Minoranza Pd pronta a far saltare la riforma
Battaglia in Aula in cinque punti di Carlo Bertini La Stampa 20.9.14
Il fuoco di sbarramento sta per scattare, le batterie lancia-missili sono già partite alla volta del Senato, dove verranno piazzate per la prima battaglia di trincea, quella che andrà in scena in aula la prossima settimana. E come sempre in politica il fuoco di sbarramento serve a far trattare meglio le diplomazie della sinistra Pd. Che cercano disperatamente di mettere un argine alla disfatta di un bastione fino ad oggi inespugnabile come quello dell’articolo 18. Ecco perché ieri si sono chiusi in una stanza Pierluigi Bersani, Stefano Fassina, Guglielmo Epifani, Alfredo D’Attorre e alcuni senatori. Per fissare i punti cardine di una strategia d’attacco che da martedì verrà tradotta in una manciata di emendamenti «qualificanti» al jobs act: che porteranno la firma dell’ex sottosegretario al welfare Cecilia Guerra e di Maria Grazia Gatti, oggi senatrice, ma per dieci anni di stanza alla Cgil di Pisa. Sono cinque gli emendamenti chiave che sta preparando la sinistra Pd, con la premessa - si infervora Stefano Fassina - che «i principi della delega sono troppo generici e vanno specificati, non si può dare una delega in bianco al governo. Quando c’era Monti nel 2012 e lo spread era a 400, noi siamo riusciti a trovare una soluzione equilibrata, oggi in condizioni meno complicate si va sul terreno liberista». Ciò vuol dire - sarà questo il primo emendamento dei bersanian-dalemiani - «specificare che resta la possibilità per il giudice di reintegrare il lavoratore licenziato senza giusta causa dopo il primo triennio, come è nella legislazione tedesca». Il secondo punto sub judice riguarda il disboscamento della giungla di contratti precari, le decine di forme in vigore vanno ridotte, «specificando il ridimensionamento e le poche tipologie contrattuali da tenere in vita». Terzo elemento: la sinistra vuole che una copertura finanziaria esplicita con le quantificazioni e la tempistica per l’indennità di disoccupazione universale, con un rinvio alla legge di stabilità e con la dotazione finanziaria necessaria. Insomma, la delega che chiede il governo non può essere «a risorse invariate». Quarto, la minoranza del Pd vuole che sia specificata una stretta connessione tra l’avvio del contratto a tutele crescenti che comprenda il reintegro e l’entrata a regime dei nuovi ammortizzatori sociali ampliati e il loro relativo finanziamento. Quinto, sul «demansionamento, bisogna definire un perimetro più preciso e il coinvolgimento dei sindacati ai fini della definizione più stretta dell’ambito dell’intervento a livello contrattuale». Tradotto in uno slogan usato da tutti a sinistra in queste ore, «sì al modello tedesco, no a quello spagnolo fondato sulla precarizzazione e compressione di diritti e salari», mette in chiaro D’Attorre.
Ma le trattative fervono e uno degli elastici che il governo può tirare è quello dei tre anni di sospensione dell’articolo 18 per i nuovi assunti, che la sinistra per ora è disposta pure a portare a quattro. Anche perché tra i renziani c’è chi non esclude che invece l’articolo 18 sia eliminato per tutti, pure per i contratti in essere, ipotesi questa fin qui negata da tutti i più alti in grado del Pd con lo slogan «i diritti acquisiti non si toccano». Insomma la partita è solo all’inizio e in queste ore, nel ruolo di «pontieri» ci sono il ministro Poletti, il responsabile economia e lavoro del Pd, Filippo Taddei e il presidente del partito Matteo Orfini.
Gianni Cuperlo: «L'articolo 18 principio di dignità»
di Em. Pa. Il Sole 20.9.14
«La legge delega sulla riforma del lavoro contiene misure indispensabili, non c'è dubbio che serve discontinuità. Occorre riorganizzare gli ammortizzatori. Estendere i diritti di maternità. Aggredire il nostro vero ritardo con serie politiche attive per il lavoro. Per metterci nel solco dei Paesi che hanno retto meglio l'urto della crisi. Quindi io dico di innovare, ma i diritti come le responsabilità non sono un optional, una regalia». La premessa da cui parte Gianni Cuperlo, principale competitor di Matteo Renzi alle ultime primarie Pd, non è ostile a quella parte del Jobs act che contiene l'introduzione di un sussidio di disoccupazione universale e di nuove politiche attive. Ma quando si arriva all'abolizione della reintegra per i neoassunti, il solco si riallarga.
Allora, onorevole Cuperlo, a fronte di un'estensione delle tutele si può anche ragionare di articolo 18?
È il caso di fare la citazione un po' usurata del dito e della luna. L'abolizione della reintegra sarebbe un totem? Dietro quella norma molto banalmente c'è un principio. Colpendo quel principio si vuole un mercato del lavoro diverso, col sacrificio di una quota di dignità per un'efficienza priva di riscontro. Non è l'articolo 18 la leva da smuovere, metterlo al centro è il cedimento a un'ideologia che non guarda ai nostri limiti veri: investimenti sul capitale umano, ricerca, un piano per il lavoro alle donne.
Il 29 deciderà la direzione Pd. Ma si rischia la scissione?
Quel termine non voglio neppure sentirlo. Io dico discutiamo e magari coinvolgiamo la nostra base. Nessuno di noi è in Parlamento sulla base di un mandato a ridurre la sfera dei diritti.
Renzi accusa i sindacati di aver difeso le ideologie e non le persone. Lei come la vede?
Chi guida il Paese in un momento come questo deve cercare il dialogo e la coesione sociale. Pensare che si possa salvare l'Italia contro le imprese o i sindacati è un'illusione. E mai come oggi è il tempo della realtà.
Il fronte renziano, Paolo Gentiloni: «Ora chiarimento definitivo nel Pd»
di Em. Pa. Il Sole 20.9.14
«L'unica cosa di destra, visto che sento accusare il governo e Renzi di seguire una politica di destra, è difendere la situazione esistente, una situazione ingiusta che ha portato l'Italia ad avere il minor numero di occupati tra i grandi Paesi industriali e crea discriminazione tra meno della metà dei lavoratori che hanno alcune tutele e più della metà che non ne hanno. Cambiare questa situazione che penalizza il Paese e che colpisce i più deboli è di sinistra». È una sfida diretta alla sinistra del suo partito, quella del deputato del Pd Paolo Gentiloni, renziano della prima ora. Sfida non più rinviabile.
Quindi la delega va bene, onorevole Gentiloni, compreso il superamento dell'articolo 18 per i neoassunti?
La delega fissa i paletti fondamentali e credo che sia un errore ridurre tutto quello che abbiamo intenzione di cambiare al solo articolo 18, perché l'obiettivo è avere finalmente un codice del lavoro semplificato, andare finalmente verso un sistema di tutele e di ammortizzatori sociali universalizzato e dare più spazio alla contrattazione aziendale decisiva per recuperare il nostro handicap di produttività. Se qualcuno si ostina a ridurre tutto alla sola alternativa tra indennità crescente con l'anzianità di servizio e reintegra, beh è giunto il momento di sciogliere anche questo nodo.
Chiarimento nel partito, dunque, fino alle estreme conseguenze di una possibile scissione?
Non credo proprio che si possa anche solo evocare la scissione. Siamo un partito che discute, abbiamo convocato una direzione per questo, assumeremo una posizione e questa posizione porteremo avanti anche in Parlamento. Io sono stato quattro anni in minoranza nel partito guidato da Pier Luigi Bersani, ma ho sempre votato in conformità con le decisioni del partito anche quando non mi sono trovato d'accordo. Non sottovaluto il peso di una questione che si trascina da più lustri, certo, e del resto siano ancora nella fase di definizione della delega. Sarà poi il governo a decidere. Ma l'orientamento è molto chiaro.
“Non mi fido del solo risarcimento al lavoratore” intervista di Paolo Baroni La Stampa 20.9.14
Certo, in Italia il solco tra lavoratori garantiti e lavoratori non garantiti è grande, ma questo problema non si risolve creando nuove divisioni. E se il nodo, invece, è quello di favorire la crescita «il problema va rovesciato: non sono le regole del lavoro che favoriscono lo sviluppo quanto gli investimenti». Per cui, invece di cambiare di nuovo l’articolo 18, «occorre mettere in primo piano politica industriale e politica fiscale» spiega Guglielmo Epifani. «E’ vero – sostiene l’ex segretario della Cgil - c’è un problema di modernizzazione del mercato del lavoro, un mercato molto segmentato, dove negli anni si è accentuata la precarietà. Ora serve un riordino: ma non perché lo chiede l’Europa, ma perché lo chiede la condizione sociale del Paese». Il presidente della Commissione attività produttive della Camera pensa che la riforma, alla fine, debba rappresentare «il punto comune di una valutazione che appartiene a tutto il Paese. A mio modo di vedere, tutela del lavoro, dignità del lavoro, un diverso rapporto lavoratore-impresa devono far parte di un’idea di sviluppo che deve essere compatibile col fatto che dobbiamo competere con prodotti, servizi e aziende di qualità».
Quindi che riforma serve ?
«Il primo punto da cui partire è collegare formazione e lavoro in maniera più stabile e forte. Abbiamo bisogno di formare di più e meglio i lavoratori con un rapporto più stretto coi fabbisogni delle imprese, cambiando totalmente il rapporto tra scuola, università, ricerca e lavoro sull’esempio degli Usa. E poi, sul versante delle imprese, occorre migliorare la qualità della domanda, per evitare di vedere fuggire in Germania i nostri ingegneri. Bisogna puntare sulla qualità, perché a noi non serve un modello di sviluppo incentrato su decentramento delle produzioni, prezzi bassi e grandi quantità. Questo è un modello di sviluppo “basso” che non risponde all’esigenza di arrestare il declino dell’Italia».
Detto ciò la questione-apartheid resta però irrisolta.
«E’ il secondo punto da affrontare: il nostro mercato del lavoro deve essere reso più inclusivo. Oggi ci sono lavoratori che non hanno diritti. Tra i giovani sono la maggioranza. Il diritto alla maternità va certamente esteso a tutti e va superata la cassa in deroga, che è stata utile ma non può essere certamente “il modello” perché è troppo occasionale. Mentre invece bisogna poter garantire a chi resta senza lavoro una tutela più universale. E per far questo occorre riformare anche gli strumenti di avviamento e accompagnamento al lavoro, che da noi funzionano male. Inoltre col Jobs act bisogna trovare il modo di semplificare il numero dei modelli contrattuali».
Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti può essere la soluzione?
«Questa è una buona soluzione, ma bisogna fare in modo che assorba e sostituisca una parte consistente delle forme spurie tipiche del lavoro. E soprattutto occorre vedere bene la questione del reintegro».
Nel testo votato ieri non se ne fa cenno. Va lasciato o tolto?
«Chiariamo subito che in molti paesi europei il reintegro, magari con forme diverse, c’è. Non è vero che non c’è. Ora però se lo si fa saltare totalmente per affidarsi unicamente al risarcimento monetario si crea una soluzione che ha un limite fondamentale, come ci dimostra la Spagna di oggi. Si parte con un risarcimento alto, alla prima difficoltà poi lo si dimezza, quindi con la crisi lo si fa saltare del tutto. Col risultato che il lavoratore resta senza tutela. Poi pensiamo ad un lavoratore licenziato con l’accusa di aver rubato, se poi si dimostra che questa accusa è falsa perché non può essere reintegrato? Il cuore della discussione è questo e per questo invito il Pd a riflettere».
Ma su questo tema si può davvero creare una frattura nel partito?
«Dipende da come si risolve la questione: è chiaro che su questo punto possono maturare posizioni differenti. Ma, ripeto, per me questo è un tema importante, che non appartiene all’altro secolo ma attiene alla qualità del lavoro e all’idea di sviluppo di oggi e di domani».
Ma allora il reintegro va lasciato com’è, o si può affinare ulteriormente?
«Si può affinare, ma già ipotizzare che scatti dopo tre anni è un bel salto. Detto questo, pensare che chi ce l’ha lo può tenere,mentre i neoassunti non lo possono avere mai più non mi convince. E’ questa la soluzione migliore: ridividere i lavoratori per generazioni?».
Orfini: i sindacati si sono voltati dall’altra parte
Il presidente Pd: «Chiariamo i punti più delicati per evitare interpretazioni eccessive» di Monica Guerzoni qui Corriere 20.9.14
Chiudere col passato che non passa
di Marcello Sorgi La Stampa 20.9.14
No, non è solo l’articolo 18 a dividere Renzi dalla pattuglia dei suoi avversari nati nel Pci. È un groviglio di passioni, un vissuto che sta sotto le insegne del «lavoro» e dei «lavoratori», ma richiama alla memoria tutto l’insieme «comunista», in cui rientrano a pieno titolo le celebrazioni di Togliatti e Berlinguer.
Entrambi emarginati prima e oggi pienamente riabilitati: il partito, il sindacato, le sezioni, la fabbrica, le assemblee, i cortei, le lotte, le vittorie e le sconfitte di mezzo secolo di vita di un’organizzazione che a dispetto della sua cuginanza con l’Urss, s’è sempre sentita molto italiana. Un edificio - meglio sarebbe dire una cultura, un gran pezzo della recente storia italiana - che sembrava ormai sepolto. Almeno da quando, nel 2007, è nato il Pd, sulle ceneri novecentesche dei grandi partiti di massa, e con l’intenzione di scrivere una pagina nuova nell’esperienza della sinistra al governo.
Ma ora che il ciclone renziano, dopo aver rottamato gli ultimi eredi di quella tradizione, si appresta a cancellarne anche le tracce - il complesso di slanci e dubbi, di convinzione e ambiguità, quei due passi avanti e uno indietro che accompagnano da sempre l’evoluzione della sinistra -, Bersani, D’Alema e Cofferati dicono no. Il paradosso è che i leader che più si sono spesi per costruire una sinistra riformista, ora invece si oppongono e non riconoscono a Renzi, non tanto il diritto di fare ciò che ha in testa, ma di farlo alla sua maniera.
Così difendono un mondo che loro stessi hanno contribuito a superare: il comunismo italiano condannato, da limiti ideologici e internazionali, a stare all’opposizione per quasi cinquant’anni; ma non per questo escluso dalle grandi scelte. Il vecchio partito «di lotta e di governo», il gruppo dirigente «forgiato nella lotta antifascista», il Pci berlingueriano del «non si governa senza di noi».
Ora che il Pd ha un segretario nato nel ’75, e una segreteria fatta di trenta-quarantenni, è difficile spiegare ai ragazzi che hanno preso il loro posto che una stagione, finita quanto si vuole (e finita da venticinque anni, verrebbe da aggiungere), non può essere messa da parte sbrigativamente. Senza quelle riflessioni, liturgie, pedagogie, di cui appunto si nutriva il Pci. Il partito delle grandi battaglie e manifestazioni popolari, eternamente riconvertite negli accordi e negli inevitabili compromessi di cui è fatta la politica. Il partito del centralismo democratico, in cui tutti discutevano, ma presto o tardi dovevano adeguarsi alla linea del segretario. Il partito dei grandi intellettuali, Moravia, Calvino, di cineasti come Visconti e Pasolini, di pittori come Guttuso. Il partito in cui un buon dirigente, per crescere, non doveva fare a botte con la polizia e doveva andare a distribuire i volantini davanti ai cancelli della Fiat.
La dimensione dell’antagonismo - operai contro capitalisti - era sempre fondata sul rispetto. Gianni Agnelli ricordava che «per un periodo i segretari comunisti parlavano solo piemontese». Quando Agnelli morì, nel gennaio 2003, gli operai torinesi, inaspettatamente, per un giorno e una notte sfilarono davanti al feretro, in segno di rimpianto. Questo perché la fabbrica era, sì, il teatro dello scontro: eppure, il sistema di relazioni tra parti avversarie prevedeva di fermarsi un attimo o un centimetro prima dell’irrimediabile: non a caso - e fu l’eccezione che confermava la regola - l’unica volta che quest’imperativo non venne rispettato, dalla fabbrica insorse la rivolta dei «colletti bianchi».
La «marcia dei quarantamila» del 14 ottobre 1980 a Torino, con quasi dieci anni di anticipo sull’89 della caduta del Muro di Berlino, rappresentava la fine di quel mondo e di quel modo di essere, in cui perfino il calendario era segnato da scadenze corrispondenti: la riunione delle «Alte direzioni» Fiat in cui i vertici del gruppo si confrontavano sul modo di accrescere i profitti e aumentare la produttività, anche a costo di ridurre i posti di lavoro. E, parallelamente, la «Conferenza di produzione» in cui Pci e Cgil facevano il lavoro opposto. A quel tempo - è trascorso più di un trentennio, lo Statuto dei lavoratori aveva dieci anni, Craxi e il grande scontro sul taglio della scala mobile evocato in questi giorni erano alle porte - la fabbrica fordista era già finita. Dario Fo continuava a cantare nei teatri la ballata del lavoratore «parcellizzato» sottoposto alla rigorosa «misurazione dei tempi e dei metodi» («Prima prendere/poi lasciare/destra sinistra/ quindi posare/dare un giro/poi sorridere/questa è la vita del parcellizzato/l’operaio sincronizzato»), ma negli stabilimenti era già stata introdotta la lavorazione «a isola», che integrava il rispetto dell’autonomia artigiana del singolo dipendente con l’esigenza di contrarre gli organici.
È il periodo in cui il capitalismo nostrano comincia a interrogarsi sulle conseguenze della globalizzazione e la sinistra di opposizione, al contrario, si rifiuta di farlo. Errore imperdonabile, che condizionerà tutto il decennio successivo, quello in cui sulle macerie della Prima Repubblica arriva a sorpresa Berlusconi. E il Pci, poi Pds e Ds, invece di competerci sul piano dei programmi di governo, decide di combatterlo e basta, magari a ragion veduta, ma senza porsi il problema di cosa accadrà se e quando ad andare al governo sarà la sinistra. Così che quando succede, nei sette anni complessivi dei governi Prodi, D’Alema, Amato e ancora Prodi, il partito ha cambiato nome varie volte, ma sotto sotto è ancora quello «di lotta e di governo»: pro e contro i magistrati, secondo se se la prendono con Berlusconi o con i primi gravi casi di corruzione che affiorano all’interno del centrosinistra; pro e contro le riforme economiche, se è al governo o all’opposizione; e addirittura pro e contro la tv privata, con D’Alema che in campagna elettorale va a Cologno Monzese a elogiare Mediaset come parte importante del patrimonio culturale del Paese, ma poi cambia idea quando il Cavaliere torna a Palazzo Chigi.
Per questa strada si arriva alla grande manifestazione del 23 marzo 2002, contro la cancellazione dell’articolo 18 decisa da Berlusconi. Tre milioni di persone a Roma, nel catino del Circo Massimo, Cofferati sul palco e il governo di centrodestra, spaventato dalla prova di forza, che fa marcia indietro. È l’ultima foto di gruppo della generazione post-comunista, prima della confluenza nel Pd e della diaspora correntizia. Da quella radiosa «giornata di lotta», alla malinconica chiusura della campagna elettorale del 2013, quando Bersani si rivolge ai suoi dal palcoscenico dell’Ambra Jovinelli, un teatro romano di cabaret, sembra passato un secolo. A riempire la piazza del Primo maggio, una San Giovanni traboccante, è arrivato Grillo. È la vigilia della terribile sconfitta, pardon, della «non vittoria», come sarà definita, del 25 febbraio, che porterà Renzi alla guida del partito e poi a Palazzo Chigi, e riporterà Napolitano al Quirinale.
Ma se tutto era finito da un pezzo, viene da chiedersi cosa c’entri ancora questo con l’articolo 18 e l’accelerata impressa dal premier al Jobs Act. In fondo in fondo, quasi niente. Bersani e D’Alema lo sanno, anche se vorrebbero che questo pezzo di storia, il passato che non passa mai e gli errori di questi anni, venissero archiviati con un po’ più di cura. Senza i calci nel sedere e le maniere spicce con cui Renzi li ha trattati finora.
La spallata finale pensando a Blair
Ma non basta l’innovazione della «flexsecurity» Il governo spieghi cosa vuole fare di Dario Di Vico Corriere 20.9.14
Quella che si è aperta tra il premier e la Cgil è una battaglia che cova da lungo tempo all’interno della sinistra italiana. I protagonisti di oggi sono in qualche modo nuovi, Matteo Renzi e Susanna Camusso ma i rispettivi ruoli sono stati già interpretati da altri attori nel recente passato. La disfida che viene in mente per prima, se non altro per l’analogia con l’iniziativa governativa di abolire l’articolo 18, è quella tra Massimo D’Alema e Sergio Cofferati. Un duello per certi versi epico, condotto in un tempo — la seconda metà degli anni 90 — nel quale ci si confrontava ancora davanti a platee in carne e ossa e non negli studi di qualche talk show. Un tempo nel quale contavano gli applausi dei compagni e la capacità di convincerli — verrebbe da dire — uno a uno. Il match alla fine fu risolto non da un referendum, né da un congresso ma da una fiumana, quella che riempì il Circo Massimo e fu conteggiata dagli amanti del genere in tre milioni di persone convenute per applaudire un segretario generale della Cgil capello al vento, vagamente alla Mao. Ma prima ancora che in Italia lo scontro tra partito e sindacato si era pienamente dispiegato in Gran Bretagna. Tony Blair, schernito come nient’altro che una variante del thatcherismo, sfidò le Unions e le travolse creando i presupposti di un lungo ciclo politico durante il quale la sinistra inglese cambiò totalmente sangue. Non altrettanto epico fu lo scontro tra Gerhard Schröder e i potenti sindacati tedeschi ma in quel caso la posta in gioco era comunque altissima e alla fine i risultati non solo hanno dato ragione al cancelliere ma hanno contribuito a dare un vantaggio competitivo alla Germania e a farne quella potenza economico-sociale che è oggi. Insomma guai a banalizzare un conflitto di questo tipo, la storia recente dell’Europa (e non della sola sinistra) ne è stata sempre fortemente influenzata. Certo questa volta non siamo più nel Novecento, siamo nell’era dello smartphone e insieme della Grande Crisi per cui non è detto che il copione sia lo stesso. La fedeltà al partito e al sindacato ha lasciato il posto allo zapping, il sindacato per molti è una struttura di servizio (fisco e patronato) e le sezioni di partito fanno già parte del modernariato. Ma soprattutto né Blair né Schröder erano degli osservati speciali da parte degli organismi sovranazionali e invece il duello Renzi-Camusso avviene in una zona intermedia tra piena sovranità nazionale e commissariamento. Sul piano dei contenuti il giovane Matteo in fondo non sta inventando niente e guarda caso a primeggiare sono le idee di Pietro Ichino, uno che le cose di oggi le scriveva già negli anni 90 e i big del centrosinistra lo attaccavano in pubblico mentre in privato gli mandavano messaggi di piena condivisione. Anche la Cgil in fondo recita il copione conservatore di tutti i sindacati che hanno paura di cosa c’è dietro l’angolo ma non possiamo dimenticare che quella tradizione ha prodotto in passato due giganti come Giuseppe Di Vittorio e Luciano Lama, che ai loro tempi erano più pragmatici e responsabili dei loro segretari di partito.
Dunque per Renzi il dado è tratto e non ci resta che vedere l’andamento della battaglia. Una cosa però gli va chiesta: eviti di farne solo un conflitto nel campo della comunicazione, terreno che predilige. La vittoria del Pd alle europee si deve a molte scelte azzeccate inclusa, al Nord, la contrapposizione con la Cgil. Stavolta però non c’è da convincere l’elettore di centrodestra a tradire il suo campo, in ballo ci sono assetti di medio periodo della società italiana. Ci sono da riperimetrare i rapporti di forza tra insider e outsider, tra i lavoratori rappresentati da Cgil-Cisl-Uil e i giovani precari a vita, persino tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. E ci vuole, dunque, una cassetta degli attrezzi che non sia limitata alla pur importante innovazione della flexsecurity. Insomma se la pars destruens del premier (non a caso chiamato ancora «il rottamatore») è tutto sommato chiara, è quella construens che ancora è indistinta. Sembra più elaborata dagli spin doctor che devono conquistare i titoli dei tg che da qualcuno
Nessun commento:
Posta un commento