Anniversari. L’eredità irrisolta, a cinquanni dalla sua morte, di una leader comunista che ha voluto costruire un partito popolare radicato nella realtà nazionale lontano dal modello sovietico. Alcune note a partire dalla pubblicazione per i tipi Einaudi di «Guerra di posizione», l’epistolario del dirigente del Pci
Gianpasquale Santomassimo, 21.8.2014 il Manifesto
«Un’altra cosa che vorrei dire, e soprattutto ai nostri compagni che hanno già una certa preparazione, è che lo studio per loro non può consistere e non deve consistere nel mettere faticosamente assieme idee generali in forma più o meno polemica. Questo sforzo non porta di solito a fare niente di serio, e anch’esso non è studio, quando manchi la ricerca attenta, paziente, larga, dei materiali di fatto, quando manchi l’esame critico di questi».
C’è anche questo (tra consigli su come leggere e studiare, in una lettera a «una cellula dell’apparato» pubblicata su Vie nuove del marzo 1949) nella raccolta recentemente pubblicata (Palmiro Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944–1964, a cura di Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi, Prefazione di Giuseppe Vacca, Einaudi, pp. 372, euro 24), selezione inevitabilmente e consapevolmente «arbitraria» di un epistolario vastissimo, parte di un Fondo che attende una piena valorizzazione.
Il titolo discutibile, gramsciano, richiama un’atmosfera successiva al fallimento della rivoluzione comunista in Europa, quella «guerra di posizione» vissuta da Gramsci e Togliatti anche come occasione per ripensare i termini della sconfitta e per impedirne il ripetersi. E nella prima intervista a un inviato speciale della Reuters nell’aprile 1944, con la quale si apre il volume, Togliatti ribadiva: «Nei primi anni della sua esistenza il Partito comunista italiano commise gravi errori di settarismo, non seppe fare una politica di unità del popolo per la difesa delle libertà democratiche contro il fascismo. Di questi errori trasse profitto la reazione e noi oggi ci guarderemo bene dal ripeterli».
Ma il «ventennio togliattiano» (1944–1964), in cui Togliatti esercita il ruolo di costruttore e capo di un grande partito comunista di massa, appartiene ad epoca diversa, in cui guerra di trincea e di movimento si intrecciano in forme ormai lontane dalla fase «bolscevica». Le lettere ci restituiscono, come ha notato Mario Tronti su «l’Unità» del 7 luglio, «un Togliatti molto gramsciano, ma che non smette mai, nemmeno per un momento, di essere togliattiano». Dove mentalità togliattiana significa indubbiamente realismo, valutazione attenta e costante dei rapporti di forza, non per cristallizzarli ma per modificarli a vantaggio di un fronte ampio di alleanze da costruire, rivolgendosi a tutti gli interlocutori possibili. L’elenco dei corrispondenti rispecchia l’ampiezza di questa propensione al dialogo e alla ricerca di un terreno d’incontro mai subalterno (da Pietro Badoglio a Benedetto Croce, da Alcide De Gasperi a Romano Bilenchi, da Pietro Nenni a Vittorio Valletta e alla famiglia Olivetti, da Stalin a Giuseppe Dossetti).
Il ruolo attribuito alla cultura, da costruire quasi da zero — più che recinto da «egemonizzare» — per chi veniva dalla distruzione operata dal fascismo è uno dei temi fondamentali del volume, una «battaglia delle idee» seguita con cura anche nel dettaglio, quasi maniacale, senza impartire in genere «direttive», anzi rifiutando dirigismi confusi e caporaleschi sul terreno della ricerca storica (la vicenda già nota della difesa di Gastone Manacorda dalla pretesa di «dettare la linea» da parte di esponenti dell’apparato).
Quello che probabilmente colpisce di più il lettore odierno è lo sfoggio – innegabilmente compiaciuto – di erudizione, che si esplica ad esempio nelle polemiche con Vittorio Gorresio attorno a un sonetto di Guido Cavalcanti e alla sua esatta grafia: dove c’è sicuramente la volontà di dimostrare che i comunisti non erano i selvaggi dipinti dalla propaganda avversaria, ma non c’è in alcuna forma la volontà di venire ammessi nei «salotti buoni» della borghesia, che travolgerà lontani eredi di quella tradizione in anni futuri. C’è ancora la volontà di costruire un circuito culturale autonomo e parallelo, che riprende ispirazioni dell’«universo socialista» a cavallo fra i due secoli, ma senza semplificazioni grossolane e interagendo senza rigide separazioni con la cultura nazionale. C’è anche la convinzione che il movimento operaio debba essere, classicamente, «erede» dei punti più alti della cultura borghese (le famose bandiere lasciate cadere nella polvere e che vanno risollevate) e che il superamento possa avvenire solo attraverso assunzione piena delle istanze più alte della tradizione che si avversa.
Ma probabilmente c’è qualcosa di più, che attiene alla dimensione strettamente personale di un uomo combattuto in gioventù tra vocazioni che apparvero alternative, tra la dimensione di studioso e quella di politico, e dove la scelta esistenziale, compiuta infine, non si tradusse nel senso un po’ arido che Croce dava al termine di totuspoliticus (coniato appunto in una lettera a Togliatti) ma in una concezione della politica che pur autonoma e con le sue regole era inestricabilmente connessa alla cultura. Quest’ultima coltivata in forma autonoma, e che si era arricchita nel tempo di dimensioni in precedenza ignorate: si pensi al rapporto con l’illuminismo, completamente estraneo alla formazione giovanile torinese e ordinovista. Quel Togliatti che nelle memorie di Giulio Cerreti troviamo intento nei lunghi soggiorni parigini nella ricerca dei classici settecenteschi presso le librerie antiquarie è lo stesso che tradurrà il Trattato della tolleranza di Voltaire (in polemica con le tentazioni «clericofasciste» della nuova Italia) e che qui vediamo impegnato in discussioni su Pietro Giannone e sulla civiltà giuridica dell’illuminismo italiano.
Ma a differenza che nella cultura azionista, l’unica che in quegli anni riscopre in Italia l’illuminismo, questa acquisizione non si traduce in una ripresa del vecchio anticlericalismo, ma anzi in una attenzione più assidua al dialogo con le istanze profonde della sensibilità religiosa. In forma differenziata: sprezzante nei confronti di De Gasperi, affettuoso nei confronti di Don Giuseppe De Luca («lei è per me tra i pochi che, vivendo, della mia vita stati un po’ la compagnia e un po’ la fierezza» gli scrive il prete lucano in punto di morte, nel gennaio 1962). E in una lettera alla sorella di De Luca, a un anno dalla scomparsa, nel febbraio 1963, Togliatti chiariva i termini di questo rapporto: «La sua mente e la sua ricerca mi pare fossero volte, nel contatto con me, a scoprire qualcosa che fosse più profondo delle ideologie, più valido dei sistemi di dottrina, in cui potessimo essere, anzi, già fossimo uniti. Cercava e metteva in luce la sostanza della nostra comune umanità».
L’ampiezza degli interessi culturali (unita a gusti in verità retrogradi tanto in letteratura quanto in pittura e musica) non lo spinge a divenire quello che oggi si definirebbe un «tuttologo», e questa consapevolezza del limite si riflette anche nel suo stile di direzione: «Voi mi considerate come quegli apparecchi automatici che ti servono a tua scelta, solo che tocchi un bottone, un pollo arrosto, o un bicchiere di birra o una caramella al miele» protesta scrivendo alla Federazione di Bologna nel marzo 1961. Stile che emerge anche nel rifiuto degli usi «sovietici» che i dirigenti del partito vorrebbero imporgli per celebrare la sua personalità, chiedendogli di posare per un busto: «Questo si fa, da noi, ai morti ed è una cosa ridicola. Il mio busto, per ora, sono io. Non andrò quindi dalla Mafai a posare e se ci vado, (vado) con un bastone per distruggere il già fatto». E non sapremo mai, in verità, fino a che punto credesse alle difese argomentate dell’esperienza sovietica in cui si produceva, avendo però fin dal ritorno in Italia chiarito che quel modello non era importabile né da imitare in forma ingenua e ripetitiva.
Molto significativo è anche quel che emerge sulla concezione della democrazia parlamentare, che fu uno dei cardini su cui il Pci di Togliatti venne costruito. In un momento in cui i leaders politici si esprimono in parlamento come se si trovassero alla Sagra della Fettunta di Rignano, è istruttivo lo scambio di lettere del maggio 1964 con Pietro Nenni a proposito della decadenza della prassi parlamentare. Lo scadimento dello stile di lavoro dei parlamentari si registra nella «decadenza del dibattito e quindi anche dell’istituto parlamentare. Questi discorsi ad aula vuota, nell’assenza totale o quasi dei partiti governativi e dei dirigenti del governo, e i voti che intervengono poi, a corridoi affollati, su posizioni elaborate in altra sede, sono un fatto assai grave». Già in una lettera a Giovanni Leone (presidente della Camera) del 23 luglio 1958 aveva condiviso il personale rifiuto, a norma di regolamento, dei testi «scritti» in precedenza e non sviluppati al cospetto dei deputati, avvertendo però che rispetto all’antica tradizione parlamentare il discorso politico, nell’epoca dei grandi partiti popolari, non poteva che assumere ormai «aspetti ben diversi dalla semplice dotta conversazione», soprattutto per chi rappresentava classi popolari e non proveniva dalle «classi colte, avvocati, docenti universitari, ecc.» e che pertanto nella stesura scritta trovava «assoluta necessità». Tempi molto lontani da noi, come si vede. E lo si comprende ancor meglio dalla chiusa della lettera, con il ringraziamento a Leone per l’aiuto finanziario a lui concesso dalla Camera per motivi di salute: «purtroppo si riscontra con troppa evidenza, in caso di infermità, quanto grande sia il divario tra la retribuzione che giustamente richiede un libero professionista, anche modesto, e quella cui dà diritto l’attività parlamentare». Non c’era una «casta», anche se l’antiparlamentarismo non mancava di certo negli umori atavici dell’ideologia italiana.
Il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Togliatti e il trentesimo di Berlinguer si sono intrecciati. Sono figure che non vanno contrapposte, e Berlinguer fino alla fine degli anni Settanta si mosse in una linea di evidente continuità con alcuni capisaldi dell’ispirazione togliattiana, per poi intraprendere nell’ultima e breve fase della sua vita una ricerca bruscamente interrotta di cui nessuno può ipotizzare compiutamente gli esiti possibili. Sono stati anniversari che hanno evidenziato il sedimentarsi di «fortune» molto diverse, e quasi di mitologie differenziate, sostanziate spesso di empatia confusa in un caso, di fredda diffidenza (se non damnatio memoriae) nell’altro.
Probabilmente nessun cantante dichiarerà mai che votava comunista perché Togliatti «era una brava persona». Fu in effetti personaggio assai più rispettato e stimato che «amato» (se pure dopo l’attentato del luglio 1948 e nei funerali dell’agosto 1964 era emerso un profondo legame popolare nutrito anche di affetto). E certamente il mondo di Togliatti dopo mezzo secolo non esiste più, si è completamente dissolto in tutti i suoi presupposti, negli scenari nazionali e ancor più internazionali. Eppure mi sentirei di affermare che ci sono elementi di attualità maggiore nel lascito di Togliatti che in quello di Berlinguer (almeno così come viene vissuto e interpretato).
Se la «questione morale» di Berlinguer è ormai concetto largamente inservibile, esposto a tutti i moralismi e giustizialismi delle piazze, è soprattutto la «questione politica» che Togliatti ha lasciato in eredità ad assumere la dimensione di un enorme nodo irrisolto. Un grande partito di massa che rappresenti il mondo del lavoro, autonomo da poteri forti, gruppi di pressione e mosche cocchiere, incanalato in una democrazia parlamentare non eversiva dell’esistente e mediata da una Costituzione programmatica, un partito in grado di costruire con tenacia rapporti di forza più favorevoli ai lavoratori, e che si fondi su una autentica partecipazione popolare e non su ristrette élites di intellettuali o piccole sette depositarie di dottrine immutabili.
Questo è mancato drammaticamente nel quarto di secolo che ci separa dall’eutanasia della creatura politica ideata da Togliatti, e attorno a questa assenza si consuma il vuoto, muto nella sostanza, chiassoso nelle forme, della politica italiana.
Togliatti e l’ospite inatteso della democrazia progressiva
Anniversari. Una delle costanti nell’elaborazione di Togliatti è stata la presenza delle «masse popolari» nella scena pubblica
Fulvio Lorefice e Tommaso Nencioni,
«Sono vent’anni che si combatte, in Italia. Vent’anni che due forze avverse, l’una di progresso e rivoluzione, l’altra di conservazione e reazione, si affrontano e misurano». Così iniziava Palmiro Togliatti uno dei suoi più celebri scritti, l’editoriale per la nuova serie di Rinascita, inaugurata nel ’62. Dall’avvio della Resistenza, su su fino all’alba del centro-sinistra, era in corso di svolgimento un conflitto dalle radici antiche. L’allora segretario comunista, di cui oggi cade il cinquantesimo anniversario della scomparsa, individuava tuttavia un dato di profonda cesura rispetto alla tradizione della lotta politica italiana. Se nel 1848, poi sul finire del secolo XIX, e più ancora nel primo dopoguerra con l’avvento del fascismo, le forze «di conservazione» avevano potuto distorcere il pieno dispiegarsi del conflitto in base a soluzioni scopertamente reazionarie, a partire dalla guerra di Liberazione non era stato più possibile, per le classi dirigenti tradizionali, ricorrere a simili ricette. Cosa era accaduto? Era intervenuto – proseguiva lo scritto – «un fatto che non può più e non potrà mai essere cancellato». E cioè che «le classi popolari sono diventate, in un momento decisivo della storia nazionale e della vita dello Stato italiano, protagoniste di questa vita e di questa storia».
La potenza dell’affresco tratteggiato da Togliatti in quell’ormai lontano editoriale può ancor meglio esser compresa, per così dire, post res perditas. Il legame tra irruzione delle masse popolari nella vita e nella storia dello Stato e progresso dell’intera nazione ci appare del tutto evidente oggi: con quelle stesse masse popolari espulse dallo scenario politico, ridotto a gioco a somma zero tutto all’interno dei gruppi dirigenti, progetti di riduzione degli spazi democratici e di parallela riduzione delle conquiste dei ceti subalterni hanno proceduto di pari passo, più o meno indisturbati. Rappresenta dunque un esercizio ricostituente, a distanza di più di cinquant’anni, rileggere le parole di Togliatti. Viviamo una fase in cui si è pensato di poter sopperire con l’happening domenicale delle primarie allo sfarinamento di un intero «blocco storico»; di poter fare invertire la rotta a coalizioni politiche caratterizzate da un ben determinato imprinting sociale con un po’ di «narrazione»; di poter far «cambiare di segno» alle politiche restrittive varate dalla trojka con elucubrazioni vagamente keynesiane – sarebbe come chiedere la Repubblica a Luigi XVI, è la battuta che circola tra gli economisti eterodossi più avveduti. Ma si è perso completamente di vista il dato centrale ben presente a Togliatti, quello dell’essenzialità della pressione dal basso da parte delle classi subalterne in vista della conquista e della stabilizzazione di nuovi spazi di democrazia e di avanzamento sociale. Una pressione, giova sottolineare, che veniva a dispiegarsi sulla scorta di un’analisi concreta della struttura della società, nelle sue diverse articolazioni economico-ideali, e di un preciso disegno politico progressivo. Il rigoroso esame dei rapporti di forza politico-sociali, che traluceva dalla dinamica storica della lotta di classe, ne era quindi il necessario complemento.
Alla leggerezza del carattere nazionale, da cui conseguiva la faciloneria e il dilettantismo che riducevano la politica a «momento passionale» e «meschina mostra di abilità», Togliatti oppose un approccio scientifico e quindi pedagogico che davvero poco spazio lasciava al fideismo odierno per il leader. La conoscenza, nel suo essere strumento di consapevolezza e coscienza critica della realtà, era emancipazione. L’erudizione stessa di cui spesso dava sfoggio risuonava a rivendicazione della possibilità, per il movimento operaio, di impossessarsi della parte migliore del patrimonio culturale nazionale. Attraverso questa capillare opera di acculturazione, i ceti subalterni si preparavano a diventare «classe dirigente». La politica, intesa come studio, lavoro, lotta, ed anche sacrificio, andava quindi a collocarsi al vertice delle attività umane.
Uno dei peculiari contributi creativi di Togliatti risiede proprio nel principio — oggi disapplicato — della politica come scienza. Un principio che il marxismo aveva contribuito a fondare, e del quale oggi la sinistra, in preda agli irrazionalismi del primitivismo politico, sembra avere ancor più bisogno. Della feconda eredità politica ed intellettuale di Togliatti parrebbe oggi persa ogni traccia, benché sia stato uno degli statisti che più a fondo, con maggiore audacia, e maggiore lungimiranza, hanno interpretato le aspirazioni di emancipazione e progresso dei ceti subalterni italiani.
Anniversari. La decisione del segretario del Pci di difendere il dirigente comunista in carcere, forzandone talvolta le posizioni, nasceva dalla convinzione di essere in presenza di una delle figure più rilevanti del marxismo novecentesco
Guido Liguori,
Il 19 giugno 1964, due mesi prima della morte, Togliatti pubblicava sul quotidiano di area comunista Paese sera l’ultimo capitolo del libro che per quasi quarant’anni egli era andato scrivendo su Antonio Gramsci. Si trattava della recensione a un’antologia di articoli e lettere del comunista sardo in cui, tra l’altro, Togliatti scriveva: «Forse dipende dal tempo che è passato, che ha gettato ombre e luci nuove su tanti avvenimenti… Non so se sia per questo motivo. Certo è che oggi, quando ho percorso via via le pagine di questa antologia, attraversate da tanti motivi diversi, che si intrecciano e talora si confondono, ma non si perdono mai, – la persona di Antonio Gramsci mi è parso debba collocarsi essa stessa in una luce più viva, che trascende la vicenda storica del nostro partito». Era, a ben vedere, la previsione di un fenomeno che avrebbe avuto inizio solo un ventennio più tardi, negli anni Ottanta, quando – mentre alcune componenti del Partito comunista italiano sembravano dimenticare Gramsci in favore di paradigmi culturali diversi e alternativi, incamminandosi lungo i sentieri che avrebbero condotto alla Bolognina – la fortuna dell’autore dei Quaderni iniziava una fase di espansione nei paesi anglofoni come in America latina, divenendo un punto di riferimento del pensiero politico e sociale contemporaneo, ben al di là del riferimento pur decisivo che aveva costituito per il Pci, soprattutto grazie a Togliatti.
In altre parole, già nel 1964 il segretario comunista affermava che Gramsci gli appariva talmente grande da essere destinato a proiettare la propria influenza anche molto oltre le dimensioni pure considerevoli che aveva assunto in relazione alla cultura politica dei comunisti italiani, soprattutto a partire dalla costruzione del «partito nuovo» e dal tentativo di una «avanzata nella democrazia verso il socialismo» intrapreso da Togliatti stesso al suo ritorno in Italia nel 1944. Tentativo che era poi la traduzione della gramsciana «guerra di posizione» in una situazione politica per tanti versi inimmaginabile pochi anni prima, specie in seguito alla divisione del mondo in due «campi» ben delimitati e a cui era difficilissimo sottrarsi.
Un dialogo che non si spezza
I forti contrasti tra Gramsci e Togliatti nel 1926 in merito alle lotte interne al partito bolscevico sono ampiamente noti. Ciò che spesso non si dice però è che mai dall’esilio Togliatti cessa, con l’ausilio di Piero Sraffa e di Tania Schucht, di cercare di dialogare col prigioniero, un dialogo che Gramsci, anche se indirettamente, accetta: egli riflette e scrive per il suo partito, per la sua parte politica, non diviene in carcere un liberaldemocratico, men che meno si considera, come pure è stato detto, un «professore», un intellettuale solo occasionalmente prestato alla politica e presto da essa ritrattosi. La stagione dei fronti popolari antifascisti che si apre nel 1934–1935, e che ha in Togliatti uno dei principali protagonisti, non è certo dettata dalla riflessione carceraria gramsciana, ma segna un oggettivo riavvicinamento con il prigioniero rispetto alla precedente politica dell’Internazionale comunista, alla strategia della contrapposizione frontale «classe contro classe» e alla conseguente politica del «socialfascismo», per la quale, assurdamente, tra socialisti e fascisti non vi sarebbe stata differenza. Togliatti matura allora, negli anni Trenta, anche sulla spinta dell’avanzata del nazifascismo, la convinzione della importanza della democrazia, sia pure popolare, non elitaria, nutrita di diritti non solo politici e civili, insomma «progressiva».
Una scelta chiara
Certo, il libro che Togliatti ha scritto su Gramsci non è univoco, è scandito dal prevalere in fasi diverse di accenti diversi, e le letture togliattiane vanno contestualizzate, poiché sono in parte condizionate dal primato della politica. Occorre separarvi ciò che non regge alla verifica del tempo dalle indicazioni, non poche, ancora fondamentali. E qualche raro passaggio appare oggi persino esecrabile. Ma l’interpretazione e l’uso che Togliatti ha fatto di Gramsci sono stati importanti per costruire quel partito che Gramsci aveva rifondato dopo la prima fase bordighista, e anche per far conoscere al mondo l’autore dei Quaderni.
La politica di Gramsci
Una volta tornato in Italia, Togliatti poggiava su Gramsci la costruzione del suo partito. Ne forzava in alcuni punti il pensiero, facendo della sua stessa politica la «politica di Gramsci», ma per un fine – trasformare il Pci in un grande partito e farne una cosa diversa dal modello sovietico – che certo non sarebbe stato sgradito al comunista sardo. Togliatti vaccinava il suo partito dalla più nefasta ortodossia stalinista, rafforzando la peculiare tradizione comunista nazionale, che aveva nella coniugazione di democrazia e socialismo il suo marchio di fabbrica. Gramsci e Togliatti non sono sovrapponibili, certo, come non sono sovrapponibili Togliatti e Berlinguer: sono leader politici che vivono e pensano in tempi diversi, usufruendo però di un comune nutrimento teorico-politico e cercando di svilupparlo in relazione a una vicenda storica in continua evoluzione. Negli anni del dopoguerra aveva largamente corso l’idea non del tutto esatta di un Gramsci «grande intellettuale nazionale», ma se si leggono oggi gli scritti togliattiani ci si rende conto che le indicazioni in essi contenute sono ancora preziose per capire Gramsci, la sua vicenda, il suo pensiero.
Dopo il 1956 ha inizio una delle stagioni più ricche della elaborazione di Togliatti, l’ultima, anche per quel che riguarda Gramsci. Egli poneva nel 1956–1958 il tema di Gramsci e il leninismo per prendere le distanze dallo stalinismo senza far perdere al suo partito l’orizzonte rivoluzionario. Nel momento in cui tante certezze erano venute meno, Togliatti mostrava come la strada indicata da Gramsci fosse soprattutto quella di tradurre (un lemma fondamentale nel lessico gramsciano) il leninismo in un linguaggio adatto a una situazione così diversa rispetto a quella in cui aveva avuto luogo la Rivoluzione d’ottobre. Era stata, quella della necessità del passaggio da «Oriente» a «Occidente», del resto, una indicazione dello stesso Lenin, che Gramsci aveva ripreso e sviluppato. Grazie a Gramsci dunque si poteva andare avanti in quella direzione. Preziosa era inoltre, sempre nel 1958, l’indicazione togliattiana, oggi più che mai ritenuta valida, secondo cui l’elaborazione di Gramsci può essere davvero compresa solo se connessa alla sua biografia politica. Veniva presa allora anche la decisione di procedere a una edizione critica dei Quaderni, a cui iniziava a lavorare Valentino Gerratana. Era tracciata la via lungo la quale Gramsci sarebbe divenuto il saggista italiano più conosciuto nel mondo dai tempi di Machiavelli.
E Togliatti scrisse: in De Gasperi «qualcosa di torbido e ottuso»
Carioti Martedì 2 Settembre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
A cinquant’anni dalla scomparsa di Palmiro Togliatti (nella foto) e a sessanta da quella di Alcide De Gasperi, morti entrambi nella seconda metà di agosto (nel 1964 il primo, nel 1954 il secondo), la doppia ricorrenza ha indotto qualcuno a chiedersi se il leader comunista e quello democristiano potessero essere «ricordati insieme». L’esponente cattolico del Partito democratico Giuseppe Fioroni ha inoltre proposto di dedicare a De Gasperi la Festa dell’«Unità» organizzata dal Pd, quasi in segno di riconciliazione postuma. Ma l’ipotesi non ha avuto seguito.
Meglio così, sembra di poter aggiungere ora, considerando i giudizi veramente pesanti e malevoli sul conto dello statista trentino contenuti in una lettera inedita di Togliatti che sta per essere pubblicata dalla rivista «Critica Marxista», diretta da Aldo Tortorella e Aldo Zanardo, nel numero che sarà in vendita online da domani sul sito dell’editore Dedalo di Bari (www.edizionidedalo.it) e uscirà in libreria verso la metà di questo mese.
Il documento viene dalle carte del comunista Fausto Gullo, ministro dell’Agricoltura e poi della Giustizia nei governi di unità antifascista dal 1944 al 1947, il cui archivio privato è depositato presso l’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Togliatti gli scrisse da Champoluc, in Val d’Aosta, dove si trovava in ferie, il 25 agosto del 1954. Siamo all’indomani della morte di De Gasperi, che si era spento in Trentino il 19 agosto. Togliatti aveva rilasciato una dichiarazione nella quale aveva sottolineato l’errore compiuto a suo avviso dal leader democristiano nel rompere l’unità antifascista, ma non era andato oltre. E Gullo gli aveva scritto per manifestargli il suo apprezzamento.
Nella risposta al compagno calabrese però Togliatti afferma di essersi un po’ pentito di quelle parole troppo morbide: «Se avessi avuto aggio di correggere — scrive —, avrei calcato un po’ più la mano sui momenti negativi». Ricorda «le dichiarazioni, volgari, vergognose, fatte da De Gasperi per la morte di Stalin» e confessa che è rimasto in lui «il dubbio di avere usato un tono troppo amichevole e generico». Anche per questo il consenso di Gullo, prosegue, gli ha dato «grande soddisfazione».
A questo punto però la lettera si fa particolarmente dura verso De Gasperi. In lui, dichiara Togliatti, «quello che mi ha sempre colpito è che l’asprezza e talora la violenza dell’attacco politico fossero legate non solo al sacrificio del comune senso di umanità, ma soprattutto al sacrificio dell’intelligenza, della luce intellettuale, vorrei dire». Le polemiche dello statista trentino, continua il segretario comunista, «avevano sempre qualcosa di torbido e di ottuso», sembravano mosse «non da una passione grande, ma da una cattiva piccineria».
Togliatti aveva manifestato la sua volontà di tenere le distanze da De Gasperi anche in una lettera del 20 agosto 1954 al parlamentare comunista Edoardo D’Onofrio (ora riprodotta nell’epistolario togliattiano La guerra di posizione in Italia , edito mesi fa da Einaudi a cura di Maria Luisa Righi e Gianluca Fiocco), nella quale spiegava di non volersi recare ai funerali del leader democristiano perché ciò gli sarebbe parso ipocrita.
Nella missiva a Gullo però si va oltre. E colpiscono anche le considerazioni finali sulla religiosità di De Gasperi espresse qui da Togliatti, in pubblico sempre rispettoso verso la fede cattolica professata anche da molti iscritti al suo partito. Il comportamento dello statista democristiano, scrive a Gullo, alimenta in lui la «convinzione che sia la religione che renda gli uomini cattivi, perché li spinge a giudizi e condanne assoluti, privi di comprensione per la coscienza e la causa degli altri». Poi Togliatti dà l’impressione di voler attenuare la gravità del giudizio: «Forse è la religione nel modo che De Gasperi la intendeva». Per quanto ateo, alla religione Togliatti era disposto a concedere qualcosa. A De Gasperi no
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