martedì 23 settembre 2014

I nuovi intellettuali organici: Diamanti, Battista, il figlio di Reichlin e molti altri uniti nella lotta per dare il colpo di grazia alla sinistra italiana

E' doloroso riconoscere quanti danni abbia fatto la cultura politica del Pci [SGA].

L'articolo 18 e il marketing politico
di ILVO DIAMANTI  22 settembre 2014 repubblica

I nostalgici del Novecento
di Pierluigi Battista Corriere 22.9.14

Ogni sterzata in senso riformista in Europa occidentale ha un prezzo: l’inasprirsi della guerra tra le due sinistre. Oggi è il turno della Francia e dell’Italia, le ultime trincee ideologiche di una sinistra immobilista e conservatrice che teme ogni cambiamento come una profanazione, se non un tradimento della propria identità, e nobilita ogni difesa corporativa con il richiamo rituale ai sacri princìpi violati dall’«usurpatore» di turno. I piloti dell’Air France che bloccano il Paese per protestare contro i piani di sviluppo della compagnia low cost controllata dal gruppo sono i cugini d’Oltralpe dei sacerdoti che si sentono chiamati alla missione di difendere il dogma dell’articolo 18: una clausola oramai sempre più sconosciuta nella realtà del lavoro, nell’orizzonte esistenziale dei giovani, dei lavoratori delle piccole imprese e del commercio, dei vecchi e nuovi precari, dei vecchi e nuovi disoccupati. 
Le svolte riformiste comportano gravi prezzi di popolarità e di consenso. Tony Blair ingaggiò un’interminabile e spietata battaglia contro il potente ma oramai decrepito establishment del vecchio Labour e solo grazie a quella offensiva coraggiosa riuscì a sfidare con successo la lunga egemonia dei Tories thatcheriani. Nella Germania del 2003 l’allora leader socialdemocratico Gerhard Schröder fu molto baldanzoso ed esplicito nel presentare un progetto riformista sul mercato del lavoro: «Ridurremo le prestazioni sociali dello Stato, promuoveremo la responsabilità individuale ed esigeremo un maggior contributo da parte di ciascuno». Fu una ricetta dolorosissima per la sinistra tedesca, che si spaccò, erodendo la base dei Socialdemocratici, pagò un duro prezzo elettorale ma contribuì alle riforme di cui la Germania aveva bisogno e che oggi fanno la differenza con tante nazioni dell’Europa mediterranea e latina. Oggi è la volta della Francia e dell’Italia, la culla della sinistra «latina», fortemente segnata dalle sue tradizioni politiche e sindacali, arroccata nelle sue fortezze ideologiche. E anche qui la guerra tra le due sinistre si annuncia feroce e cruenta. 
Alla Francia di Hollande non basta certo la testa dei tre ministri del governo Valls, e in particolare di quella del ministro dell’Economia Montebourg sostituito dal neoministro Macron, socialista certo ma con un passato di banchiere. Già con Mitterrand, il massimalismo ideologico della sinistra francese subì fortissimi colpi. Nel primo mitterrandismo la sinistra socialista pagò il prezzo della sua alleanza con il Pcf, ma quella fase si chiuse, con una rottura e una guerra tra le due sinistre che si esaurì provvisoriamente con la disfatta di quella più vecchia e conservatrice. In Italia la bandiera di un riformismo capace di sfidare i tabù e i veti di un sindacato impermeabile alle innovazioni più radicali nel mondo del lavoro venne dapprima impugnata da Massimo D’Alema: ma il braccio di ferro fu vigorosamente vinto dalla Cgil di Sergio Cofferati, che qualche anno dopo, riempiendo le piazze e trascinando l’intera sinistra politica di allora, sconfisse anche il tentativo di Berlusconi di modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Oggi Francia e Italia sono nuovamente di fronte a una biforcazione fatale: mettersi in gioco fino a sfidare tabù consolidati e apparentemente invincibili, oppure ripiegare su un minimalismo di compromesso che forse potrebbe salvare «l’anima» della sinistra antica ma farebbe fallire per l’ennesima volta l’ambizione di una sinistra moderna e non più prigioniera dei suoi schemi.

La sinistra Pd e la trincea ideologica del lavoro
di Pietro Reichlin Il Sole 21.9.14

L'opposizione della sinistra del Pd al contratto a tutele crescenti è la prova definitiva che sul lavoro si gioca una battaglia politica che ha poco a che fare con l'obiettivo di portare il nostro Paese fuori dal ristagno economico. Tutti sanno che l'art. 18 non crea e non conserva neanche un posto di lavoro per i giovani. Poche imprese sono oggi disposte a offrire un contratto a tempo indeterminato a chi entra nel mercato del lavoro. Pesano le incertezze legate all'inserimento e alle capacità dei nuovi assunti, la difficoltà di dimostrare la giusta causa nel caso di risoluzione del contratto e, soprattutto, i costi fiscali e contributivi che gravano sui contratti a tempo indeterminato. La conseguenza è che i giovani si devono accontentare di contratti a termine o a progetto o sono costretti ad aprire una partita Iva sopportando costi esorbitanti.
Il contratto a tutele crescenti non sarà la panacea. Nella migliore delle ipotesi dovrebbe facilitare un'assunzione regolare, eliminare il percorso a ostacoli del rinnovo sequenziale di contratti a termine, portare il rapporto tra giovani e datori di lavoro su un sentiero di stabilità e reciproca fiducia, rendere più conveniente l'addestramento professionale. Basterà ad eliminare l'abuso dei contratti atipici? Il recente decreto Poletti che semplifica l'uso dei contratti a termine è coerente con l'ipotesi di fare del contratto a tutele crescenti la strada maestra per l'inserimento dei giovani nel mercato del lavoro? Non è detto che tutto funzionerebbe come promesso dagli estensori del progetto. Non bisogna dimenticare che la chiave di volta del successo della Germania sul versante della ripresa economica e dell'occupazione è stata principalmente il decentramento della contrattazione e la flessibilità nella gestione della manodopera.
Tuttavia, la battaglia che hanno aperto il sindacato e la sinistra Pd non si occupa delle questioni importanti aperte dal progetto di legge in discussione. Si è deciso, invece, di agitare lo spettro dell'art. 18. Un atteggiamento speculare a quello del centrodestra che vede invece nell'art. 18 un'occasione per aprire nuove ferite a sinistra. Ma quale sarebbe la lesione dei diritti che il contratto a tutele crescenti verrebbe a creare? Si crede veramente che la preoccupazione di non essere adeguatamente protetti da un giudice in caso di licenziamento per ragioni disciplinari immotivate, o per discriminazione sindacale, sia in cima ai pensieri di un giovane interessato a un rapporto di lavoro stabile e duraturo? È forse meglio rinunciare a ogni cambiamento e rimanere con un vero precariato senza neanche un indennizzo monetario per chi perde il lavoro?
Si può comprendere che il sindacato veda nel contratto a tutele crescenti il pericolo di indebolire la propria forza contrattuale. Si tratta di una reazione poco lungimirante ma, tuttavia, tipica di un'organizzazione che rappresenta interessi sociali. Viceversa, il fatto che la sinistra Pd sposi in pieno la visione del sindacato su tale questione è frutto di una mancanza di maturità politica. Chi si oppone a Renzi all'interno del Pd ha scelto di farlo sulla base di una divisione ideologica tra destra e sinistra. Ma una sinistra lontana dai problemi veri del Paese rischia di apparire conservatrice e minoritaria di fronte ad un'opinione pubblica sempre più consapevole che il lavoro non si crea con avvocati e carta bollata e che le riforme strutturali sono necessarie.


Qualcosa è cambiato
di Luca Ricolfi La Stampa 21.9.14

Nell’ultima settimana qualcosa è cambiato. E’ cambiata la situazione, perché tutti gli organismi internazionali e i centri studi hanno smesso di scommettere sulla ripresa italiana: il 2014 sarà ancora un anno di recessione, e il 2015 chissà. Ma è cambiata anche la risposta della politica, almeno sul versante governativo: Matteo Renzi ha (finalmente) deciso di dare la priorità che meritano alle riforme economico-sociali, e in particolare al Jobs Act. Questa svolta, non ancora evidente nel discorso di martedì in Parlamento, troppo avaro di impegni precisi, è diventata invece chiarissima nei giorni successivi, con le dichiarazioni sull’articolo 18 e con il video-messaggio di venerdì, in cui Renzi ha attaccato frontalmente i sindacati, accusandoli di aver sempre privilegiato i lavoratori garantiti e trascurato gli occupati precari e chi un lavoro non ce l’ha.
Renzi ha ragioni da vendere, perché la divisione fra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, garantiti e non garantiti, insider e outsider, è effettivamente uno dei nodi fondamentali dell’Italia, se non il nodo fondamentale.
E il fatto che sindacalisti, politici e osservatori impegnati gli oppongano, nel 2014, i medesimi argomenti di 20 o 30 anni fa, non fa che confermare le buone ragioni di Renzi.
E tuttavia…
Per vincere una battaglia non basta avere sostanzialmente ragione, o che i propri avversari non dispongano di soluzioni praticabili. Occorre anche che le proprie soluzioni siano tali. In poche parole: che funzionino.
Per questo penso che quella che si annuncia sembrerà (ai mass media) una battaglia fra «renzismo» e «camussismo», ma sarà invece (per l’Italia) una partita, dagli esiti imprevedibili, fra due renzismi entrambi possibili.
Il primo renzismo possibile è quello «di tipo Craxi». In questo scenario Renzi abolisce l’articolo 18 per i neo-assunti (come Craxi aveva fatto con la scala mobile), introduce il contratto a tutela crescente, riforma gli ammortizzatori sociali estendendoli a tutti gli occupati e rendendoli più severi (corsi di formazione, obbligo di accettare le offerte di lavoro). In poche parole: modernizza il mercato del lavoro. Se Renzi fa solo o principalmente questo (che comunque non è poco) è possibile che l’occupazione non riparta, che l’Italia continui ad essere uno dei Paesi Ocse con meno occasioni di lavoro, e che fra qualche anno ci tocchi sentir dire che «aveva ragione la Camusso, togliere l’articolo 18 non crea nuovi posti di lavoro».
C’è però anche un secondo renzismo possibile, chiamiamolo «di tipo Blair» giusto per dargli un nome. Il suo punto di partenza è la constatazione che le imprese, oltre al problema di un mercato del lavoro rigido, di una burocrazia asfissiante, di una giustizia civile lentissima e inaffidabile, hanno anche un serissimo problema fiscale: il costo aziendale di un’ora di lavoro è eccessivo, e la tassazione sul profitto commerciale (il cosiddetto Ttr) non ha eguali in nessuno dei 34 Paesi Ocse. Detto altrimenti: se le imprese non assumono non è solo, o principalmente, perché poi non possono licenziare, ma perché non hanno margini sufficienti. Questo significa che, per creare occupazione, occorre anche allentare la morsa fiscale sui produttori, il che costa molto in termini di risorse, e alla fine fa sempre arrabbiare qualcuno: se finanzi gli sgravi aumentando il debito pubblico si arrabbiano l’Europa e i mercati finanziari, se li finanzi tagliando la spesa pubblica si arrabbiano la Camusso e i sindacati.
Quale renzismo prevarrà, ammesso che la sinistra Pd e i sindacati non ci rispediscano subito al voto?
Io tendo a pensare che Renzi non disdegni il renzismo di tipo Blair, ma che alla fine sarà costretto ad adottare quello di tipo Craxi. E la ragione è molto semplice. Ammettiamo per un momento che Renzi, che finora si è preoccupato soprattutto dei garantiti (bonus di 80 euro), e anche per questo ha goduto della benevolenza dei sindacati, abbia deciso finalmente di occuparsi di chi un lavoro non ce l’ha, giovani e donne innanzitutto. Ammettiamo che sia persuaso che ridurre i costi delle imprese sia una precondizione per metterle in grado di assumere. Ammettiamo che sia convinto che nella Pubblica amministrazione ci sia «grasso che cola», e che sia da lì che debbano provenire le risorse per riformare gli ammortizzatori sociali e ridurre il costo del lavoro. Anche assumendo tutto ciò, ossia una ferrea volontà di creare lavoro, resterebbe un problema politico enorme: sconfiggere la Cgil in una battaglia campale sull’articolo 18 è più facile, molto più facile, che tagliare 15 o 20 miliardi di sprechi nella Pubblica amministrazione. Nel primo caso (abolizione articolo 18), Renzi non avrebbe contro né i garantiti (che resterebbero tali, perché l’articolo 18 verrebbe abolito solo per i neo-assunti), né gli esclusi, la cui prima preoccupazione è quella di trovare un lavoro, ma solo i settori più politicizzati e conservatori della società italiana. Nel secondo caso (tagli di spesa pubblica), invece, Renzi avrebbe contro un po’ tutti: dipendenti pubblici, sindaci, governatori, percettori di prebende e sussidi, lobby legate alle commesse pubbliche. Insomma, vincere una battaglia ideologica è più facile che battere una rete di interessi. Il renzismo del primo tipo (alla Craxi) è più facile di quello del secondo (alla Blair).
Può darsi che, come il solito, io sia troppo pessimista. Ma ho l’impressione che, incassato il sostegno dei lavoratori dipendenti e di tanti elettori delusi da Berlusconi, a Renzi manchi ancora un tassello fondamentale: convincere gli uomini e le donne che stanno fuori o ai margini del mercato del lavoro che la sua battaglia è anche la loro.

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