella veglia o nei sogni, nella vita quotidiana e in ogni
attività pratica, nella scienza, nell’arte, nella normalità psichica o
nella pazzia — ci si imbatte in cose , essenti, in «qualcosa che è». Il
modo in cui la filosofia ha inteso la «cosa» e l’«essente» è il terreno
in cui cresce la storia dell’Occidente. L’Europa non è più il centro del
mondo, ma il mondo è ormai dominato dal modo in cui l’Europa — cioè la
filosofia — ha pensato l’essente.
Credo che questo discorso possa venir condiviso anche da Massimo
Cacciari, che pubblica ora un altro splendido libro: sul modo, appunto,
in cui lungo la propria storia la filosofia ha inteso l’essente. Si
intitola Labirinto filosofico (Adelphi). Pagine che hanno alle proprie
spalle l’intera opera di Cacciari. Impossibile, qui, indicare sia pur da
lontano la loro altezza e ricchezza. Mi limiterò a ciò che in esse
riguarda più da vicino i miei scritti — chiedendo scusa al lettore se,
data l’intensità della scrittura di Cacciari, dovrò un po’ addentrarmi
nella specificità del discorso filosofico. Un peccato fare altrimenti.
Pensare l’essente, esse dicono, è trovarsi in un «labirinto». Ma in
maniera del tutto singolare. Non ha nulla a che vedere con il luogo in
cui ci si perde senza poter trovare l’uscita. Nel labirinto filosofico,
«lungi dal chiudersi in sé, ogni passo è mosso dall’istanza di venire
“superato”, proprio perché è cosciente di essere congettura, in dialogo
non solo con quelle precedenti e prossime, ma con quelle stesse
avvenire». Questo «superamento», mi sembra, non vuol essere la negazione
di tutto ciò che nei «passi» del labirinto si pensa. Comunque, Cacciari
non intende certo affermare che l’esistenza del labirinto sia una
«congettura». Egli si basa cioè sulla non-congettura. Siamo di fronte al
tema di tutti i temi: il tema decisivo della non-congettura, cioè della
verità incontrovertibile.
Dopo aver esposto il senso complessivo di un’ampia arcata dei miei
scritti, Cacciari dice di essi: «Questa linea — da Oltre il linguaggio
(1992) a Oltrepassare (2007) non mi pare in contrasto col cammino che
qui si svolge» (p. 48), cioè col suo cammino. Infatti, aggiunge, in essi
si afferma che «il Cielo della verità degli essenti non si manifesta
mai nella finitezza dell’apparire: vi si ri-vela soltanto» (p.47). Il
«velare» è cioè indissolubilmente unito al «rivelare». Una sequenza,
questa del ri-velare, che è presente nei miei scritti da quasi
cinquant’anni. Ma in essi la «finitezza dell’apparire» è la struttura
originaria della verità , l’incontrovertibile, la non-congettura
originaria. Nemmeno ora Cacciari la mette in questione. Scrive anzi che
«qui il discorso severiniano perviene alla sua massima energia» (p. 50).
Ora, soltanto la struttura originaria della verità può fondare quella
sequenza del ri-velare. E può fondarla (qui debbo rinviare alle mie
pagine) perché tale struttura implica con necessità che ogni essente
(ogni cosa) è eterno . Ogni essente, non soltanto un Dio. Nessun essente
oscilla tra il nulla da dove verrebbe e il nulla in cui andrebbe.
(Queste affermazioni non vanno contro le abitudini concettuali
incommensurabilmente di più di quanto vi andasse nel XVI secolo
l’affermazione che è la Terra a girare attorno al Sole? Sì. Ma se stiamo
alla semplice tesi dell’eternità di ogni essente — e alla semplice tesi
se ne sta chi se ne scandalizza — allora la teoria della relatività non
è poi così lontana da questa tesi — lontanissima peraltro, tale teoria,
per quanto riguarda il modo in cui la tesi è fondata ).
Dunque (ritornando a quella che prima abbiamo chiamato «sequenza del
ri-velare»): poiché è necessario che ogni essente sia eterno, il
significato dell’eternità di ogni essente, e quindi il significato di
ogni essente, si ri-vela lungo un cammino che non ha mai compimento. Di
qui il nostro esser destinati a «vedere sempre di più», e sempre più
nella Gioia, dopo la morte. Il significato di ogni essente è
inesauribile. Nel Cielo della verità resta cioè uno spazio infinito, che
non potrà mai essere detto, veduto, sperimentato da parte del finito
(ma che è il fondamento della nostra destinazione alla Gioia). Questa,
la sequenza del ri-velare con cui Cacciari non si trova in contrasto.
Ma c’è anche quest’altra conseguenza: che tutto ciò che va mostrandosi
lungo il cammino mai compiuto e tutto ciò che resta per sempre nascosto
in quello spazio infinito è un essente eterno — appunto perché la
struttura originaria della verità mostra la necessità che ogni essente
sia eterno; e tale struttura (si mostra nei miei scritti) è il
fondamento in base al quale si può affermare l’esistenza di quel cammino
mai compiuto e di quello spazio infinito. Se si voltano le spalle a
questo quadro (e soprattutto a quella fondazione che qui resta
semplicemente enunciata), l’esistenza di tale cammino e di tale spazio
rimane una «congettura» smentibile (cioè dogma, postulato, aspirazione,
fede), un presupposto arbitrario. È ad esempio il presupposto di
Husserl, per il quale non c’è bisogno di fondare l’affermazione che le
cose «evidenti» posseggono un significato implicito che va mostrandosi
lungo un processo senza termine. È il presupposto di Heidegger, che
facendo leva sul concetto greco di verità come alétheia — che alla
lettera significa «non (a ) nascondimento (léthe )» — ritiene a sua
volta di poter affermare una dimensione nascosta che infinitamente si
allontana nel processo stesso in cui ad essa ci si avvicina.
E per Cacciari? Per lui il cammino mai compiuto è la produzione degli
enti, ma l’indicibile spazio infinito verso cui il cammino si dirige è
il «Possibile», inteso come «potenza» che «fa essere ciò che è», ossia
cose ed enti, loro «fondamento», che però non è cosa o ente (pp. 303,
301-304). La derivazione dal neoplatonismo e da Schelling sembra chiara,
anche se Cacciari preferisce elaborare e condividere una derivazione
kantiana. Non sembra tuttavia che per lui il «Possibile», che è
«fondamento» e «potenza», sia un nulla assolutamente nullo. Ma allora —
chiedo — perché negare che sia essente? Perché ridurre il significato di
«essente» a ciò che si mostra, per poi poter dire che al di là
dell’essente c’è la Possibilità che lo fa essere? Anni fa, parlando con
Gadamer, gli facevo la stessa domanda, questa volta a proposito della
decisione di Heidegger di restringere (arbitrariamente) la dimensione
dell’ente per poter poi affermare che al di là di essa si apre quella
dell’«Essere» (che certo non è per Heidegger un nulla assolutamente
nullo).
D’altra parte Cacciari aveva scritto che gli enti che appaiono nel
manifestarsi del «Possibile» «non vengono affatto lasciati “oscillare”
tra nulla e nulla», non sono «mera contingenza» (Della cosa ultima ,
Adelphi, 2004, p. 86). Ciò significa che, per lui, il «Possibile», di
cui gli enti sono la manifestazione, è la condizione della loro
eternità, l’«Inizio» che la custodisce — e Cacciari intende
salvaguardarla. Ma come può il «Possibile» custodire l’eternità di ciò
che è (degli enti), se esso è la «potenza» che «fa essere ciò che è»?
L’eterno è eterno proprio perché non è fatto essere. Tuttavia, dicevamo,
l’eternità di ogni essente è necessariamente implicata da ciò che non
può essere negato, la struttura originaria; ed è impossibile che sul
fondamento di essa si pervenga alla negazione di ciò che essa implica e
quindi alla negazione di essa. È cioè impossibile che si pervenga a
qualcosa — il «Possibile» — che non è un nulla e che tuttavia ha la
pretesa di non essere un ente e di stare al di sopra della totalità
degli enti. E, si è visto, Cacciari non sembra negare né la struttura
originaria, né l’eternità di ogni ente. (Tale struttura non è cioè un
insieme di postulati dai quali sia possibile dedurre, come nei sistemi
ipotetico-deduttivi, un teorema che li contraddica — come Gödel ha
appunto mostrato per la matematica).
Ancora. Tutto è eterno. Quindi anche gli erranti e l’errore, inteso come
il loro errare. Ciò che la Follia pensa — cioè che gli essenti vengono
dal loro nulla e vi ritornano — è nulla, ma la Follia non è un nulla, è
un essente; e quanto ampio è il suo regno! Da quando appare sulla terra,
l’uomo è dominato e abbagliato dalla Follia. Più profonda di ogni
«peccato originale», è la radice di ogni dolore e di ogni angoscia.
Nella sua essenza più profonda l’uomo è il contrasto tra l’eterno in cui
consiste la verità e l’eterno in cui consiste la Follia. Ma, e ancora
sul fondamento della struttura originaria della verità, è necessario
affermare che la Follia è destinata al tramonto. Cacciari scrive: «Se
l’errore stesso è un eterno, come dice appunto Severino, che valore è
possibile dare a espressioni che ne indicano il tramonto e il
compimento?» (Labirinto filosofico , p. 49). Accenno alla risposta.
L’infinito cammino del ri-velarsi degli essenti passa attraverso il
tramonto e il compimento della Follia. Questo non significa che la
Follia vada nel nulla, ma che tutti gli eterni che la compongono si sono
ormai manifestati, e quindi essa è compiuta, è un perfectum . Dopo la
morte la sua ampiezza abbagliante rimane un punto rispetto all’infinità
mai compiuta del cammino in cui la manifestazione del finito si fa
sempre più concreta. Per questo a tale cammino si addice esser chiamato
Gloria . In qualche modo, nella nebbia, il cristianesimo lo intuisce .
Cristo siede, nella «Gloria», alla destra del Padre. Ma non può aver
dimenticato la propria sofferenza, dovuta ai peccati, cioè alla follia,
dell’uomo. La ricorda forse da lontano, così come noi ricordiamo il
passato? Nemmeno: sarebbe un modo di averla dimenticata. Allora l’ha
completamente vicina a sé: nella somma felicità della «Gloria» continua a
sperimentarla; ed è proprio quella sofferenza, in tutti i suoi aspetti.
Non una briciola di essa va perduta, diventando un nulla. È eterna. Ma
essa è una briciola in confronto all’infinita felicità della «Gloria».
Al di là del racconto cristiano, si tratta di pensare tutto questo.
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