martedì 2 settembre 2014

L'anniversario di Palmiro Togliatti

Togliatti, un erudito della politica
Anniversari. L’eredità irrisolta, a cinquanni dalla sua morte, di una leader comunista che ha voluto costruire un partito popolare radicato nella realtà nazionale lontano dal modello sovietico. Alcune note a partire dalla pubblicazione per i tipi Einaudi di «Guerra di posizione», l’epistolario del dirigente del Pci
Gianpasquale Santomassimo, 21.8.2014 il Manifesto

«Un’altra cosa che vor­rei dire, e soprat­tutto ai nostri com­pa­gni che hanno già una certa pre­pa­ra­zione, è che lo stu­dio per loro non può con­si­stere e non deve con­si­stere nel met­tere fati­co­sa­mente assieme idee gene­rali in forma più o meno pole­mica. Que­sto sforzo non porta di solito a fare niente di serio, e anch’esso non è stu­dio, quando man­chi la ricerca attenta, paziente, larga, dei mate­riali di fatto, quando man­chi l’esame cri­tico di que­sti».
C’è anche que­sto (tra con­si­gli su come leg­gere e stu­diare, in una let­tera a «una cel­lula dell’apparato» pub­bli­cata su Vie nuove del marzo 1949) nella rac­colta recen­te­mente pub­bli­cata (Pal­miro Togliatti, La guerra di posi­zione in Ita­lia. Epi­sto­la­rio 1944–1964, a cura di Gian­luca Fiocco e Maria Luisa Righi, Pre­fa­zione di Giu­seppe Vacca, Einaudi, pp. 372, euro 24), sele­zione ine­vi­ta­bil­mente e con­sa­pe­vol­mente «arbi­tra­ria» di un epi­sto­la­rio vastis­simo, parte di un Fondo che attende una piena valo­riz­za­zione.
Il titolo discu­ti­bile, gram­sciano, richiama un’atmosfera suc­ces­siva al fal­li­mento della rivo­lu­zione comu­ni­sta in Europa, quella «guerra di posi­zione» vis­suta da Gram­sci e Togliatti anche come occa­sione per ripen­sare i ter­mini della scon­fitta e per impe­dirne il ripe­tersi. E nella prima inter­vi­sta a un inviato spe­ciale della Reu­ters nell’aprile 1944, con la quale si apre il volume, Togliatti riba­diva: «Nei primi anni della sua esi­stenza il Par­tito comu­ni­sta ita­liano com­mise gravi errori di set­ta­ri­smo, non seppe fare una poli­tica di unità del popolo per la difesa delle libertà demo­cra­ti­che con­tro il fasci­smo. Di que­sti errori trasse pro­fitto la rea­zione e noi oggi ci guar­de­remo bene dal ripe­terli».
Ma il «ven­ten­nio togliat­tiano» (1944–1964), in cui Togliatti eser­cita il ruolo di costrut­tore e capo di un grande par­tito comu­ni­sta di massa, appar­tiene ad epoca diversa, in cui guerra di trin­cea e di movi­mento si intrec­ciano in forme ormai lon­tane dalla fase «bol­sce­vica». Le let­tere ci resti­tui­scono, come ha notato Mario Tronti su «l’Unità» del 7 luglio, «un Togliatti molto gram­sciano, ma che non smette mai, nem­meno per un momento, di essere togliat­tiano». Dove men­ta­lità togliat­tiana signi­fica indub­bia­mente rea­li­smo, valu­ta­zione attenta e costante dei rap­porti di forza, non per cri­stal­liz­zarli ma per modi­fi­carli a van­tag­gio di un fronte ampio di alleanze da costruire, rivol­gen­dosi a tutti gli inter­lo­cu­tori pos­si­bili. L’elenco dei cor­ri­spon­denti rispec­chia l’ampiezza di que­sta pro­pen­sione al dia­logo e alla ricerca di un ter­reno d’incontro mai subal­terno (da Pie­tro Bado­glio a Bene­detto Croce, da Alcide De Gasperi a Romano Bilen­chi, da Pie­tro Nenni a Vit­to­rio Val­letta e alla fami­glia Oli­vetti, da Sta­lin a Giu­seppe Dos­setti).
Il ruolo attri­buito alla cul­tura, da costruire quasi da zero — più che recinto da «ege­mo­niz­zare» — per chi veniva dalla distru­zione ope­rata dal fasci­smo è uno dei temi fon­da­men­tali del volume, una «bat­ta­glia delle idee» seguita con cura anche nel det­ta­glio, quasi mania­cale, senza impar­tire in genere «diret­tive», anzi rifiu­tando diri­gi­smi con­fusi e capo­ra­le­schi sul ter­reno della ricerca sto­rica (la vicenda già nota della difesa di Gastone Mana­corda dalla pre­tesa di «det­tare la linea» da parte di espo­nenti dell’apparato).
Quello che pro­ba­bil­mente col­pi­sce di più il let­tore odierno è lo sfog­gio – inne­ga­bil­mente com­pia­ciuto – di eru­di­zione, che si esplica ad esem­pio nelle pole­mi­che con Vit­to­rio Gor­re­sio attorno a un sonetto di Guido Caval­canti e alla sua esatta gra­fia: dove c’è sicu­ra­mente la volontà di dimo­strare che i comu­ni­sti non erano i sel­vaggi dipinti dalla pro­pa­ganda avver­sa­ria, ma non c’è in alcuna forma la volontà di venire ammessi nei «salotti buoni» della bor­ghe­sia, che tra­vol­gerà lon­tani eredi di quella tra­di­zione in anni futuri. C’è ancora la volontà di costruire un cir­cuito cul­tu­rale auto­nomo e paral­lelo, che riprende ispi­ra­zioni dell’«universo socia­li­sta» a cavallo fra i due secoli, ma senza sem­pli­fi­ca­zioni gros­so­lane e inte­ra­gendo senza rigide sepa­ra­zioni con la cul­tura nazio­nale. C’è anche la con­vin­zione che il movi­mento ope­raio debba essere, clas­si­ca­mente, «erede» dei punti più alti della cul­tura bor­ghese (le famose ban­diere lasciate cadere nella pol­vere e che vanno risol­le­vate) e che il supe­ra­mento possa avve­nire solo attra­verso assun­zione piena delle istanze più alte della tra­di­zione che si avversa.
La sco­perta dell’illuminismo
Ma pro­ba­bil­mente c’è qual­cosa di più, che attiene alla dimen­sione stret­ta­mente per­so­nale di un uomo com­bat­tuto in gio­ventù tra voca­zioni che appar­vero alter­na­tive, tra la dimen­sione di stu­dioso e quella di poli­tico, e dove la scelta esi­sten­ziale, com­piuta infine, non si tra­dusse nel senso un po’ arido che Croce dava al ter­mine di totu­spo­li­ti­cus (coniato appunto in una let­tera a Togliatti) ma in una con­ce­zione della poli­tica che pur auto­noma e con le sue regole era ine­stri­ca­bil­mente con­nessa alla cul­tura. Quest’ultima col­ti­vata in forma auto­noma, e che si era arric­chita nel tempo di dimen­sioni in pre­ce­denza igno­rate: si pensi al rap­porto con l’illuminismo, com­ple­ta­mente estra­neo alla for­ma­zione gio­va­nile tori­nese e ordi­no­vi­sta. Quel Togliatti che nelle memo­rie di Giu­lio Cer­reti tro­viamo intento nei lun­ghi sog­giorni pari­gini nella ricerca dei clas­sici set­te­cen­te­schi presso le libre­rie anti­qua­rie è lo stesso che tra­durrà il Trat­tato della tol­le­ranza di Vol­taire (in pole­mica con le ten­ta­zioni «cle­ri­co­fa­sci­ste» della nuova Ita­lia) e che qui vediamo impe­gnato in discus­sioni su Pie­tro Gian­none e sulla civiltà giu­ri­dica dell’illuminismo ita­liano.
Ma a dif­fe­renza che nella cul­tura azio­ni­sta, l’unica che in que­gli anni risco­pre in Ita­lia l’illuminismo, que­sta acqui­si­zione non si tra­duce in una ripresa del vec­chio anti­cle­ri­ca­li­smo, ma anzi in una atten­zione più assi­dua al dia­logo con le istanze pro­fonde della sen­si­bi­lità reli­giosa. In forma dif­fe­ren­ziata: sprez­zante nei con­fronti di De Gasperi, affet­tuoso nei con­fronti di Don Giu­seppe De Luca («lei è per me tra i pochi che, vivendo, della mia vita stati un po’ la com­pa­gnia e un po’ la fie­rezza» gli scrive il prete lucano in punto di morte, nel gen­naio 1962). E in una let­tera alla sorella di De Luca, a un anno dalla scom­parsa, nel feb­braio 1963, Togliatti chia­riva i ter­mini di que­sto rap­porto: «La sua mente e la sua ricerca mi pare fos­sero volte, nel con­tatto con me, a sco­prire qual­cosa che fosse più pro­fondo delle ideo­lo­gie, più valido dei sistemi di dot­trina, in cui potes­simo essere, anzi, già fos­simo uniti. Cer­cava e met­teva in luce la sostanza della nostra comune umanità».
 
Il rigore parlamentare
L’ampiezza degli inte­ressi cul­tu­rali (unita a gusti in verità retro­gradi tanto in let­te­ra­tura quanto in pit­tura e musica) non lo spinge a dive­nire quello che oggi si defi­ni­rebbe un «tut­to­logo», e que­sta con­sa­pe­vo­lezza del limite si riflette anche nel suo stile di dire­zione: «Voi mi con­si­de­rate come que­gli appa­rec­chi auto­ma­tici che ti ser­vono a tua scelta, solo che toc­chi un bot­tone, un pollo arro­sto, o un bic­chiere di birra o una cara­mella al miele» pro­te­sta scri­vendo alla Fede­ra­zione di Bolo­gna nel marzo 1961. Stile che emerge anche nel rifiuto degli usi «sovie­tici» che i diri­genti del par­tito vor­reb­bero impor­gli per cele­brare la sua per­so­na­lità, chie­den­do­gli di posare per un busto: «Que­sto si fa, da noi, ai morti ed è una cosa ridi­cola. Il mio busto, per ora, sono io. Non andrò quindi dalla Mafai a posare e se ci vado, (vado) con un bastone per distrug­gere il già fatto». E non sapremo mai, in verità, fino a che punto cre­desse alle difese argo­men­tate dell’esperienza sovie­tica in cui si pro­du­ceva, avendo però fin dal ritorno in Ita­lia chia­rito che quel modello non era impor­ta­bile né da imi­tare in forma inge­nua e ripe­ti­tiva.
Molto signi­fi­ca­tivo è anche quel che emerge sulla con­ce­zione della demo­cra­zia par­la­men­tare, che fu uno dei car­dini su cui il Pci di Togliatti venne costruito. In un momento in cui i lea­ders poli­tici si espri­mono in par­la­mento come se si tro­vas­sero alla Sagra della Fet­tunta di Rignano, è istrut­tivo lo scam­bio di let­tere del mag­gio 1964 con Pie­tro Nenni a pro­po­sito della deca­denza della prassi par­la­men­tare. Lo sca­di­mento dello stile di lavoro dei par­la­men­tari si regi­stra nella «deca­denza del dibat­tito e quindi anche dell’istituto par­la­men­tare. Que­sti discorsi ad aula vuota, nell’assenza totale o quasi dei par­titi gover­na­tivi e dei diri­genti del governo, e i voti che inter­ven­gono poi, a cor­ri­doi affol­lati, su posi­zioni ela­bo­rate in altra sede, sono un fatto assai grave». Già in una let­tera a Gio­vanni Leone (pre­si­dente della Camera) del 23 luglio 1958 aveva con­di­viso il per­so­nale rifiuto, a norma di rego­la­mento, dei testi «scritti» in pre­ce­denza e non svi­lup­pati al cospetto dei depu­tati, avver­tendo però che rispetto all’antica tra­di­zione par­la­men­tare il discorso poli­tico, nell’epoca dei grandi par­titi popo­lari, non poteva che assu­mere ormai «aspetti ben diversi dalla sem­plice dotta con­ver­sa­zione», soprat­tutto per chi rap­pre­sen­tava classi popo­lari e non pro­ve­niva dalle «classi colte, avvo­cati, docenti uni­ver­si­tari, ecc.» e che per­tanto nella ste­sura scritta tro­vava «asso­luta neces­sità». Tempi molto lon­tani da noi, come si vede. E lo si com­prende ancor meglio dalla chiusa della let­tera, con il rin­gra­zia­mento a Leone per l’aiuto finan­zia­rio a lui con­cesso dalla Camera per motivi di salute: «pur­troppo si riscon­tra con troppa evi­denza, in caso di infer­mità, quanto grande sia il diva­rio tra la retri­bu­zione che giu­sta­mente richiede un libero pro­fes­sio­ni­sta, anche mode­sto, e quella cui dà diritto l’attività par­la­men­tare». Non c’era una «casta», anche se l’antiparlamentarismo non man­cava di certo negli umori ata­vici dell’ideologia ita­liana.
Il cin­quan­te­simo anni­ver­sa­rio della scom­parsa di Togliatti e il tren­te­simo di Ber­lin­guer si sono intrec­ciati. Sono figure che non vanno con­trap­po­ste, e Ber­lin­guer fino alla fine degli anni Set­tanta si mosse in una linea di evi­dente con­ti­nuità con alcuni capi­saldi dell’ispirazione togliat­tiana, per poi intra­pren­dere nell’ultima e breve fase della sua vita una ricerca bru­sca­mente inter­rotta di cui nes­suno può ipo­tiz­zare com­piu­ta­mente gli esiti pos­si­bili. Sono stati anni­ver­sari che hanno evi­den­ziato il sedi­men­tarsi di «for­tune» molto diverse, e quasi di mito­lo­gie dif­fe­ren­ziate, sostan­ziate spesso di empa­tia con­fusa in un caso, di fredda dif­fi­denza (se non dam­na­tio memo­riae) nell’altro.
 
La «que­stione nazionale»
Pro­ba­bil­mente nes­sun can­tante dichia­rerà mai che votava comu­ni­sta per­ché Togliatti «era una brava per­sona». Fu in effetti per­so­nag­gio assai più rispet­tato e sti­mato che «amato» (se pure dopo l’attentato del luglio 1948 e nei fune­rali dell’agosto 1964 era emerso un pro­fondo legame popo­lare nutrito anche di affetto). E cer­ta­mente il mondo di Togliatti dopo mezzo secolo non esi­ste più, si è com­ple­ta­mente dis­solto in tutti i suoi pre­sup­po­sti, negli sce­nari nazio­nali e ancor più inter­na­zio­nali. Eppure mi sen­ti­rei di affer­mare che ci sono ele­menti di attua­lità mag­giore nel lascito di Togliatti che in quello di Ber­lin­guer (almeno così come viene vis­suto e inter­pre­tato).
Se la «que­stione morale» di Ber­lin­guer è ormai con­cetto lar­ga­mente inser­vi­bile, espo­sto a tutti i mora­li­smi e giu­sti­zia­li­smi delle piazze, è soprat­tutto la «que­stione poli­tica» che Togliatti ha lasciato in ere­dità ad assu­mere la dimen­sione di un enorme nodo irri­solto. Un grande par­tito di massa che rap­pre­senti il mondo del lavoro, auto­nomo da poteri forti, gruppi di pres­sione e mosche coc­chiere, inca­na­lato in una demo­cra­zia par­la­men­tare non ever­siva dell’esistente e mediata da una Costi­tu­zione pro­gram­ma­tica, un par­tito in grado di costruire con tena­cia rap­porti di forza più favo­re­voli ai lavo­ra­tori, e che si fondi su una auten­tica par­te­ci­pa­zione popo­lare e non su ristrette éli­tes di intel­let­tuali o pic­cole sette depo­si­ta­rie di dot­trine immu­ta­bili.
Que­sto è man­cato dram­ma­ti­ca­mente nel quarto di secolo che ci separa dall’eutanasia della crea­tura poli­tica ideata da Togliatti, e attorno a que­sta assenza si con­suma il vuoto, muto nella sostanza, chias­soso nelle forme, della poli­tica italiana.


Togliatti e l’ospite inatteso della democrazia progressiva
Anniversari. Una delle costanti nell’elaborazione di Togliatti è stata la presenza delle «masse popolari» nella scena pubblica



«Sono vent’anni che si com­batte, in Ita­lia. Vent’anni che due forze avverse, l’una di pro­gresso e rivo­lu­zione, l’altra di con­ser­va­zione e rea­zione, si affron­tano e misu­rano». Così ini­ziava Pal­miro Togliatti uno dei suoi più cele­bri scritti, l’editoriale per la nuova serie di Rina­scita, inau­gu­rata nel ’62. Dall’avvio della Resi­stenza, su su fino all’alba del centro-sinistra, era in corso di svol­gi­mento un con­flitto dalle radici anti­che. L’allora segre­ta­rio comu­ni­sta, di cui oggi cade il cin­quan­te­simo anni­ver­sa­rio della scom­parsa, indi­vi­duava tut­ta­via un dato di pro­fonda cesura rispetto alla tra­di­zione della lotta poli­tica ita­liana. Se nel 1848, poi sul finire del secolo XIX, e più ancora nel primo dopo­guerra con l’avvento del fasci­smo, le forze «di con­ser­va­zione» ave­vano potuto distor­cere il pieno dispie­garsi del con­flitto in base a solu­zioni sco­per­ta­mente rea­zio­na­rie, a par­tire dalla guerra di Libe­ra­zione non era stato più pos­si­bile, per le classi diri­genti tra­di­zio­nali, ricor­rere a simili ricette. Cosa era acca­duto? Era inter­ve­nuto – pro­se­guiva lo scritto – «un fatto che non può più e non potrà mai essere can­cel­lato». E cioè che «le classi popo­lari sono diven­tate, in un momento deci­sivo della sto­ria nazio­nale e della vita dello Stato ita­liano, pro­ta­go­ni­ste di que­sta vita e di que­sta sto­ria».
Con la Resi­stenza, insomma, i ceti subal­terni ave­vano fatto irru­zione per la prima volta nella sto­ria del Paese da pro­ta­go­ni­sti. E i par­titi di massa, in spe­cial modo quelli del movi­mento ope­raio, ave­vano poi fatto sì che que­sta irru­zione avve­nisse «dal basso», e costi­tuisse la linfa per l’edificazione di un sistema demo­cra­tico plu­ra­li­sta. L’esatto con­tra­rio di quanto era avve­nuto col fasci­smo, che aveva pie­gato la «mas­si­fi­ca­zione» alle esi­genze di edi­fi­ca­zione di un pro­getto pas­sivo, ver­ti­ci­stico e tota­li­ta­rio.
La potenza dell’affresco trat­teg­giato da Togliatti in quell’ormai lon­tano edi­to­riale può ancor meglio esser com­presa, per così dire, post res per­di­tas. Il legame tra irru­zione delle masse popo­lari nella vita e nella sto­ria dello Stato e pro­gresso dell’intera nazione ci appare del tutto evi­dente oggi: con quelle stesse masse popo­lari espulse dallo sce­na­rio poli­tico, ridotto a gioco a somma zero tutto all’interno dei gruppi diri­genti, pro­getti di ridu­zione degli spazi demo­cra­tici e di paral­lela ridu­zione delle con­qui­ste dei ceti subal­terni hanno pro­ce­duto di pari passo, più o meno indi­stur­bati. Rap­pre­senta dun­que un eser­ci­zio rico­sti­tuente, a distanza di più di cinquant’anni, rileg­gere le parole di Togliatti. Viviamo una fase in cui si è pen­sato di poter sop­pe­rire con l’hap­pe­ning dome­ni­cale delle pri­ma­rie allo sfa­ri­na­mento di un intero «blocco sto­rico»; di poter fare inver­tire la rotta a coa­li­zioni poli­ti­che carat­te­riz­zate da un ben deter­mi­nato imprin­ting sociale con un po’ di «nar­ra­zione»; di poter far «cam­biare di segno» alle poli­ti­che restrit­tive varate dalla tro­jka con elu­cu­bra­zioni vaga­mente key­ne­siane – sarebbe come chie­dere la Repub­blica a Luigi XVI, è la bat­tuta che cir­cola tra gli eco­no­mi­sti ete­ro­dossi più avve­duti. Ma si è perso com­ple­ta­mente di vista il dato cen­trale ben pre­sente a Togliatti, quello dell’essenzialità della pres­sione dal basso da parte delle classi subal­terne in vista della con­qui­sta e della sta­bi­liz­za­zione di nuovi spazi di demo­cra­zia e di avan­za­mento sociale. Una pres­sione, giova sot­to­li­neare, che veniva a dispie­garsi sulla scorta di un’analisi con­creta della strut­tura della società, nelle sue diverse arti­co­la­zioni economico-ideali, e di un pre­ciso dise­gno poli­tico pro­gres­sivo. Il rigo­roso esame dei rap­porti di forza politico-sociali, che tra­lu­ceva dalla dina­mica sto­rica della lotta di classe, ne era quindi il neces­sa­rio com­ple­mento.
Alla leg­ge­rezza del carat­tere nazio­nale, da cui con­se­guiva la faci­lo­ne­ria e il dilet­tan­ti­smo che ridu­ce­vano la poli­tica a «momento pas­sio­nale» e «meschina mostra di abi­lità», Togliatti oppose un approc­cio scien­ti­fico e quindi peda­go­gico che dav­vero poco spa­zio lasciava al fidei­smo odierno per il lea­der. La cono­scenza, nel suo essere stru­mento di con­sa­pe­vo­lezza e coscienza cri­tica della realtà, era eman­ci­pa­zione. L’erudizione stessa di cui spesso dava sfog­gio risuo­nava a riven­di­ca­zione della pos­si­bi­lità, per il movi­mento ope­raio, di impos­ses­sarsi della parte migliore del patri­mo­nio cul­tu­rale nazio­nale. Attra­verso que­sta capil­lare opera di accul­tu­ra­zione, i ceti subal­terni si pre­pa­ra­vano a diven­tare «classe diri­gente». La poli­tica, intesa come stu­dio, lavoro, lotta, ed anche sacri­fi­cio, andava quindi a col­lo­carsi al ver­tice delle atti­vità umane.
Uno dei pecu­liari con­tri­buti crea­tivi di Togliatti risiede pro­prio nel prin­ci­pio — oggi disap­pli­cato — della poli­tica come scienza. Un prin­ci­pio che il mar­xi­smo aveva con­tri­buito a fon­dare, e del quale oggi la sini­stra, in preda agli irra­zio­na­li­smi del pri­mi­ti­vi­smo poli­tico, sem­bra avere ancor più biso­gno. Della feconda ere­dità poli­tica ed intel­let­tuale di Togliatti par­rebbe oggi persa ogni trac­cia, ben­ché sia stato uno degli sta­ti­sti che più a fondo, con mag­giore auda­cia, e mag­giore lun­gi­mi­ranza, hanno inter­pre­tato le aspi­ra­zioni di eman­ci­pa­zione e pro­gresso dei ceti subal­terni italiani.


Un partito nel nome di Gramsci
Anniversari. La decisione del segretario del Pci di difendere il dirigente comunista in carcere, forzandone talvolta le posizioni, nasceva dalla convinzione di essere in presenza di una delle figure più rilevanti del marxismo novecentesco


Il 19 giu­gno 1964, due mesi prima della morte, Togliatti pub­bli­cava sul quo­ti­diano di area comu­ni­sta Paese sera l’ultimo capi­tolo del libro che per quasi quarant’anni egli era andato scri­vendo su Anto­nio Gram­sci. Si trat­tava della recen­sione a un’antologia di arti­coli e let­tere del comu­ni­sta sardo in cui, tra l’altro, Togliatti scri­veva: «Forse dipende dal tempo che è pas­sato, che ha get­tato ombre e luci nuove su tanti avve­ni­menti… Non so se sia per que­sto motivo. Certo è che oggi, quando ho per­corso via via le pagine di que­sta anto­lo­gia, attra­ver­sate da tanti motivi diversi, che si intrec­ciano e talora si con­fon­dono, ma non si per­dono mai, – la per­sona di Anto­nio Gram­sci mi è parso debba col­lo­carsi essa stessa in una luce più viva, che tra­scende la vicenda sto­rica del nostro par­tito». Era, a ben vedere, la pre­vi­sione di un feno­meno che avrebbe avuto ini­zio solo un ven­ten­nio più tardi, negli anni Ottanta, quando – men­tre alcune com­po­nenti del Par­tito comu­ni­sta ita­liano sem­bra­vano dimen­ti­care Gram­sci in favore di para­digmi cul­tu­rali diversi e alter­na­tivi, incam­mi­nan­dosi lungo i sen­tieri che avreb­bero con­dotto alla Bolo­gnina – la for­tuna dell’autore dei Qua­derni ini­ziava una fase di espan­sione nei paesi anglo­foni come in Ame­rica latina, dive­nendo un punto di rife­ri­mento del pen­siero poli­tico e sociale con­tem­po­ra­neo, ben al di là del rife­ri­mento pur deci­sivo che aveva costi­tuito per il Pci, soprat­tutto gra­zie a Togliatti.
In altre parole, già nel 1964 il segre­ta­rio comu­ni­sta affer­mava che Gram­sci gli appa­riva tal­mente grande da essere desti­nato a pro­iet­tare la pro­pria influenza anche molto oltre le dimen­sioni pure con­si­de­re­voli che aveva assunto in rela­zione alla cul­tura poli­tica dei comu­ni­sti ita­liani, soprat­tutto a par­tire dalla costru­zione del «par­tito nuovo» e dal ten­ta­tivo di una «avan­zata nella demo­cra­zia verso il socia­li­smo» intra­preso da Togliatti stesso al suo ritorno in Ita­lia nel 1944. Ten­ta­tivo che era poi la tra­du­zione della gram­sciana «guerra di posi­zione» in una situa­zione poli­tica per tanti versi inim­ma­gi­na­bile pochi anni prima, spe­cie in seguito alla divi­sione del mondo in due «campi» ben deli­mi­tati e a cui era dif­fi­ci­lis­simo sottrarsi.

Un dia­logo che non si spezza
Il libro togliat­tiano su Gram­sci (di recente ristam­pato da Edi­tori Riu­niti uni­ver­sity press col titolo Scritti su Gram­sci), più in gene­rale la sto­ria di Togliatti cura­tore e orga­niz­za­tore della dif­fu­sione delle opere di Gram­sci, non­ché loro primo e più accre­di­tato inter­prete, dura quasi un qua­ran­ten­nio, essendo il primo scritto del 1927, occa­sio­nato del pro­cesso con il quale il fasci­smo con­dannò alla galera buona parte del gruppo diri­gente comu­ni­sta e Gram­sci a morte pro­ba­bile, viste le sue con­di­zioni di salute. Si dimen­tica o si nasconde a volte que­sto fatto fon­da­men­tale, si torna a scri­vere perio­di­ca­mente che altri (e in pri­mis pro­prio Togliatti o alcuni suoi com­pa­gni, o Sta­lin in per­sona) sareb­bero stati i «car­ne­fici» del comu­ni­sta sardo. Sulla base di ipo­tesi e ragio­na­menti che non hanno il sup­porto di un docu­mento, di una prova. Si arriva ad affer­mare che Mus­so­lini avrebbe addi­rit­tura rico­no­sciuto a Gram­sci pri­vi­legi inu­si­tati, in virtù di una stima di vec­chia data. Si costrui­sce arta­ta­mente la leg­genda del tra­di­mento di Togliatti (a cui i mag­giori quo­ti­diani mostrano di dare cre­dito) per minare dalle fon­da­menta una tra­di­zione poli­tica – quella del comu­ni­smo ita­liano – che offre ancora oggi segni di vita­lità.
I forti con­tra­sti tra Gram­sci e Togliatti nel 1926 in merito alle lotte interne al par­tito bol­sce­vico sono ampia­mente noti. Ciò che spesso non si dice però è che mai dall’esilio Togliatti cessa, con l’ausilio di Piero Sraffa e di Tania Schu­cht, di cer­care di dia­lo­gare col pri­gio­niero, un dia­logo che Gram­sci, anche se indi­ret­ta­mente, accetta: egli riflette e scrive per il suo par­tito, per la sua parte poli­tica, non diviene in car­cere un libe­ral­de­mo­cra­tico, men che meno si con­si­dera, come pure è stato detto, un «pro­fes­sore», un intel­let­tuale solo occa­sio­nal­mente pre­stato alla poli­tica e pre­sto da essa ritrat­tosi. La sta­gione dei fronti popo­lari anti­fa­sci­sti che si apre nel 1934–1935, e che ha in Togliatti uno dei prin­ci­pali pro­ta­go­ni­sti, non è certo det­tata dalla rifles­sione car­ce­ra­ria gram­sciana, ma segna un ogget­tivo riav­vi­ci­na­mento con il pri­gio­niero rispetto alla pre­ce­dente poli­tica dell’Internazionale comu­ni­sta, alla stra­te­gia della con­trap­po­si­zione fron­tale «classe con­tro classe» e alla con­se­guente poli­tica del «social­fa­sci­smo», per la quale, assur­da­mente, tra socia­li­sti e fasci­sti non vi sarebbe stata dif­fe­renza. Togliatti matura allora, negli anni Trenta, anche sulla spinta dell’avanzata del nazi­fa­sci­smo, la con­vin­zione della impor­tanza della demo­cra­zia, sia pure popo­lare, non eli­ta­ria, nutrita di diritti non solo poli­tici e civili, insomma «progressiva».

Una scelta chiara
Ciò che spesso non si dice, inol­tre, è che senza le scelte ope­rate da Togliatti rispetto alla gestione del lascito gram­sciano, noi non avremmo mai cono­sciuto il Gram­sci che oggi tutto il mondo apprezza. Se Togliatti non avesse ope­rato per fare di Gram­sci il mag­giore pen­sa­tore mar­xi­sta ita­liano e per difen­derne la figura e l’opera, il comu­ni­sta sardo sarebbe pas­sato pro­ba­bil­mente alla sto­ria solo come un mar­tire anti­fa­sci­sta o poco più. Le sue opere car­ce­ra­rie sareb­bero rie­merse dagli archivi di Mosca negli anni Ottanta e Novanta e noi forse saremmo intenti oggi a cer­care di capire per la prima volta quelle pagine non facili. Fu Togliatti nel 1938, in pieno ter­rore sta­li­niano, a impe­dire che il ver­tice dello stesso Pci con­dan­nasse come troc­ki­j­sta Gram­sci (scom­parso l’anno pre­ce­dente) pro­prio per le posi­zioni del 1926. Fu Togliatti a impe­dire che i qua­derni gram­sciani fos­sero affi­dati ai sovie­tici, come qual­cuno chie­deva, sal­van­doli così da un pro­ba­bi­lis­simo oblio. Fu Togliatti a evi­tare la con­danna del pen­siero di Gram­sci negli anni dello zda­no­vi­smo, pub­bli­cando i Qua­derni dopo averne smus­sato qual­che spi­golo per evi­tare la con­danna di Mosca, ma sce­gliendo di fare del comu­ni­sta sardo uno dei pila­stri del «par­tito nuovo» che andava costruendo, sia pure a prezzo di qual­che sin­cre­ti­smo, e intro­du­cen­dolo come meglio non si sarebbe potuto nella cul­tura poli­tica ita­liana: poteva anche non farlo, poteva anche – per costruire l’identità del suo Pci – appog­giarsi al mito dell’Urss o della Resi­stenza. Scelse invece, pur senza ripu­diare gli altri punti di rife­ri­mento iden­ti­tari del suo par­tito, di indi­care con chia­rezza che gran parte delle radici della sua poli­tica erano nel pen­siero di Gram­sci.
Certo, il libro che Togliatti ha scritto su Gram­sci non è uni­voco, è scan­dito dal pre­va­lere in fasi diverse di accenti diversi, e le let­ture togliat­tiane vanno con­te­stua­liz­zate, poi­ché sono in parte con­di­zio­nate dal pri­mato della poli­tica. Occorre sepa­rarvi ciò che non regge alla veri­fica del tempo dalle indi­ca­zioni, non poche, ancora fon­da­men­tali. E qual­che raro pas­sag­gio appare oggi per­sino ese­cra­bile. Ma l’interpretazione e l’uso che Togliatti ha fatto di Gram­sci sono stati impor­tanti per costruire quel par­tito che Gram­sci aveva rifon­dato dopo la prima fase bor­di­ghi­sta, e anche per far cono­scere al mondo l’autore dei Qua­derni.

La poli­tica di Gramsci
Gli scritti togliat­tiani su Gram­sci degli anni Venti e Trenta già pone­vano il tema del posto di Gram­sci nella sto­ria del Pci. All’amico e al com­pa­gno di mili­tanza e di lotta Togliatti rico­nobbe subito, nel 1927, la pri­mo­ge­ni­tura poli­tica, il ruolo di mae­stro e di capo, che riba­dirà nel 1937–1938, nei discorsi e negli arti­coli com­mossi scritti in occa­sione della morte. Si trat­tava di una indi­ca­zione, quella del 1927, che minava l’impianto difen­sivo gram­sciano? Mus­so­lini e la poli­zia fasci­sta sape­vano benis­simo chi fosse Gram­sci, quale ruolo avesse, e il Tri­bu­nale spe­ciale obbe­diva a fina­lità squi­si­ta­mente poli­ti­che: obbe­diva al volere di Mus­so­lini. Fare di Gram­sci allora, e poi di nuovo dopo la morte, il «capo» del par­tito ita­liano, per­sino un fedele seguace di Sta­lin (che in realtà non era), ser­viva in quel con­te­sto a sal­va­guar­darne la memo­ria, a impe­dirne la con­danna ideo­lo­gica da parte dell’Internazionale che avrebbe prima inde­bo­lito il pre­sti­gio del pri­gio­niero presso la «casa madre» di Mosca e che poi avrebbe rin­viato sine die la dif­fu­sione dei suoi scritti.
Una volta tor­nato in Ita­lia, Togliatti pog­giava su Gram­sci la costru­zione del suo par­tito. Ne for­zava in alcuni punti il pen­siero, facendo della sua stessa poli­tica la «poli­tica di Gram­sci», ma per un fine – tra­sfor­mare il Pci in un grande par­tito e farne una cosa diversa dal modello sovie­tico – che certo non sarebbe stato sgra­dito al comu­ni­sta sardo. Togliatti vac­ci­nava il suo par­tito dalla più nefa­sta orto­dos­sia sta­li­ni­sta, raf­for­zando la pecu­liare tra­di­zione comu­ni­sta nazio­nale, che aveva nella coniu­ga­zione di demo­cra­zia e socia­li­smo il suo mar­chio di fab­brica. Gram­sci e Togliatti non sono sovrap­po­ni­bili, certo, come non sono sovrap­po­ni­bili Togliatti e Ber­lin­guer: sono lea­der poli­tici che vivono e pen­sano in tempi diversi, usu­fruendo però di un comune nutri­mento teorico-politico e cer­cando di svi­lup­parlo in rela­zione a una vicenda sto­rica in con­ti­nua evo­lu­zione. Negli anni del dopo­guerra aveva lar­ga­mente corso l’idea non del tutto esatta di un Gram­sci «grande intel­let­tuale nazio­nale», ma se si leg­gono oggi gli scritti togliat­tiani ci si rende conto che le indi­ca­zioni in essi con­te­nute sono ancora pre­ziose per capire Gram­sci, la sua vicenda, il suo pensiero.

L’edizione cri­tica dei Quaderni
Dopo il 1956 ha ini­zio una delle sta­gioni più ric­che della ela­bo­ra­zione di Togliatti, l’ultima, anche per quel che riguarda Gram­sci. Egli poneva nel 1956–1958 il tema di Gram­sci e il leni­ni­smo per pren­dere le distanze dallo sta­li­ni­smo senza far per­dere al suo par­tito l’orizzonte rivo­lu­zio­na­rio. Nel momento in cui tante cer­tezze erano venute meno, Togliatti mostrava come la strada indi­cata da Gram­sci fosse soprat­tutto quella di tra­durre (un lemma fon­da­men­tale nel les­sico gram­sciano) il leni­ni­smo in un lin­guag­gio adatto a una situa­zione così diversa rispetto a quella in cui aveva avuto luogo la Rivo­lu­zione d’ottobre. Era stata, quella della neces­sità del pas­sag­gio da «Oriente» a «Occi­dente», del resto, una indi­ca­zione dello stesso Lenin, che Gram­sci aveva ripreso e svi­lup­pato. Gra­zie a Gram­sci dun­que si poteva andare avanti in quella dire­zione. Pre­ziosa era inol­tre, sem­pre nel 1958, l’indicazione togliat­tiana, oggi più che mai rite­nuta valida, secondo cui l’elaborazione di Gram­sci può essere dav­vero com­presa solo se con­nessa alla sua bio­gra­fia poli­tica. Veniva presa allora anche la deci­sione di pro­ce­dere a una edi­zione cri­tica dei Qua­derni, a cui ini­ziava a lavo­rare Valen­tino Ger­ra­tana. Era trac­ciata la via lungo la quale Gram­sci sarebbe dive­nuto il sag­gi­sta ita­liano più cono­sciuto nel mondo dai tempi di Machiavelli.



E Togliatti scrisse: in De Gasperi «qualcosa di torbido e ottuso»

Carioti Martedì 2 Settembre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA

A cinquant’anni dalla scomparsa di Palmiro Togliatti (nella foto) e a sessanta da quella di Alcide De Gasperi, morti entrambi nella seconda metà di agosto (nel 1964 il primo, nel 1954 il secondo), la doppia ricorrenza ha indotto qualcuno a chiedersi se il leader comunista e quello democristiano potessero essere «ricordati insieme». L’esponente cattolico del Partito democratico Giuseppe Fioroni ha inoltre proposto di dedicare a De Gasperi la Festa dell’«Unità» organizzata dal Pd, quasi in segno di riconciliazione postuma. Ma l’ipotesi non ha avuto seguito.
Meglio così, sembra di poter aggiungere ora, considerando i giudizi veramente pesanti e malevoli sul conto dello statista trentino contenuti in una lettera inedita di Togliatti che sta per essere pubblicata dalla rivista «Critica Marxista», diretta da Aldo Tortorella e Aldo Zanardo, nel numero che sarà in vendita online da domani sul sito dell’editore Dedalo di Bari (www.edizionidedalo.it) e uscirà in libreria verso la metà di questo mese.
Il documento viene dalle carte del comunista Fausto Gullo, ministro dell’Agricoltura e poi della Giustizia nei governi di unità antifascista dal 1944 al 1947, il cui archivio privato è depositato presso l’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Togliatti gli scrisse da Champoluc, in Val d’Aosta, dove si trovava in ferie, il 25 agosto del 1954. Siamo all’indomani della morte di De Gasperi, che si era spento in Trentino il 19 agosto. Togliatti aveva rilasciato una dichiarazione nella quale aveva sottolineato l’errore compiuto a suo avviso dal leader democristiano nel rompere l’unità antifascista, ma non era andato oltre. E Gullo gli aveva scritto per manifestargli il suo apprezzamento.
Nella risposta al compagno calabrese però Togliatti afferma di essersi un po’ pentito di quelle parole troppo morbide: «Se avessi avuto aggio di correggere — scrive —, avrei calcato un po’ più la mano sui momenti negativi». Ricorda «le dichiarazioni, volgari, vergognose, fatte da De Gasperi per la morte di Stalin» e confessa che è rimasto in lui «il dubbio di avere usato un tono troppo amichevole e generico». Anche per questo il consenso di Gullo, prosegue, gli ha dato «grande soddisfazione».
A questo punto però la lettera si fa particolarmente dura verso De Gasperi. In lui, dichiara Togliatti, «quello che mi ha sempre colpito è che l’asprezza e talora la violenza dell’attacco politico fossero legate non solo al sacrificio del comune senso di umanità, ma soprattutto al sacrificio dell’intelligenza, della luce intellettuale, vorrei dire». Le polemiche dello statista trentino, continua il segretario comunista, «avevano sempre qualcosa di torbido e di ottuso», sembravano mosse «non da una passione grande, ma da una cattiva piccineria».
Togliatti aveva manifestato la sua volontà di tenere le distanze da De Gasperi anche in una lettera del 20 agosto 1954 al parlamentare comunista Edoardo D’Onofrio (ora riprodotta nell’epistolario togliattiano La guerra di posizione in Italia , edito mesi fa da Einaudi a cura di Maria Luisa Righi e Gianluca Fiocco), nella quale spiegava di non volersi recare ai funerali del leader democristiano perché ciò gli sarebbe parso ipocrita.
Nella missiva a Gullo però si va oltre. E colpiscono anche le considerazioni finali sulla religiosità di De Gasperi espresse qui da Togliatti, in pubblico sempre rispettoso verso la fede cattolica professata anche da molti iscritti al suo partito. Il comportamento dello statista democristiano, scrive a Gullo, alimenta in lui la «convinzione che sia la religione che renda gli uomini cattivi, perché li spinge a giudizi e condanne assoluti, privi di comprensione per la coscienza e la causa degli altri». Poi Togliatti dà l’impressione di voler attenuare la gravità del giudizio: «Forse è la religione nel modo che De Gasperi la intendeva». Per quanto ateo, alla religione Togliatti era disposto a concedere qualcosa. A De Gasperi no

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