Rocco Moliterni
Programmi tv (da Masterchef alla Prova del cuoco), in cui si spadella a tutte le ore, libri di ricette, chef che diventano star e food blogger considerati opinion leader, street food in tutte le salse: mai come in questo periodo i discorsi sul cibo invadono la nostra vita. Ad aiutarci, con ironia e leggerezza, a capire il fenomeno è Gastromania, il nuovo saggio (esce il 17 settembre) di Gianfranco Marrone, docente di semiotica all’Università di Palermo.
Professor Marrone, questo insieme di riti e miti legati al cibo ha in Italia un punto di partenza?
«Sì, direi che ha inizio all’incirca a metà degli Anni 80, quando la cultura di sinistra sdogana il tema del cibo: nascono riviste come La Gola o il Gambero Rosso e movimenti come Slow Food. Il cibo da Platone in poi è stato ritenuto secondario. E la modernità l’aveva relegato in soffitta negando ciò che gli sta intorno: i risvolti etici, sociali e religiosi»
Come si può interpretare questa rivalutazione a volte parossistica che passa attraverso i media?
«Cerco di sottolinearne l’ambivalenza. Non mi colloco né con gli apocalittici alla Petrini che arrivano a parlare di pornografia per l’eccesso di trasmissioni tv sul cibo, né con gli integrati, ossia con chi approva acriticamente il fenomeno. Da un lato, come in tutte le mode, ci sono aspetti talora ridicoli. Dall’altro, il parlare del cibo è anche un parlare di quegli aspetti che come dicevo prima la modernità aveva “congelato”».
Nella Gastromania si può individuare una sorta di mistica della nonna e dei suoi cibi. Cosa rappresenta?
«Oggi anche grandi chef come Bottura dichiarano di rifarsi alla lezione della nonna. Anche in questa esaltazione della cucina della nonna io vedo un’ambivalenza. È negativa se si risolve in un rincorrere il passato tout-court, è positiva se è manifestazione di quella che il filosofo Vladimir Jankélévitch chiama “nostalgia del futuro”. Ossia un’emozione che ci permette di ritrovare il passato per migliorarci e guardare avanti. Un esempio è nel film Ratatouille. Grazie al ricordo di un cibo dell’infanzia, quando certo non era un bambino felice, il critico Anton Ego cambia il suo modo di vivere».
Due altre ossessioni sono il cibo biologico o naturale e quello a km0. Lei a proposito conia il termine di «ingenuinità». Cosa significa?
«L’ingenuinità è l’ingenuità di chi, a volte in modo sincero e per questo in parte ammirevole, va alla ricerca della genuinità. Mi è capitato di rivedere in tv il programma Anni 50 di Mario Soldati In viaggio nella Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini. La sua esaltazione del vino del contadino ne fa un antesignano di tale atteggiamento. Che è comprensibile e condivisibile se dietro la ricerca del naturale e del km0 c’è una difesa della biodiversità nei confronti della globalizzazione e dell’omologazione che questa comporta, ma che è ridicola quando diventa un’ideologia totalizzante. Chi diventa talebano del km0 dimentica che ci possono essere prodotti eccellenti fuori del proprio territorio e prodotti pessimi coltivati sotto casa. E soprattutto che la cucina, come la cultura, da sempre è sinonimo di ibridazione e che non ha senso rinchiudersi nel proprio orticello».
Lei paragona lo chef che si aggira tra i tavoli del proprio ristorante al politico che «sta tra le gente». Perché?
«Mi sembra che si possa tracciare un parallelismo tra le due figure. Un tempo cucina e sala erano separate. Nella prima regnava lo chef, nella seconda il maître. Oggi il primo ha invaso il campo del secondo. Lo chef prima scende tra la gente, poi addirittura “va in città”, nel senso che lo si interpella anche su temi come l’economia o la religione. È la stessa parabola dei politici. Prima vivevano nei luoghi del potere, poi è nata la mistica del politico “uno di noi”, per finire al paradosso del politico antipolitico».
Nell’ultimo capitolo lei chiede una moratoria sullo street food. Che cosa non sopporta del cibo di strada?
«Mi dà fastidio l’eccesso. È come se solo il kebab o le bombette fossero degne di essere mangiati. Dietro ci vedo un’espressione di machismo, l’uomo che va all’avventura gastronomica. Ma anche e soprattutto l’assenza della tavola, ossia della convivialità. Credo che invece si tratti di riscoprire l’importanza della tavola come luogo di scambio sociale e culturale. Per questo chiedo una moratoria sullo street food, un tempo per rifletterci sopra. Vorrei anche far capire che la Gastromania è il contrario della Grande Bouffe, si parla tanto di cibo ma lo si fa per vivere e non, come nel film di Ferreri, per morire».
Programmi tv (da Masterchef alla Prova del cuoco), in cui si spadella a tutte le ore, libri di ricette, chef che diventano star e food blogger considerati opinion leader, street food in tutte le salse: mai come in questo periodo i discorsi sul cibo invadono la nostra vita. Ad aiutarci, con ironia e leggerezza, a capire il fenomeno è Gastromania, il nuovo saggio (esce il 17 settembre) di Gianfranco Marrone, docente di semiotica all’Università di Palermo.
Professor Marrone, questo insieme di riti e miti legati al cibo ha in Italia un punto di partenza?
«Sì, direi che ha inizio all’incirca a metà degli Anni 80, quando la cultura di sinistra sdogana il tema del cibo: nascono riviste come La Gola o il Gambero Rosso e movimenti come Slow Food. Il cibo da Platone in poi è stato ritenuto secondario. E la modernità l’aveva relegato in soffitta negando ciò che gli sta intorno: i risvolti etici, sociali e religiosi»
Come si può interpretare questa rivalutazione a volte parossistica che passa attraverso i media?
«Cerco di sottolinearne l’ambivalenza. Non mi colloco né con gli apocalittici alla Petrini che arrivano a parlare di pornografia per l’eccesso di trasmissioni tv sul cibo, né con gli integrati, ossia con chi approva acriticamente il fenomeno. Da un lato, come in tutte le mode, ci sono aspetti talora ridicoli. Dall’altro, il parlare del cibo è anche un parlare di quegli aspetti che come dicevo prima la modernità aveva “congelato”».
Nella Gastromania si può individuare una sorta di mistica della nonna e dei suoi cibi. Cosa rappresenta?
«Oggi anche grandi chef come Bottura dichiarano di rifarsi alla lezione della nonna. Anche in questa esaltazione della cucina della nonna io vedo un’ambivalenza. È negativa se si risolve in un rincorrere il passato tout-court, è positiva se è manifestazione di quella che il filosofo Vladimir Jankélévitch chiama “nostalgia del futuro”. Ossia un’emozione che ci permette di ritrovare il passato per migliorarci e guardare avanti. Un esempio è nel film Ratatouille. Grazie al ricordo di un cibo dell’infanzia, quando certo non era un bambino felice, il critico Anton Ego cambia il suo modo di vivere».
Due altre ossessioni sono il cibo biologico o naturale e quello a km0. Lei a proposito conia il termine di «ingenuinità». Cosa significa?
«L’ingenuinità è l’ingenuità di chi, a volte in modo sincero e per questo in parte ammirevole, va alla ricerca della genuinità. Mi è capitato di rivedere in tv il programma Anni 50 di Mario Soldati In viaggio nella Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini. La sua esaltazione del vino del contadino ne fa un antesignano di tale atteggiamento. Che è comprensibile e condivisibile se dietro la ricerca del naturale e del km0 c’è una difesa della biodiversità nei confronti della globalizzazione e dell’omologazione che questa comporta, ma che è ridicola quando diventa un’ideologia totalizzante. Chi diventa talebano del km0 dimentica che ci possono essere prodotti eccellenti fuori del proprio territorio e prodotti pessimi coltivati sotto casa. E soprattutto che la cucina, come la cultura, da sempre è sinonimo di ibridazione e che non ha senso rinchiudersi nel proprio orticello».
Lei paragona lo chef che si aggira tra i tavoli del proprio ristorante al politico che «sta tra le gente». Perché?
«Mi sembra che si possa tracciare un parallelismo tra le due figure. Un tempo cucina e sala erano separate. Nella prima regnava lo chef, nella seconda il maître. Oggi il primo ha invaso il campo del secondo. Lo chef prima scende tra la gente, poi addirittura “va in città”, nel senso che lo si interpella anche su temi come l’economia o la religione. È la stessa parabola dei politici. Prima vivevano nei luoghi del potere, poi è nata la mistica del politico “uno di noi”, per finire al paradosso del politico antipolitico».
Nell’ultimo capitolo lei chiede una moratoria sullo street food. Che cosa non sopporta del cibo di strada?
«Mi dà fastidio l’eccesso. È come se solo il kebab o le bombette fossero degne di essere mangiati. Dietro ci vedo un’espressione di machismo, l’uomo che va all’avventura gastronomica. Ma anche e soprattutto l’assenza della tavola, ossia della convivialità. Credo che invece si tratti di riscoprire l’importanza della tavola come luogo di scambio sociale e culturale. Per questo chiedo una moratoria sullo street food, un tempo per rifletterci sopra. Vorrei anche far capire che la Gastromania è il contrario della Grande Bouffe, si parla tanto di cibo ma lo si fa per vivere e non, come nel film di Ferreri, per morire».
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