L’EUROPA è un moving target; l’Europa come tale non esiste. C’è
soltanto un processo di europeizzazione. Gli stranieri diventano
indigeni, nascono nuove istituzioni politiche, altre mutano. Le elezioni
europee lo hanno di nuovo dimostrato, in modo sorprendente. Sono stati
soprattutto i socialdemocratici a tentare di democratizzare le elezioni
europee con l’indicazione di candidati di punta per la carica di
presidente della Commissione europea. In questo modo questa carica
ottiene una ben diversa legittimazione e rilevanza. Ciò incontra
l’opposizione nel Consiglio dei capi di governo eletti democraticamente,
il cui spazio di negoziazione viene in tal modo limitato. Non solo: le
loro scelte in materia di presidenza della Commissione si rivelano non
trasparenti e non democratiche. Perciò, assistiamo a un conflitto tra
due democrazie - cioè tra la democrazia a livello europeo e la
democrazia a livello nazionale. È in gioco il potere del Parlamento
europeo e dei capi di governo. Nessuno lo aveva messo in conto. Ora
questo balzo in avanti nella democratizzazione deve essere completato.
Per la nomina alla presidenza della Commissione europea non c’è
alternativa al candidato eletto Jean-Claude Juncker. Se i capi di
governo proponessero qualcun altro che non è stato eletto, sarebbe un
attentato alla democrazia in Europa.
SE così fosse, in futuro quasi
nessuno andrebbe più a votare. E questo significa anche che il Consiglio
europeo, compresa Angela Merkel, deve depotenziarsi parecchio. Più
precisamente, deve depotenziarsi appunto con l’elezione di Juncker.
Questa spinta verso la democratizzazione, che equivale a un passo in
avanti verso l’europeizzazione, non era stata prevista. È questa la
sorpresa di queste elezioni. Benché l’esito del voto sia stato
interpretato da molti come un successo degli antieuropei, si è
improvvisamente aperta una finestra per un significativo “di più” di
democrazia nell’Unione Europea. Hegel la chiamava “astuzia della
ragione”.
Tuttavia, per molti l’Unione Europea rimane pur sempre un
progetto elitario. Abbiamo, sì, cittadini nazionali, nati e socializzati
come tali. Ma non abbiamo cittadini europei. L’Europa esiste soltanto
sulla carta, in parte nell’esperienza di singoli gruppi. L’Europa
dall’alto non basta, dobbiamo creare un’Europa dal basso, un’Europa dei
cittadini.
La crescita del gruppo degli euroscettici e degli
euroantagonisti nel Parlamento europeo impone di procedere in questa
direzione. Il grande gruppo dei partiti amici dell’Europa deve
continuamente porsi la domanda - da intendere come un monito e una sfida
permanente: Come dobbiamo rapportarci ai cittadini? Come possiamo fare
in modo che il singolo individuo comprenda cosa significa per lui
l’Europa e si accorga che la sua posizione migliora grazie alla
partecipazione al processo europeo? Quello che i cittadini chiedono è
più libertà, più sicurezza sociale, più democrazia concreta: non solo
gli Stati Uniti d’Europa, ma anche le città unite d’Europa.
In
conseguenza della crisi dell’euro ci sono diverse classi di europei - i
privilegiati dei Paesi donatori, in particolare i tedeschi, e i
cittadini di seconda classe dei Paesi in declino del Sud. Il potere
nell’Unione Europea è suddiviso in modo corrispondente. La Germania
domina. Questa dinamica è stata determinante nel provocare la
disillusione nei confronti dell’Ue. Anche in Francia. E senza la Francia
l’Europa crolla. È una grande preoccupazione. L’idea d’Europa è sempre
stata quella di equilibrare gli squilibri di potere e di consentire a
ciascuno la medesima opportunità di partecipazione. Il compito più
importante dei prossimi anni sarà quello di rinnovare in modo credibile
questa visione.
Come si spiega la grande comprensione dell’Europa
occidentale per Putin, che porta avanti una politica quasi
sciovinistica? C’è un nuovo contrasto tra una concezione etnica della
nazione e una cosmopolitica. Il pensiero territoriale, etnico ha una
lunga tradizione. Si sente sfidato dall’europeizzazione. Per questo
nella crisi dell’Ucraina la critica si rivolge contro l’Unione Europea,
alla quale viene rimproverato di mettere in questione le aspirazioni
territoriali della Russia. A ciò si aggiunge la paura di un conflitto
militare e delle conseguenze economiche delle sanzioni contro la
leadership moscovita. Alcuni temono che tali conseguenze - com’è
accaduto con la crisi dell’euro - colpiscano proprio loro. E tutto
questo si mescola in modo pericoloso.
Un’Europa che si concepisce
come un progetto di pace non può difendersi militarmente
dall’aggressione russa. Giusto. Ma ha altri mezzi. Nei contrasti
geopolitici oggi non sono più in gioco in primo luogo aspirazioni
territoriali, ma la partecipazione alle relazioni economiche
internazionali e alle organizzazioni e istituzioni internazionali. È una
necessità vitale a spingere le nazioni alla cooperazione e quindi al
riconoscimento dei diritti degli altri nello stesso interesse nazionale.
Perciò l’Europa e l’Occidente nel suo complesso possono benissimo
colpire la Russia con le loro sanzioni. La concezione cosmopolitica
delle nazioni può forse fallire a breve termine di fronte ai mezzi
militari, ma a medio termine si dimostrerà più efficace dell’impiego
delle armi. Nello stesso tempo assistiamo a un dibattito intellettuale
sulla giusta forma di democrazia e di dominio statale, come un conflitto
tra le due forme di modernità. Anche qui c’è bisogno dell’Europa come
contromodello rispetto al dominio autoritario di Putin.
L’Unione
Europea si trova dunque ad un bivio, sotto un duplice profilo. Da un
lato, riguardo alla sua ulteriore evoluzione. Dall’altro, riguardo a
come affronterà la sfida di questa forma autoritaria di modernità. Ciò
dipenderà anche da come verranno ripartite tra i diversi Paesi e tra i
singoli cittadini le conseguenze delle sanzioni economiche. La questione
sarà se - come nella crisi dell’euro - ogni Paese dovrà arrangiarsi per
conto suo, oppure ci sarà una ripartizione degli oneri all’insegna
della solidarietà europea, ad esempio nel caso in cui fossero a rischio i
rifornimenti di gas dalla Russia. In questo caso Putin, contro le
proprie aspettative, potrebbe addirittura provocare una più forte
europeizzazione. Lo si può osservare anche nella reazione della Gran
Bretagna, che di colpo, in conseguenza del conflitto con la Russia,
realizza di avere in comune con l’Unione Europea ben più di quanto
finora non si fosse voluto riconoscere.
Tuttavia, il tentativo
britannico di minacciare la fuoriuscita dall’Unione Europea per impedire
l’elezione di Juncker è molto ambivalente per il premier Cameron. Cosa
significa, propriamente, “fuoriuscita dall’Unione Europea”?
Questa domanda mira al tallone d’Achille degli antieuropei. Fuoriuscita
non può certamente significare che la Gran Bretagna esce dal mercato
europeo. Ciò comporterebbe un danno enorme per l’economia britannica.
Dunque, si vuole continuare a godere dei vantaggi del mercato comune e
possibilmente contribuire come membro associato alle decisioni di
Bruxelles, senza però condividere le conseguenze democratiche. Questo
conflitto deve essere risolto all’interno dell’Europa e in Gran
Bretagna. Come professore a Londra ascolto le discussioni che vi si
svolgono. Sono convinto che, se si votasse, alla fine una netta
maggioranza degli inglesi sceglierebbe la permanenza nell’Unione
Europea. Perché allora diventerebbe chiaro quanto fortemente la Gran
Bretagna è legata al continente e trae profitto da ciò. Ma una
fuoriuscita britannica dall’Unione Europea sarebbe anche un colpo per
gli americani, che tramite i loro alleati speciali esercitano
un’influenza sull’Ue. Una Gran Bretagna che non fosse più membro
dell’Unione Europea perderebbe importanza per gli Stati Uniti. (
Traduzione di Carlo Sandrelli)
Un percorso condiviso per un progetto federale
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini
Repubblica 11.6.14
L’EUROPA occidentale si è impegnata, seppure con molte ambiguità, in un
processo di unificazione di competenze. Si tratta di trasferire a un
livello più elevato funzioni fondamentali che oggi vengono esercitate
dai singoli Stati. Ciò significa eliminare o ridurre prerogative degli
Stati nazionali, un processo che alimenta forti conflitti poiché implica
nuovi assetti di poteri. Ma questa è l’unica strada non solo per
mettere in moto quelle economie di scala che permettono di abbattere i
costi e di aumentare l’efficienza, ma anche per ridurre la concorrenza
distruttiva tra i paesi europei e quindi per rafforzare una cooperazione
feconda che possa realmente far progredire il Vecchio Continente verso
un più vigoroso sviluppo economico e civile.
È indubbio che un
progetto di tale portata richiede una forte unità d’intenti e di
conseguenza deve essere chiaro quali sono gli obiettivi che l’Europa
federale intende perseguire. Crediamo che la priorità sia quella di una
piena occupazione equamente retribuita in tutti i paesi che hanno
aderito alla moneta unica.
Occorre dunque fissare chiaramente i
settori e le funzioni che saranno oggetto del trasferimento di poteri e
risorse verso un livello sovranazionale. Pensiamo alla difesa e cioè
alla creazione di un esercito comune e alla politica dell’energia per
quel che riguarda le importazioni di gas e petrolio che dovrebbero
essere gestite da una unica centrale europea per acquisire un maggiore
potere contrattuale nei confronti dei paesi fornitori, in primis la
Russia. Poi certamente c’è il fisco perché bisognerebbe armonizzare i
regimi fiscali dei vari paesi al fine di evitare una concorrenza sleale
nelle attività produttive. Lo stesso discorso vale per la politica dei
redditi: è necessario stabilire dei livelli retributivi minimi validi
per tutti i paesi appartenenti all’area euro.
Sarebbe opportuno,
inoltre, affrontare il problema della ristrutturazione e della
mutualizzazione dei debiti, perché fino a questo momento i paesi in
difficoltà sono stati penalizzati rispetto ai paesi ricchi che hanno
tratto un enorme vantaggio dall’esistenza di una moneta unica con tassi
d’interesse differenziati. La soluzione del problema del debito potrà
consentire di porre fine a una concorrenza distruttiva e di aprire una
nuova fase di solidarietà tra i paesi europei.
Un discorso
particolare riguarda l’immigrazione: andrebbe istituito un centro
europeo dotato di risorse adeguate per gestire gli sbarchi, il
trasferimento e l’eventuale rimpatrio dei migranti.
Il percorso verso
la costruzione di uno Stato federale dunque richiede che siano messe in
comune le varie competenze che oggi sono prerogativa dei singoli Stati
europei. Un progetto di questo genere potrebbe essere promosso da un
gruppo di paesi propulsori. È giunto il momento di unire le forze e di
rompere l’immobilismo che sta trascinando a fondo il Vecchio Continente.
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