lunedì 29 settembre 2014
Si conclude la Storia linguistica di De Mauro mentre solo il 20% degli italiani comprende ciò che legge e articola frasi di senso compiuto
Risvolto
La cultura e la lingua del nostro paese, due fattori primari per la sua
vita, dai primi passi della Repubblica all’Italia del nuovo secolo.
La svolta istituzionale e politica del 1946 rinnovò profondamente
l’Italia, nel costume, nella cultura e nel linguaggio. Le città erano
piene di cumuli di macerie, ma nella pace ritrovata le speranze
prevalevano. In quel bisogno di esprimersi, la lingua comune fu
chiamata a rispondere a una pluralità di impieghi e registri prima
sconosciuta, e così accadde anche ai dialetti. Parte da questa volontà
di nuovo la Storia linguistica dell’Italia repubblicana, che si propone di continuare fino all’oggi la Storia linguistica dell’Italia unita dedicata agli anni dal 1861 al secondo dopoguerra.
Il libro racconta il quadro delle condizioni linguistiche e culturali
del paese a metà Novecento: un paese contadino segnato da bassa
scolarità, analfabetismo, predominio dei dialetti. Individua poi i
mutamenti di natura economica, sociale, politica e le luci e le ombre di
quel che è avvenuto nel linguaggio: largo uso dell’italiano nel
parlare, ma continua disaffezione alla lettura, nuovo ruolo dei
dialetti, scarsa consuetudine con le scienze, mediocri livelli di
competenza della popolazione adulta, difficoltà della scuola. L’ultimo
capitolo, infine, mostra come tutto ciò incida sui modi di adoperare la
nostra lingua: sul vocabolario e la grammatica che usiamo, parlando in
privato o in pubblico, o scrivendo testi giornalistici, amministrativi e
burocratici, letterari o scientifici.
Gli italiani parlano (anche) in dialetto
Incontro con Tullio De Mauro che ha aggiornato la Storia linguistica Quasi la metà di noi alterna l’uso dell’idioma nazionale con quello locale Solo
una percentuale di poco superiore al 20 è in grado di comprendere frasi
neanche tanto difficili e di fare operazioni poco più che elementari I dati sono in peggioramento, ma il progetto di Renzi non li prende in considerazione Molte
famiglie non hanno neanche un libro in casa e sono ormai tanti gli
studi che attestano una relazione fra il rendimento scolastico dei
ragazzi e il numero di libri posseduti dai genitori
colloquio con Francesco Erbani Repubblica 29.9.14
L’ITALIANO , la lingua italiana, non sta così male. Messi male sono
molti, troppi italiani che quella lingua parlano ormai correntemente, ma
incontrano grandi difficoltà a comprendere un testo scritto o a
risolvere un calcolo. Insomma, a orientarsi nel mondo d’oggi. È un paese
bifronte quello che da anni scandaglia il linguista Tullio De Mauro,
per un verso slanciato in avanti, per il verso opposto appesantito da
vecchie e nuove tare. Ma un altro accertamento proietta l’immagine di un
paese a due facce: l’italiano è diventato ora la lingua di quasi tutti,
senza che ciò abbia però provocato la morte dei dialetti. Se il 90 per
cento di noi parla una lingua comune (ancora nel 1974 era appena il 25
per cento), una buona metà di questa massa, il 44,1, alterna
abbondantemente l’italiano al dialetto. E ciò, sottolinea De Mauro, non è
affatto negativo.
De Mauro sistema studi che conduce da anni, studi che non riguardano
tanto il codice al quale tutti facciamo riferimento, quanto proprio noi
parlanti. Esce in questi giorni il suo Storia linguistica dell’Italia
repubblicana ( Laterza) che fin dal titolo aggiorna la Storia
linguistica dell’Italia unita, pubblicato nel 1963, un testo
indispensabile per capire, attraverso il modo in cui ci esprimevamo
cent’anni dopo l’unificazione, che italiani eravamo. La procedura è ora
identica: storia linguistica e non storia della lingua. Si ragiona di
assetti demografici e non di congiuntivi, di rapporto città/campagna,
città grande/ città piccola e non di sintassi. E poi della scuola e di
ciò che c’è fuori e oltre la scuola. Di giornali, di televisione e di
web. Dei dislivelli culturali, vere fratture che incidono il corpo della
società italiana.
Che cos’è una storia linguistica?
«È la storia di una comunità che può anche parlare diverse lingue. Tanto
più di una comunità come quella italiana dove, a differenza di altri
paesi, c’è un marcato multilinguismo. È la masse parlante di cui scrive
Ferdinand de Saussure».
È una storia d’Italia sub specie linguistica?
«Possiamo dire così. Non riesco a capire perché gli storici italiani
trascurino quest’aspetto. Accade in prevalenza da noi, dove pure è
impossibile ignorare il modo in cui le persone si capivano o non si
capivano. In fondo uno dei motivi alla base della richiesta di
unificazione del paese era proprio la comunanza di lingua. Che poi la
comunanza fosse una chimera è un problema sul quale gli storici
dovrebbero soffermarsi».
E tanto più dovrebbero soffermarsi sulla formidabile convergenza degli
italiani verso l’italiano avvenuta negli ultimi quarant’anni.
«È un fenomeno vistoso che induce a rivedere, almeno su questo versante,
un certo pessimismo nelle ricostruzioni della nostra storia recente. Il
bisogno di trovare un terreno d’intesa, da Nord a Sud, ha avuto un
esito indubbio. E il bisogno l’ha avvertito più la popolazione italiana
che non le classi dirigenti. Questo va sottolineato senza populismi».
E però, lei aggiunge, chi diagnosticava la morte dei dialetti deve ricredersi.
«Posso inondarla di cifre?».
Certamente.
«Fino al 1974 la maggioranza degli italiani, il 51,3 per cento, parlava
sempre in dialetto. Ora chi parla sempre in dialetto è sceso al 5,4. Ma,
regredendo l’uso esclusivo, è andato crescendo quello alternante di
italiano e dialetto: nel 1955 era il 18 per cento, oggi è il 44,1.
Quelli che adoperano solo l’italiano sono il 45,5 per cento. È vero che i
toscani, i liguri e gli emiliano-romagnoli parlano solo in italiano fra
l’80 e il 60 per cento e che i lucani, i campani e i calabresi vanno
dal 27 al 20 per cento. Ma è vero anche che chi usa solo il dialetto in
queste regioni del Sud non supera il 12-13 per cento».
E quest’alternanza quanto incide sulla capacità di comprendersi l’un l’altro?
«In una conversazione, non sempre in maniera programmata, si passa
dall’italiano al dialetto e viceversa molto facilmente. Ovviamente
rivolgendosi a un interlocutore che il dialetto possa capirlo. Gli
inglesi lo chiamano code switching o code mixing. È uno strumento
prezioso per arricchire il parlato, migliorando l’espressività».
Lei sostiene che l’acquisizione dell’italiano comune sia stata favorita dalla mescolanza di tanti idiomi.
«Quante più lingue si confrontano tanto più cresce l’esigenza di una
lingua comune. L’importante è che l’ambiente sia unitario. È un fenomeno
verificabile fin dal Cinquecento a Roma, per esempio, dove affluiscono
popolazioni da molte regioni dopo il sacco dei lanzichenecchi. La classe
dirigente, cioè la curia, era pan-italiana».
Le donne convergono verso l’italiano prima e più degli uomini.
«Questo accade sia nei contesti familiari, dove le donne rivolgendosi ai
bambini prediligono l’italiano, sia fuori da quest’ambiente: lo
attestano i dati sulla lettura o quelli sui rendimenti scolastici».
E oltre al multilinguismo cos’è che ha diffuso l’italiano?
«Sono tanti i fattori: l’emigrazione interna, l’affluenza nelle grandi
città, radio e televisione. Ma va sottolineato l’alto livello di
scolarizzazione che ha portato al diploma secondario il 75 per cento dei
ragazzi. Purtroppo questa richiesta di più alta formazione si è
arrestata negli ultimi anni».
In che senso?
«Il numero dei laureati in Italia resta basso rispetto alla media
europea e ormai si diffonde la sfiduciata convinzione che una laurea
serva a poco, perché molte imprese sembra non abbiano bisogno di alti
livelli d’istruzione».
E invece la scuola resta essenziale in questo processo.
«L’italiano ha un congegno più complicato dell’inglese o del francese,
richiede un controllo che la scuola può offrire. Ancora oggi una
consapevolezza piena la si acquisisce alle superiori, quando queste
funzionano bene. Il che non è sempre vero: soprattutto il triennio
finale è rimasto molto indietro. I programmi non sono stati aggiornati e
l’impianto è troppo segmentato in discipline e poco attento alle
competenze trasversali».
Come giudica il progetto di riforma del governo Renzi?
«Non la chiamerei riforma. Sono provvedimenti collaterali che non
toccano l’impianto complessivo. È positivo che sia un presidente del
consiglio a parlare di scuola. Prima di lui l’ha fatto solo Giovanni
Giolitti» Fuori dalla scuola si continuano a registrare indici di
drammatica dealfabetizzazione. Tutte le indagini sulle competenze reali
degli italiani indicano che solo una percentuale di poco superiore al 20
è in grado di comprendere frasi neanche tanto difficili e di fare
operazioni poco più che elementari.
«Questi dati circolano da oltre un decennio. Vengono aggiornati e
risultano peggiorati. Ma il progetto di Renzi non li prende in
considerazione. Si fa appello alle famiglie, ma molte famiglie non hanno
neanche un libro in casa e sono ormai tanti gli studi che attestano una
relazione fra il rendimento scolastico dei ragazzi e il numero di libri
posseduti dai genitori. Non c’è il minimo accenno all’educazione degli
adulti, una delle condizioni perché i figli apprendano di più e meglio».
Lei dedica il libro a suo fratello Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970. Perché?
«Volevo che questo pezzo di storia che non ha vissuto in qualche modo gli appartenesse».
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