Ha centosettant'anni, ma non perde un colpo. Pubblicato a puntate fra l'agosto 1844 e il gennaio 1846 sul «Journal des Débats», mentre Dumas lo stava ancora scrivendo (con l'aiuto di un ghost-writer, Auguste Maquet), senza sapere nemmeno lui come l'avrebbe concluso, e intanto metteva in cantiere altri due o tre romanzi, Il conte di Montecristo ha lasciato, e lascia tuttora, col fiato sospeso folle di lettori di ogni estrazione sociale e di ogni paese. Nessun romanzo, forse, ha avuto tante edizioni (settantasei solo in Italia, già dal 1846), tanti adattamenti cinematografici (il primo nel 1922) e televisivi; è diventato un musical, un fumetto con Paperino, è stato immortalato sulle figurine Liebig e condensato nelle strisce della Magnesia San Pellegrino; oggi ispira la serie americana Revenge. Tutti quindi possono dire di conoscerne almeno a grandi linee la trama e il protagonista, anche chi non lo ha mai letto. Ma non c'è trasposizione, necessariamente lacunosa, data la mole del romanzo, che valga il godimento di aprirlo e rimanere intrappolati senza scampo nel suo inesorabile ingranaggio narrativo, che funziona sempre anche se si sa già come andrà a finire la vicenda. I suoi stessi difetti, le ripetizioni, le digressioni, le zeppe, sono funzionali al piacere della lettura. Gramsci lo ha bollato come «il piú "oppiaceo" dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subíto un'ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla "punizione" da infliggere loro?» Nella sua scia, ma senza alcuna condanna ideologica, Umberto Eco lo ha fatto accedere, finalmente, al canone della tradizione letteraria, celebrando il suo protagonista come una delle piú riuscite incarnazioni del «superuomo di massa». Bello e tenebroso quanto basta, Montecristo non ricorre all'armamentario del romanzo gotico inglese, né è un autentico aristocratico come il suo predecessore piú immediato, il Rodolphe de Gerolstein dei Misteri di Parigi di Eugène Sue (1843), vendicatore di torti nei bassifondi di Parigi. Montecristo ammette con disinvoltura di essere un «conte improvvisato», ma con un patrimonio da far impallidire quello di Rothschild, un fascino magnetico e una cultura smisurata, grazie ai quali abbacina l'élite politica e finanziaria del regno borghese di Luigi Filippo. Dall'alto della sua onniscienza, tiene a bada depressione e malumori con pasticche di hashish, e intanto manipola la Borsa, usa l'amministrazione della giustizia come un suo personale braccio armato e pilota l'esistenza dei suoi nemici per punirli con sapiente contrappasso, imprigionandoli in una trama impeccabile di coincidenze che non sono mai tali, di accadimenti che non sono mai fortuiti. Proprio come farebbe un grande romanziere.
martedì 30 settembre 2014
L'edizione Einaudi del Conte di Montecristo: il commento del prof. Golpe Democratico
Risvolto
Ha centosettant'anni, ma non perde un colpo. Pubblicato a puntate fra l'agosto 1844 e il gennaio 1846 sul «Journal des Débats», mentre Dumas lo stava ancora scrivendo (con l'aiuto di un ghost-writer, Auguste Maquet), senza sapere nemmeno lui come l'avrebbe concluso, e intanto metteva in cantiere altri due o tre romanzi, Il conte di Montecristo ha lasciato, e lascia tuttora, col fiato sospeso folle di lettori di ogni estrazione sociale e di ogni paese. Nessun romanzo, forse, ha avuto tante edizioni (settantasei solo in Italia, già dal 1846), tanti adattamenti cinematografici (il primo nel 1922) e televisivi; è diventato un musical, un fumetto con Paperino, è stato immortalato sulle figurine Liebig e condensato nelle strisce della Magnesia San Pellegrino; oggi ispira la serie americana Revenge. Tutti quindi possono dire di conoscerne almeno a grandi linee la trama e il protagonista, anche chi non lo ha mai letto. Ma non c'è trasposizione, necessariamente lacunosa, data la mole del romanzo, che valga il godimento di aprirlo e rimanere intrappolati senza scampo nel suo inesorabile ingranaggio narrativo, che funziona sempre anche se si sa già come andrà a finire la vicenda. I suoi stessi difetti, le ripetizioni, le digressioni, le zeppe, sono funzionali al piacere della lettura. Gramsci lo ha bollato come «il piú "oppiaceo" dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subíto un'ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla "punizione" da infliggere loro?» Nella sua scia, ma senza alcuna condanna ideologica, Umberto Eco lo ha fatto accedere, finalmente, al canone della tradizione letteraria, celebrando il suo protagonista come una delle piú riuscite incarnazioni del «superuomo di massa». Bello e tenebroso quanto basta, Montecristo non ricorre all'armamentario del romanzo gotico inglese, né è un autentico aristocratico come il suo predecessore piú immediato, il Rodolphe de Gerolstein dei Misteri di Parigi di Eugène Sue (1843), vendicatore di torti nei bassifondi di Parigi. Montecristo ammette con disinvoltura di essere un «conte improvvisato», ma con un patrimonio da far impallidire quello di Rothschild, un fascino magnetico e una cultura smisurata, grazie ai quali abbacina l'élite politica e finanziaria del regno borghese di Luigi Filippo. Dall'alto della sua onniscienza, tiene a bada depressione e malumori con pasticche di hashish, e intanto manipola la Borsa, usa l'amministrazione della giustizia come un suo personale braccio armato e pilota l'esistenza dei suoi nemici per punirli con sapiente contrappasso, imprigionandoli in una trama impeccabile di coincidenze che non sono mai tali, di accadimenti che non sono mai fortuiti. Proprio come farebbe un grande romanziere.
Ha centosettant'anni, ma non perde un colpo. Pubblicato a puntate fra l'agosto 1844 e il gennaio 1846 sul «Journal des Débats», mentre Dumas lo stava ancora scrivendo (con l'aiuto di un ghost-writer, Auguste Maquet), senza sapere nemmeno lui come l'avrebbe concluso, e intanto metteva in cantiere altri due o tre romanzi, Il conte di Montecristo ha lasciato, e lascia tuttora, col fiato sospeso folle di lettori di ogni estrazione sociale e di ogni paese. Nessun romanzo, forse, ha avuto tante edizioni (settantasei solo in Italia, già dal 1846), tanti adattamenti cinematografici (il primo nel 1922) e televisivi; è diventato un musical, un fumetto con Paperino, è stato immortalato sulle figurine Liebig e condensato nelle strisce della Magnesia San Pellegrino; oggi ispira la serie americana Revenge. Tutti quindi possono dire di conoscerne almeno a grandi linee la trama e il protagonista, anche chi non lo ha mai letto. Ma non c'è trasposizione, necessariamente lacunosa, data la mole del romanzo, che valga il godimento di aprirlo e rimanere intrappolati senza scampo nel suo inesorabile ingranaggio narrativo, che funziona sempre anche se si sa già come andrà a finire la vicenda. I suoi stessi difetti, le ripetizioni, le digressioni, le zeppe, sono funzionali al piacere della lettura. Gramsci lo ha bollato come «il piú "oppiaceo" dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subíto un'ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla "punizione" da infliggere loro?» Nella sua scia, ma senza alcuna condanna ideologica, Umberto Eco lo ha fatto accedere, finalmente, al canone della tradizione letteraria, celebrando il suo protagonista come una delle piú riuscite incarnazioni del «superuomo di massa». Bello e tenebroso quanto basta, Montecristo non ricorre all'armamentario del romanzo gotico inglese, né è un autentico aristocratico come il suo predecessore piú immediato, il Rodolphe de Gerolstein dei Misteri di Parigi di Eugène Sue (1843), vendicatore di torti nei bassifondi di Parigi. Montecristo ammette con disinvoltura di essere un «conte improvvisato», ma con un patrimonio da far impallidire quello di Rothschild, un fascino magnetico e una cultura smisurata, grazie ai quali abbacina l'élite politica e finanziaria del regno borghese di Luigi Filippo. Dall'alto della sua onniscienza, tiene a bada depressione e malumori con pasticche di hashish, e intanto manipola la Borsa, usa l'amministrazione della giustizia come un suo personale braccio armato e pilota l'esistenza dei suoi nemici per punirli con sapiente contrappasso, imprigionandoli in una trama impeccabile di coincidenze che non sono mai tali, di accadimenti che non sono mai fortuiti. Proprio come farebbe un grande romanziere.
Nel Codice Dumas il segreto del romanzo
Una narrazione forte, più storie insieme, personaggi con un destino unico Ecco perché “Il conte di Montecristo” è l’archetipo della (buona) fiction
di Alberto Asor Rosa Repubblica 30.9.14
COS’È
il “romanzesco”? In cosa consiste? Quando abbiamo il diritto di usare
questo termine, fuori e dentro la letteratura? Calma, lettori: non ho
intenzione di propinarvi una lezione di retorica e teoria letteraria.
Vorrei soltanto esporvi qualche piccolo senso, che ho ricavato dalla
rilettura recentissima, estiva, del colossale monumento alla “realtà
romanzesca” (nel duplice senso che l’espressione comporta) che è Il
conte di Montecristo di Alexandre Dumas (1803-1870), ripubblicato, con
meritoria audacia, da Einaudi nella bella traduzione di Margherita
Botto.
Sul Conte ha scritto cose bellissime Umberto Eco ( Il
superuomo di massa , 2001). Ma forse qualche corollario si può
aggiungere alla sua nobile canonizzazione. Vediamo, ripartendo
dall’inizio.
Il conte di Montecristo fu scritto e pubblicato intorno al 1844.
Pressoché
contemporaneamente, quella poderosa macchina di produzione letteraria,
che era Alexandre Dumas padre, concepiva e realizzava i capolavori della
saga moschettiera, I tre moschettieri, Vent’anni dopo , Il visconte di
Bragelonne. Ma il Conte è su di un gradino superiore, più ambizioso per
l’impianto e per la quasi contemporaneità degli eventi rispetto ai suoi
lettori di quel tempo.
In estrema sintesi: il protagonista del
romanzo, Edmond Dantès, è all’origine un giovane marinaio, molto esperto
nel suo lavoro e profondamente onesto, il quale, per le mene congiunte e
in parte involontarie di tre perfidi personaggi, – Fernand Mondego,
Gérard de Villefort e Danglars – viene imprigionato nel terribile
carcere francese denominato Chateau d’If, e vi trascorre alcuni anni in
una segregazione pressoché assoluta e nella disperazione estrema (siamo
in piena Restaurazione, Dantès viene accusato di bonapartismo, non è
escluso perciò che Dumas lasci calare sulla narrazione qualche veleno
antiborbonico). Lì, avventurosamente, conosce un altro prigioniero
innocente, l’Abate Faria, sbucato nella sua cella, dopo aver scavato,
con disumana sofferenza, un tunnel sotterraneo, che avrebbe dovuto
portarlo all’aperto e invece, per un calcolo sbagliato, lo conduce
proprio nella cella di Edmond. Dall’Abate Faria, prete italiano colto e,
per così dire, di orientamenti risorgimentalisti, Edmond apprende molte
cose; ma soprattutto viene a conoscenza, prima che Faria muoia,
dell’esistenza di uno sterminato tesoro nascosto sul- l’isola (anch’essa
italiana, e non è una combinazione) di Montecristo. Edmond, fuggito dal
Chateau d’If con un espediente tanto macabro quanto ingegnoso,
s’impadronisce del tesoro e inizia una nuova vita. Nella seconda parte
del romanzo Edmond passa da un travestimento all’altro, alla ricerca
però di un’unica fondamentale forma di riscatto, e cioè la vendetta.
L’opera tuttavia ha un lieto fine, in conseguenza del quale Edmond
recupera il proprio umano diritto a perdonare e amare.
Il conte di
Montecristo ha subito negativamente nel tempo la taccia di essere un
romanzo d’appendice, votato essenzialmente alla causa della
commerciabilità del prodotto ovvero, come si dice oggi comunemente, alle
“leggi del mercato”. Non c’è dubbio che sia così all’origine. E
tuttavia il risultato che ne scaturisce torna a sembrare oggi degno di
qualche maggiore attenzione.
Proviamo a ricollegarci alle domande
iniziali. Il “romanzesco” 1) è una narrazione forte e complessa, che non
può (ripeto: non può) non assumere grandi dimensioni; 2) parte da una
singola storia, ma ne racconta molte; 3) è fatto di personaggi che sono
portatori ciascuno di un “destino” particolare, il quale però
s’intreccia, appunto, a quello di molti altri; 4) contempla e
rappresenta costitutivamente un sistema di rapporti fra reale e
immaginario, fra il possibile e l’inverosimile – ossia fra ciò che è e
ciò che potrebbe essere, il quale diventa anch’esso a un certo punto ciò
che è.
Ora, Il conte di Montecristo presenta senza ombra di dubbio
tutte queste caratteristiche. Ma non si potrebbe fare lo stesso discorso
per un’altra opera, a giudizio comune, di portata enormemente superiore
come Guerra e pace? Sì, certo, si potrebbe. Qual è la differenza,
allora? Temo che la differenza sia, come si diceva una volta, nei
“contenuti”.
Il peso logico, sentimentale, ideale di Guerra e pace
non teme confronti rispetto a quello espresso dall’inizio alla fine dal
Conte di Montecristo .
E tuttavia, detto questo, tutto il resto
rimane valido anche per Il conte di Montecristo, e cioè che la sua
macchina narrativa possiede una vitalità così prodigiosa da valere per
sé, ossia per il godimento disinteressato e magari un po’ frivolo del
lettore, e, aggiungerei, anche e forse soprattutto per il lettore di
oggi. Lettore di oggi, il quale non ha più bisogno che gli si dica che
deve leggere un testo perché gli sarà “utile”, gli basta sapere che sarà
appassionante e divertente.
Da questo punto di vista Il conte di
Montecristo riserba sorprese che difficilmente – duole dirlo – le opere
della nostra contemporaneità in genere ci fanno sperimentare: è
facilmente provabile, se se ne fa esperienza diretta, che, una volta
intrapresa la lettura del testo all’inizio di un suo qualunque capitolo,
sia impossibile staccarsene un attimo prima che quel capitolo sia
concluso. L’esperienza dei primi lettori del Conte, i quali lo
compulsavano ogni settimana in appendice a un organo giornalistico del
tempo, e a quanto sembra esprimevano l’attesa ansiosa che questo
accadesse, può essere rivissuta dai lettori di oggi, i quali
faticheranno non poco a staccarsi dal testo nei punti nodali della
narrazione, per tornare alle loro, molto più banali, fatiche quotidiane.
Il
fatto è che il “romanzesco”, quello autentico, è anche un’altra cosa
rispetto a quelle che abbiamo già elencato. Esso è la proiezione di una
visione del mondo che non ci sarebbe se quel romanzo non ci fosse.
Illusorio è in ogni caso cercare i riscontri reali a quello che vediamo
raccontato. Quello che vediamo raccontato è anch’esso un reale – un
reale che si distingue nettamente da quello che, supinamente,
continuiamo a credere e chiamare “il reale”.
Da questo punto di vista
Il conte di Montecristo è un vero scrigno di ricchezze – ricchezze
certo illusorie, ma destinate meravigliosamente a incrementare il nostro
bisogno di una realtà “altra”, non meschinamente ridotta a quella di
cui facciamo esperienza tutti i giorni.
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