Ieri sera il Tg2 delle 20.30 ricordava i 60 anni di Marco Tardelli non con un'intervista o una carrellata di immagini calcistiche ma con un lungo filmato celebrativo della caduta del Muro di Berlino e della vittoria dell'Occidente sul comunismo. Avrebbero potuto scegliere qualunque accompagnamento; invece hanno scelto proprio questo. Siamo dunque ancora in piena Guerra Fredda e questo libro e queste recensioni - Repubblica e Corriere a coppia, come i due carabinieri - lo confermano.
Tuttavia, la forza dell'oggettività delle cose si impone anche in questo caso: si stava meglio quando si stava meglio [SGA].
Svetlana Aleksievic: Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, Bompiani
Risvolto
"Per me non è tanto importante che tu scriva
quello che ti ho raccontato, ma che andando via ti volti a ouardare la
mia casetta, e non una ma due volte". Così si è rivolta a Svetlana
Aleksievic, congedandosi da lei sulla soglia della sua chata, quella
contadina bielorussa. La speranza di avere affidato il racconto della
sua vita a qualcuno capace di vero ascolto non poteva essere meglio
riposta. Far raccontare a donne e uomini, protagonisti e vittime e
carnefici, un dramma corale, quello delle "piccole persone" coinvolte
dalla Grande Utopia comunista, che ha squassato la storia
dell'URSS-Russia per settant'anni e fino a oggi, è il cuore del lavoro
letterario di Svetlana Aleksievic. Questo nuovo libro, sullo sfondo del
grande dramma collettivo del crollo dell'Unione Sovietica e della
tormentosa e problematica nascita di una "nuova Russia", costituisce il
coronamento ideale di un lavoro di trent'anni: qui sono decine i
protagonisti-narratori che raccontano cos'è stata l'epocale svolta
tuttora in atto: contadini, operai, studenti, intellettuali, dalla
semplice militante al generale, all'alto funzionario del Cremlino, al
volonteroso carnefice di ieri forse ormai consapevole dei troppi orrori
del regime che serviva. Nonché misconosciuti eroi sovietici del tempo di
pace e del tempo di guerra, i quali non sanno rassegnarsi al tramonto
degli ideali e alle mediocri servitù di un'esistenza che, rispettando
solo successo e denaro, esclude i deboli e gli ultimi.
Il ritorno dell’homo sovieticus nella Russia postcomunista
Il libro di Svetlana Aleksievic registra il contro-movimento, la «forte domanda di Unione Sovietica» che si è manifestata nella società russa negli ultimi annidi Luigi Ippolito Corriere 25.9.14
Un
fiume di voci che riemerge come un fenomeno carsico dalle macerie,
materiali e spirituali, della storia russa recente. È questo il libro di
Svetlana Aleksievic Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il
crollo del comunismo (Bompiani). Dove il titolo originale, Vremija
Second Hand , metà in russo e metà in inglese, dà subito l’idea dello
scarto mentale e culturale tra il «prima» e il «dopo» rappresentato
dalla fine dell’Urss.
Un libro che scorre come un romanzo, ma che in
realtà è un trattato di antropologia culturale, il cui oggetto è una
specie umana tutta particolare apparsa e (forse) dissoltasi nel corso
del XX secolo: l’homo sovieticus , ossia il prodotto di settant’anni di
laboratorio marxista-leninista. Una specie, come scrive l’autrice,
inconfondibile, diversa da tutte le altre, con un suo vocabolario, una
sua idea del bene e del male, i suoi eroi e i suoi martiri.
L’autrice
stessa fa parte di questa umanità: nata in Ucraina da genitori
bielorussi e ucraini, vissuta in Bielorussia, cronista delle tragedie
del suo Paese, dalla guerra afghana al disastro di Cernobyl, fino
all’opposizione al regime di Lukashenko e all’esilio in Europa
(terminato tre anni fa col rientro a Minsk).
La Aleksievic registra
le tracce della civiltà sovietica, ma non pone domande sul socialismo,
bensì «sull’amore, la gelosia l’infanzia, la vecchiaia. Sulla musica, i
balli, le pettinature… Sui mille e mille dettagli di una vita che non
c’è più». E attraverso una miriade di testimonianze, registrate in presa
diretta, l’autrice racconta come questo homo sovieticus abbia reagito
di fronte alla libertà inaspettata di cui si è trovato a godere, o a
poter approfittare. Cita Dostoevskij, il Grande Inquisitore, il peso
insostenibile della scelta: «Ci sembrava che la scelta fosse stata
fatta, che il comunismo avesse definitivamente perso. E invece era
soltanto l’inizio…».
Chi ha avuto la fortuna di assistere da vicino a
quegli eventi, al tumulto della Russia negli anni Novanta, dalla caduta
di Gorbaciov all’erratico regno di Eltsin, sa che si è trattato di
un’epoca irripetibile. La fine della censura, la liberazione dalle
pastoie burocratiche, l’arricchimento vertiginoso, la sensazione che il
futuro stesse dietro l’angolo e che tutto fosse a portata di mano.
Un’ubriacatura, un disorientamento che scorrono nelle pagine della
Aleksievic attraverso mille ricordi e dettagli personali, declinati
attraverso interminabili conversazioni in cucina attorno a una tazza di
tè.
Ma l’autrice fa in tempo anche a registrare il contro-movimento,
la «forte domanda di Unione Sovietica» che si è manifestata nella
società russa negli ultimi anni: «Rinascono idee di vecchio stampo:
quella del grande impero, del pugno di ferro, della peculiare via russa…
E invece del marxismo-leninismo, l’ortodossia».
Ecco perché il
libro della Aleksievic è importante per capire i giorni presenti. Perché
ci mostra come, attraverso il marasma degli anni Novanta, l’homo
sovieticus sia giunto fino a noi. E come si sia installato al vertice
della piramide del potere. Perché cosa altro è Putin, se non l’homo
sovieticus riplasmato attraverso la distruzione dei valori del
postcomunismo?
L’autrice scrive di aver passato tutta la vita sulle
barricate. E alla fine intravede una nuova battaglia. In quelle decine
di migliaia di persone che scendono in strada con i nastri bianchi sulle
giacche. «Simbolo di rinascita. Di luce. E io sono con loro». Ma oggi
sappiamo che anche la stagione della protesta degli ultimi due inverni
si è rivelata effimera. E che la mobilitazione generale per la guerra in
Ucraina ha ricompattato il consenso neo-sovietico. C’è da chiedersi in
ultimo quanto ci sia di nostalgico e quanto di propriamente russo in
questo esito. «L’immobile mongolo», aveva scritto Marx. «Sono passati
cent’anni — annota la Aleksievic — e di nuovo il futuro non è al suo
posto. Siamo entrati in un tempo di seconda mano».
“L’animo russo vive ancora nei Gulag”
Dostoevskij, Solzenitsyn, la dissoluzione dell’Urss e il ruolo degli intellettuali Parla Svetlana Aleksievic, di cui esce il romanzo “Tempo di seconda mano”
di Wlodek Goldkorn Repubblica 25.9.14
ALCUNI
decenni fa ormai, il mondo degli intellettuali e letterati russi fu
diviso da una polemica fra due giganti. Da un lato Varlam Salamov,
autore di Racconti di Kolyma, un capolavoro di importanza analoga a Se
questo è un uomo di Primo Levi, e per 18 anni prigioniero dei Lager
staliniani; dall’altro, Aleksandr Solzenitsyn, diventato famoso con Una
giornata di Ivan Denisovic, autore dell’ Arcipelago Gulag , e con otto
anni di lavori forzati alle spalle.
Solzenitsyn sosteneva che
l’esperienza del Lager rendesse forti perché nelle condizioni estreme si
rivela la vera natura di ciascun uomo. Insomma, il Gulag come scuola di
resistenza spirituale. Salamov invece era del parere che la vita nel
Lager finisse per distruggere la personalità del prigioniero e che
l’essere umano vissuto nel Gulag fosse condannato a vivere il resto dei
suoi giorni come se non ne fosse mai uscito. Questa discussione, una
variante della secolare disputa tra slavofili, i sostenitori di una
Russia autocratica, ortodossa e imperiale, e “occidentalisti” la cita
Svetlana Aleksievic, anche lei scrittrice, 66enne, di padre bielorusso e
madre ucraina, l’anno scorso candidata, data dai bookmaker per certa,
al Nobel per la Letteratura, nel frattempo insignita da molti e
prestigiosi premi tra Francia e Germania. In questi giorni Aleksievic è
in Italia per ritirare un altro riconoscimento (Masi Grosso d’Oro
Veneziano) e per incontrare i suoi lettori. Dice Aleksievic: «Oggi
vediamo che aveva ragione Salamov. Nella Russia di Putin viviamo con la
mentalità da Lager. Non si parla d’altro che del pericolo che viene da
fuori, dal presunto accerchiamento da parte dei nemici esterni e della
minaccia che viene da quelli interni. Il lessico è dei tempi del passato
».
L’occasione della visita in Italia e di questa conversazione è
l’uscita dell’ultimo libro di Aleksievic, Tempo di seconda mano
(Bompiani), un racconto corale ed epico, oltre 700 pagine, sulla
dissoluzione dell’Urss e sulle sue conseguenze per l’uomo comune. Ci ha
messo più di dieci anni per scriverlo: ha viaggiato nelle remote
province, ha intervistato vecchi comunisti, contadine, minatori,
professionisti. Molti rivendicano i tempi dell’Unione Sovietica e
dicono: sebbene Stalin ci abbia fatto soffrire, ci ha permesso di
credere negli ideali. Colpisce l’uso che Aleksievic fa della lingua: il
suo, anche in questa intervista, è un russo ricercato, classico, quasi
ottocentesco, non contaminato dal gergo dell’ex Urss. «Quando l’impero
sovietico è crollato - racconta la scrittrice - noi democratici avevamo
una visione romantica. Ci immaginavamo un avvenire simile ad altri
popoli europei. Ci dicevamo: dopo decenni di isolamento, la Russia torna
a far parte del mondo. Eravamo influenzati dalla perestrojka, il
tentativo di democratizzare il Paese, di portarlo sulla strada di una
riforma di stampo socialdemocratico. Pensavamo di essere alla vigilia di
una specie di seconda vita (ma non di seconda mano): decente e
dignitosa».
Poi abbassa la voce: «Oggi è diventato invece evidente
che in Russia niente di buono riesce bene. A partire dal terzo mandato
di Putin (2012) è chiaro che stiamo tornando indietro. Certo, siccome
sarebbe difficile parlare della ricostituzione dell’Unione Sovietica, si
usa il termine Unione euroasiatica». Si tratta di un’idea di Aleksandr
Dugin, filosofo di estrema destra, ben visto nell’entourage del
presidente e che risale ai circoli di emigrati bianchi dei primi anni
Venti. Esuli che più tardi avrebbero dimostrato molta simpatia per
Stalin; alcuni tornarono in Urss per finire ovviamente prigionieri del
Gulag o fucilati. Aleksievic riflette: «Sta tornando il passato; senza
idee nuove. O forse sì, qualcosa di nuovo c’è. Abbiamo una variante
degli stalinisti, ma sono cristiani ortodossi. L’idea è quella di una
Grande Russia e dell’unicità del popolo russo. Putin dice che il crollo
dell’impero sia stato una catastrofe geopolitica. No, non è ridicolo.
Basti vedere come la Crimea sia stata annessa manu militari e temo che
la stessa sorte spetti all’Ucraina orientale. Tutto questo mentre l’86
per cento della popolazione appoggia il capo dello Stato».
Da vera
scrittrice che la realtà la capisce se organizzata in uno schema
narrativo letterario, Aleksievic cita Dostoevskij, acutissimo analista
dell’animo umano. «Dostoevskij diceva che l’uomo russo “vuole sempre di
più”. Non gli basta un po’ di benessere materiale. Per il russo l’idea,
se appare nobile, è in cima a ogni cosa». Alza la voce: «Stando a un
recente sondaggio, alla domanda “siete disposti a sacrificare la vostra
vita e la vita dei vostri familiari perché la Russia torni grande?”, il
37 per cento del campione ha risposto di sì». E quando pronuncia la
frase “La Russia torni grande” il tono della voce tra ironia e
indignazione imita quello solenne degli speaker di radio Mosca di una
volta.
Il sincretismo dei simboli lo si è visto alla parata militare
il 9 maggio a Mosca: stella rossa e coccarde zariste di San Giorgio. «È
l’ethos imperiale che ha vinto, non importa se zarista o stalinista»,
dice Aleksievic e aggiunge con tristezza: «Stalin non è più oggetto di
critica. Sono usciti moltissimi film e libri che lo elogiano. A Perm
stanno chiudendo il museo del Gulag». Il Lager Perm-36 è stato
costituito nel 1946, come luogo di lavoro forzato e morte per stenti.
Chiuso da Gorbaciov è stato trasformato in un luogo della memoria.
Continua la scrittrice: «In Russia viene riscritto il passato. Si arriva
a dire che i democratici siano stati dei delinquenti e c’è chi chiede
di trascinare Gorbaciov davanti a un tribunale». Riflette: «Il 21
settembre ci sono state manifestazioni contro la guerra. A Mosca sono
scese in piazza 20mila persone. Ma la grande maggioranza la pensa
diversamente».
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSgB0bfmtXxsLJflmujCbKANzMfL0NdDf5FVdGUQ4WzU7W6h8-FYhK43BBdzp2DzYDJGpxyWztLwif4Oo00NQNPrJiazyrD2BuuenPKAToAcrGAEqyZ1ll1Q-plolgKIw84dhxtnSbBGA/s1600/aleklib.bmp)
Le ragioni di questa involuzione? Aleksievic risponde:
«Viaggiando nel Paese ho toccato con mano la sensazione di
risentimento, sentivo racconti di gente derubata, ingannata dagli
oligarchi». E poi introduce il concetto della “cucina”. Ai tempi del
comunismo, i dissidenti stavano molto in cucina; a bere il tè e
discutere dei libri proibiti. Dice: «Noi dalla cucina non siamo mai
usciti. Pensavamo che il popolo volesse vedere stampati i libri di
Solzenitsyn, di Lev Razgon (17 anni nel Gulag) di Salamov. E invece i
libri sono rimasti invenduti. Ma sono fallite pure le élite. Si sono
messe al servizio di Putin e dei potenti. Si tratta di interessi molto
materiali: chi ha un ristorante, chi un figlio in carriera. Ognuno ha
una giustificazione per il proprio conformismo». E conclude: «Erano
belli i tempi in cui eravamo dissidenti nei confronti del potere. Essere
invece in dissenso con il popolo, come avviene oggi, è terribilmente e
tragicamente complicato ».
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