Umberto Ranieri ha vissuto da protagonista, fin dagli anni settanta, i diversi tentativi di dare all'Italia un grande partito riformista di massa. Dapprima dentro il Pci e poi nei partiti nati dalla fine del comunismo italiano, accanto a Giorgio Napolitano e dentro la tradizione dei cosiddetti "miglioristi": coloro che non si arrendevano all'idea che il principale partito della sinistra italiana fosse condannato alla testimonianza e all'opposizione, volendosi invece misurare con le sfide dell'integrazione europea e della riforma dell'economia e dello Stato sociale. Questo libro è il racconto di un impegno e di una coerenza che nel corso degli anni va dai comizi di Berlinguer, che parlava alla luce della luna tra i Sassi di Matera, fino alla sinistra di oggi nell'età di Matteo Renzi e del nuovo Pd. Un bilancio rigoroso delle occasioni perdute, delle battaglie vinte, dei tanti passaggi di una storia che non è ancora conclusa.
mercoledì 17 settembre 2014
Guerra Fredda infinita: c'è sempre qualcuno più Napolitano di te
Ranieri più Napolitano di Napolitano, della Loggia più Napolitano di Ranieri e così via [SGA].
Risvolto
Umberto Ranieri ha vissuto da protagonista, fin dagli anni settanta, i diversi tentativi di dare all'Italia un grande partito riformista di massa. Dapprima dentro il Pci e poi nei partiti nati dalla fine del comunismo italiano, accanto a Giorgio Napolitano e dentro la tradizione dei cosiddetti "miglioristi": coloro che non si arrendevano all'idea che il principale partito della sinistra italiana fosse condannato alla testimonianza e all'opposizione, volendosi invece misurare con le sfide dell'integrazione europea e della riforma dell'economia e dello Stato sociale. Questo libro è il racconto di un impegno e di una coerenza che nel corso degli anni va dai comizi di Berlinguer, che parlava alla luce della luna tra i Sassi di Matera, fino alla sinistra di oggi nell'età di Matteo Renzi e del nuovo Pd. Un bilancio rigoroso delle occasioni perdute, delle battaglie vinte, dei tanti passaggi di una storia che non è ancora conclusa.
Umberto Ranieri ha vissuto da protagonista, fin dagli anni settanta, i diversi tentativi di dare all'Italia un grande partito riformista di massa. Dapprima dentro il Pci e poi nei partiti nati dalla fine del comunismo italiano, accanto a Giorgio Napolitano e dentro la tradizione dei cosiddetti "miglioristi": coloro che non si arrendevano all'idea che il principale partito della sinistra italiana fosse condannato alla testimonianza e all'opposizione, volendosi invece misurare con le sfide dell'integrazione europea e della riforma dell'economia e dello Stato sociale. Questo libro è il racconto di un impegno e di una coerenza che nel corso degli anni va dai comizi di Berlinguer, che parlava alla luce della luna tra i Sassi di Matera, fino alla sinistra di oggi nell'età di Matteo Renzi e del nuovo Pd. Un bilancio rigoroso delle occasioni perdute, delle battaglie vinte, dei tanti passaggi di una storia che non è ancora conclusa.
«Riformisti» con il culto di Lenin
Una pura illusione il progetto coltivato dalla destra del Pci
di Ernesto Galli Della Loggia Corriere 17.9.14
L’ala
riformista del Partito comunista, i cosiddetti «miglioristi», ha
rappresentato con il Psi di Craxi la grande occasione mancata della
sinistra italiana. E al tempo stesso gli uni e l’altro insieme hanno
probabilmente rappresentato la grande occasione mancata che ebbe
l’intero sistema politico della Prima Repubblica di rinascere dalle
ceneri a cui lo stavano avviando quegli anni Ottanta che furono la sua
ultima stagione. Un invito a riflettere su questa pagina importante
della nostra storia politica è il libro di Umberto Ranieri giunto da
pochissimi giorni in libreria (Napolitano, Berlinguer e la luna. La
sinistra riformista tra il comunismo e Renzi , Marsilio): una pagina che
l’autore, come si sa, ha vissuto per così dire dal di dentro, sia come
dirigente del Pci a Napoli e nel Mezzogiorno sia come esponente
nazionale di rilievo del partito.
Il libro di Ranieri contribuisce a
dare risposta a una domanda cruciale: e cioè perché mai l’Italia sia
stato l’unico Paese dell’Europa occidentale nel quale per tutto il
Novecento il massimalismo si è dimostrato sempre più forte del
riformismo. E per quale motivo, quindi, essa non ha mai avuto un governo
realmente di sinistra, cioè un governo socialdemocratico. Le sue pagine
ce lo fanno capire ripercorrendo, in particolare, le tappe di quello
che fu il vano tentativo dei «miglioristi», guidati a partire dagli anni
Settanta da Giorgio Napolitano, di convincere il Partito comunista
della necessità di adottare una linea che andasse per l’appunto verso
l’affermazione nella sinistra di una prospettiva riformista.
Il
fatto è, a me pare, che i «miglioristi» non seppero o non vollero
rendersi conto (e si direbbe che lo stesso Ranieri oggi stenti a vedere
la questione con la necessaria chiarezza) di un punto che viceversa era
il punto: vale a dire che, lungi dal poter essere la soluzione del
riformismo in Italia, proprio il Pci ne rappresentava viceversa il
massimo ostacolo. Per l’ovvia ragione che la nascita e poi tutta la
storia di quel partito — all’ombra della rivoluzione bolscevica e
dell’esperienza sovietica — non solo non avevano nulla a che fare con il
riformismo medesimo, ma ne avevano sempre costituito una coerente
antitesi. Come del resto i «miglioristi» per primi avrebbero dovuto ben
sapere: non erano infatti stati per l’appunto quell’origine e quella
storia, con tutte le loro relative mitologie, ad avere spinto ognuno di
loro, in tempi diversi, ad entrare nelle file del Pci? Sicuramente sì,
non certo la prospettiva di qualche placida evoluzione socialdemocratica
della società italiana! Il Partito comunista, insomma, non poteva
diventare in alcun modo qualcosa in contraddizione con il proprio Dna. E
quando dico Dna, non intendo solo la sua radice storica e la sua natura
profonda, ma soprattutto lo sfondo mitico-ideale, le aspettative in
parte escatologiche, la cultura politica di base dei suoi militanti
(vorrà pur dire qualcosa, ad esempio, che ancora nel 1970, per il
centenario della nascita di Lenin, il Pci lanciasse una massiccia e
capillare campagna per la pubblicazione, la diffusione e la lettura dei
suoi scritti). Intendo cioè tutto il deposito di effettiva
predisposizione al massimalismo che era propriamente il suo e che esso
si trovava oggettivamente e continuamente ad alimentare.
Ciò che, a
dispetto di quanto ora ho detto, spinse i «miglioristi» a coltivare il
loro sogno fu probabilmente il fatto che tuttavia tale massimalismo — a
differenza di quello sgangheratissimo dei socialisti del «biennio rosso»
— non giunse mai a concepire o predicare apertamente alcuna rottura
istituzionale. Si fece anzi scrupolo costante di porsi a difesa delle
istituzioni, sebbene lo facesse però in nome di una versione sommamente
ambigua della categoria di antifascismo: che il Pci concepì sempre per
un verso come legittimazione dell’ordinamento repubblicano, ma per
l’altro anche come promessa di una futura, anche se mai meglio
precisata, «rivoluzione democratica» .
Riuscire a combinare una
prassi quotidiana democratica con il costante richiamo al mito
massimalista-rivoluzionario dell’Ottobre e dell’Urss fu per l’appunto,
come si sa, il capolavoro politico del togliattismo. E al togliattismo
la destra comunista rimase subalterna fino all’ultimo. Come il libro di
Ranieri testimonia puntualmente — e direi quasi dolorosamente — fino
all’ultimo essa, per esempio, non ebbe il coraggio di dire con la
chiarezza necessaria che cosa era in realtà il regime sovietico; fino
all’ultimo s’inchinò reverente al mito dell’«unità del partito» (la
prima volta che osò votare contro fu quando in undici si dissociarono
dalla designazione di Occhetto a vice del segretario Natta: nel 1987,
allorché in pratica stava venendo giù tutto); e pure all’ultimo, come
scrive Ranieri, i miglioristi «lasciarono che ancora una volta i conti
con la durezza della storia fossero rinviati», avallando il ridicolo
tentativo della strategia del «nuovo Pci», mentre quello vecchio stava
ormai per essere travolto dal crollo del Muro di Berlino. Desiderosi di
stare comunque nella maggioranza insieme a coloro che fino al giorno
prima avevano avversato.
Il maggior pregio del libro di cui si sta
dicendo alla fine sta proprio qui. Nell’essere una ricostruzione attenta
e personalmente partecipe (non scevra di una cosa in Italia rarissima,
di cui va dato il giusto merito al suo autore: l’autocritica ) del
tortuoso itinerario, dei contraddittori passaggi, di una posizione
politica che, nata per essere alternativa ai suoi avversari, non ebbe
però mai né la lucidità né il coraggio per esserlo davvero.
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