giovedì 22 maggio 2014
Massimo Cacciari dal Soglio pontifico all'ideologia della missione europea: una variante ermetica e riluttante dell'universalismo imperiale
Il Vecchio Continente fantasma politico in cerca di un’identità
Già Marx e Nietzsche avevano capito che il processo di unificazione economica doveva essere intrapreso
di Massimo Cacciari Repubblica 22.5.14
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appare inarrestabile la decadenza del ruolo politico e del peso
economico dell’Europa nel mondo fattosi Globo ( The Globe è il simbolo,
consacrato all’esposizione universale di Parigi del 1889), più sembra
crescere il desiderio di definirne la figura, di disegnarne l’identità,
di stabilirne l’idea. Ma quanto esso si fonda su una reale conoscenza
della storia europea? Quanto esso corrisponde al “dèmone” che ne
presiede le continue metamorfosi? E di che natura sono i progetti e i
programmi che da esso possono prendere vita?
Infermissima, insecura è
l’idea di uno spazio culturale europeo fin dal suo primo manifestarsi.
Europa non ha mai indicato un luogo in contrapposizione ad altri,
tantomeno un “centro sacrale”, come molti un tempo hanno preteso, ma
un’energia irradiante in ogni direzione, una radicale insofferenza per
ogni confine che non significasse soglia da trasgredire. Qui
mai il dio Termine ha trovato dimora. Questa energia ha assunto due
volti, che nella loro inseparabilità hanno costituito la tragica
grandezza d’Europa: un’inquietudine interiore, da cui nasce la
“invenzione” di un movimento storico, che tutto relativizza e, alla
fine, travolge; l’impossibilità di “lasciare in pace”, il non poter fare
a meno di trascinare nel vortice di quel movimento ogni altra cultura,
magari soltanto con la volontà di “scoprirla”. Fame di conoscenza e fame
di conquista sono categorie rigorosamente scisse solo nella fantasia
delle anime belle.
La “detronizzazione” d’Europa, seguita
inesorabilmente alle guerre mondiali che essa ha scatenato, ha posto
fine a ogni sua possibile “missione”? Il suicidio delle sue volontà
egemoniche deve comportare l’impotenza a deciderne qualsiasi “compito”? È
chiaro che a queste domande non si risponde con i “programmi” per il
rafforzamento (o il salvataggio) della sua unità economica. Ben prima
infatti che quel suicidio si compisse, i grandi “profeti” dell’età che
viviamo, da Tocqueville a Marx a Nietzsche, avevano compreso la
necessità che il processo di unificazione economica venisse intrapreso.
Gli staterelli europei (diceva Nietzsche nel 1885!) saranno costretti
sotto la spinta dei commerci mondiali a stringersi insieme in un’unica
potenza. Il solo denaro li obbligherà a questo tentativo, per
l’impossibilità evidente di competere nell’economia globale da parte di
qualsiasi antico ”staterello sovrano”. Riconoscere ciò che è necessario
fare per sopravvivere è certo buon segno di volontà di vita, ma non
indica di per sé alcuna “missione”, non può assumere alcun significato
per il destino degli altri spazi dell’unico Globo.
Altrettanto
evidente è, però, che nessun compito futuro può essere “inventato”, che
qualsiasi “progetto” dovrà rivivere in sé fattori essenziali del passato
e la sua lingua sapersi esprimere nei linguaggi in cui storicamente
l’Europa si è rappresentata, non nell’universale esperanto tecnico-
formale che appartiene al “solo denaro”, per trasformarli, magari,
proprio parlandoli.
Ora, l’Europa insecura, operante proprio sempre
in forza di tale insecuritas, questa Europa, che mai è sembrata avere
sede certa, attorno a un linguaggio si è tuttavia costruita o, meglio, a
un suo “originario fenomeno”. Possiamo chiamarlo “filosofia”. Non si
tratta di contenuti determinati, tantomeno di astratti sistemi, ma di un
atteggiamento complessivo che informa di sé tutta la nostra immagine
del mondo, che determina una idea di vita: la possibilità che, al limite
, essa possa essere condotta sulla base di norme razionali; che,
proprio a tal fine, cultura e scienza debbano poter procedere
autonomamente, ovverosia incondizionatamente, per potersi così esprimere
in tutta la loro intrinseca potenza; che la libertà che in questa
attività si incarna sia possesso del soggetto che opera, e che operando
fa la propria storia, di noi, i Soggetti. Si potrebbe dimostrare come
questa prospettiva si sia intrecciata con tutte le dimensioni
dell’esperienza europea, ma la questione che urge non è storiografica.
Può l’Europa avere altro compito che quello che il suo dèmone filosofico
gli ha dettato? Programmi, certo, ne potrà elaborare comunque, come
qualsiasi grande spazio del Globo, per salvaguardare la propria
“competitività”. Ma una “identità” diversa da quella che nel linguaggio
della filosofia si è tracciata, dove potrebbe mai immaginarla? Poiché
questo appunto è il problema: che quel linguaggio è apparso compiuto (e,
per tanti versi, vittoriosamente compiuto) nel corso del tragico
“secolo breve”, che esso, proprio con la “occidentalizzazione”
dell’intero pianeta, sembra giunto al suo estremo. Che rimane all’Europa
da fare dopo aver compreso ogni alterità nella forma trascendentale del
Cogito e svelato ogni “ideale” o “valore” come proprie creazioni, che
di volta in volta storicamente si realizzano? Forse nient’altro che la
critica de-costruttiva, la messa in dubbio radicale della fondatezza di
quell’eroica istanza. Può il compito attuale d’Europa consistere
nell’esercizio ironico- scettico rispetto ad ogni pretesa di riduzione
del mondo a “sistema”? Un gesto di rinuncia ne caratterizzerebbe,
allora, l’idea. Rinuncia a ogni volontà di possesso e afferramento del
reale sul metro della propria storia, rinuncia a ogni forma di
teleologia. Rinuncia che non significhi pessimistico abbandono, ma
capacità di accogliere in sé, attenzione e ascolto rivolti all’infinita
differenza che ci separa dal prossimo, e insieme a lui ci accorda. Il
tramonto destinato della potenza europea può trasformarsi in una volontà
operante, capace di indicare una destinazione: un mondo in cui
l’esperienza della coscienza, per dirla con Hegel, giunga a comprendere
che la presenza dell’altro è condizione necessaria della ricerca della
propria stessa identità. “Costituzionalizzare” l’Europa per impedirne il
tramonto, per arrestare la decadenza della sua volontà di potenza,
rappresenta la prospettiva opposta. E nessun “potere che frena”
basterebbe alla bisogna. Che il tramonto divenga un tramontare , questo
occorre, che sia conflitto verso ogni forma di idolatria identitaria,
che sia apertura all’imprevedibile e all’inaudito che ogni incontro con
l’altro, ogni nuova aurora, porta con sé.
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