martedì 2 settembre 2014

Tecnologie e nuove forme di colonizzazione capitalistica della vita privata

Evgeny Morozov contro i mastini di Silicon Valley
Le Monde Diplomatique. «L’economia della condivisione» più che un’alternativa ai colossi della Rete è la forma più innovativa dell’industria basata sull’acquisizione e vendita dei dati personali. Una parola d’ordine populista che trova un alleato negli studiosi che denunciano i pericoli allo sviluppo cognitivo rappresentati dalla tecnologia
Evgeny Morozov, 30.8.2014 il Manifesto

Nel bagno con­nesso, lo spaz­zo­lino da denti inte­rat­tivo lan­ciato quest’anno dalla società Oral-B (filiale del gruppo Procter&Gamble) è una star: inte­ra­gi­sce senza fili con il nostro cel­lu­lare men­tre, sullo schermo, un’applicazione segue secondo per secondo le fasi della puli­zia dei denti e indica gli angoli della cavità orale che meri­te­reb­bero mag­giore atten­zione. Abbiamo stro­fi­nato con suf­fi­ciente vigore, pas­sato il filo inter­den­tale, raschiato la lin­gua, risciac­quato il tutto?
Ma c’è di meglio.
Come spiega con fie­rezza il sito che gli è dedi­cato, lo spaz­zo­li­no­con­nesso tra­sforma il gesto di spaz­zo­lare i denti in un insieme di dati che si pos­sono ren­dere in forma di gra­fico o comu­ni­care ai pro­fes­sio­ni­sti del set­tore. Che sarà di que­sti dati, è ancora oggetto di dibat­tito: ne man­ter­remo l’uso esclu­sivo? O saranno cat­tu­rati dai den­ti­sti pro­fes­sio­ni­sti e per­fino ven­duti a com­pa­gnie di assi­cu­ra­zione? Si aggiun­ge­ranno alla mon­ta­gnadi infor­ma­zioni già dispo­ni­bili nel gra­naio di Face­book e Google?
L’improvvisa presa di coscienza che i dati per­so­nali regi­strati dal più banale degli elet­tro­do­me­stici dallo spaz­zo­lino elet­trico al fri­go­ri­fero potreb­bero tra­sfor­marsi in oro ha sol­le­vato cri­ti­che alla logica por­tata avanti dai masto­donti della Sili­con Valley.
Que­ste imprese rac­col­gono su grande scala le tracce lasciate dagli inter­nauti sui siti che fre­quen­tano, le siste­mano e le riven­dono a inser­zio­ni­sti o ad altre società. Così gua­da­gnano miliardi di dol­lari, men­tre i frui­tori noi otten­gono sola­mente alcuni ser­vizi gra­tuiti. Da que­sta con­sta­ta­zione nasce una cri­tica biz­zarra, dai con­no­tati popu­li­sti: con­te­stiamo que­sti mono­poli, si sostiene, e sosti­tuia­moli con una mol­ti­tu­dine di pic­coli impren­di­tori. Ognuno di noi, insomma, potrebbe costi­tuire il pro­prio por­ta­fo­glio di dati e trarre van­taggi dalla sua commercializzazione,vendendo ad esem­pio i dati sulla spaz­zo­la­tura dei denti a un pro­dut­tore di den­ti­frici e il pro­prio genoma a un labo­ra­to­rio far­ma­ceu­tico, o rive­lando la pro­pria ubi­ca­zione in cam­bio di uno sconto al risto­rante all’angolo.Voci auto­re­voli, come quella del sag­gi­sta e impren­di­tore Jaron­La­nier o del ricer­ca­tore e infor­ma­tico Alex Sandy Pen­tland, decan­tano que­sto nuovo modello.
Ci viene pro­messo un mondo nel quale la pro­te­zione della vita pri­vata sarebbe comun­que garan­tita: se si con­si­de­rano i dati come una pro­prietà pri­vata, allora un solido arse­nale giu­ri­dico e tec­no­lo­gie ade­guate pos­sono assi­cu­rare che nes­sun sog­getto terzo li tra­fu­ghi. Al tempo stesso si fa bale­nare ai nostri occhi anche un futuro di pro­spe­rità. Gra­zie a quale mira­colo? Quello dell’internet degli oggetti, cioè la pro­li­fe­ra­zione di appa­rec­chi gra­zie ai quali i nostri più pic­coli atti e gesti saranno cen­siti, ana­liz­zati e…monetizzati.Da qual­che parte c’è qual­cuno dispo­sto a pagare per cono­scere il motivo che can­tiamo sotto la doc­cia. Se non si è ancora mani­fe­stato, è solo per­ché nel nostro bagno non ci sono micro­foni col­le­gati a internet.
È chiaro. Se Goo­gle riem­pie la nostra casa di gra­ziosi sen­sori intel­li­genti fab­bri­cati dalla sua filiale Nest, sarà Goo­gle e non noi a gua­da­gnare denaro quando can­tic­chiamo. La stra­te­gia di que­sto gigante con­si­ste nell’aggregare dati pro­ve­nienti da una quan­tità di fonti (auto­vet­ture senza con­du­cente, occhiali col­le­gati, posta elet­tro­nica) e a far dipen­dere l’efficacia del sistema dalla sua ubi­quità: per trarne il mas­simo van­tag­gio, dovremmo per­met­tere ai suoi ser­vizi di arri­vare, come il gas, a tutti gli angoli della nostra vita quotidiana.
L’enormità del ser­ba­toio di dati in tal modo costi­tuito lo pro­tegge da qua­lun­que con­cor­renza; le imprese di minore dimen­sione l’hanno capito benis­simo. Non rimane loro che una scelta: rispon­dere all’appello di Pen­tland e Lanier, e con­trat­tac­care Goo­gle esi­gendo che i dati appar­ten­gano by default agli uti­liz­za­tori, o almeno che que­sti siano i desti­na­tari di una parte dei benefici.
Que­ste due stra­te­gie appa­ren­te­mente diver­genti attin­gono alla stessa sor­gente ideo­lo­gica, della quale rap­pre­sen­tano due varianti intel­let­tuali. Come spiega il socio­logo bri­tan­nico Wil­liam Davies, la visione pro­po­sta da Pen­tland e Lanier si ricol­lega ala tra­du­zione ordo­li­be­ri­sta tede­sca, che eleva la con­cor­renza al rango di impe­ra­tivo morale e con­si­dera dun­que peri­co­loso qua­lun­que monopolio.
Meno osses­sio­nato dalla morale che dall’efficacia eco­no­mica e dall’interesse del con­su­ma­tore, l’approccio di Goo­gle, dal canto suo, è ricon­du­ci­bile all’ideologia neo­li­be­ri­sta sta­tu­ni­tense incar­nata dalla scuola di Chi­cago: i mono­poli non sono nocivi di per sé; alcuni pos­sono anche gio­care un ruolo posi­tivo. Mal­grado le sue pre­tese di inno­va­zione e sov­ver­ti­mento dell’ordine costi­tuito, il dibat­tito con­tem­po­ra­neo sulla tec­no­lo­gia rimane dun­que inca­na­lato in un alveo fami­liare: l’informazione, con­si­de­rata una merce, si inte­gra benis­simo nel para­digma liberista.
Per con­ce­pire l’informazione in altro modo occor­re­rebbe, per comin­ciare, sot­trarla alla sfera eco­no­mica. Magari con­si­de­ran­dola come bene comune, con­cetto caro a una certa sini­stra radi­cale. Ma sarebbe molto utile doman­darsi intanto per­ché si accetta come un dato di fatto la mer­ci­fi­ca­zione dell’informazione. La rispo­sta risiede nel ruolo che la fase sto­rica attuale asse­gna alla tec­no­lo­gia: un deus ex machina crea­tore di lavoro, che deve sti­mo­lare l’economia e col­mare i defi­cit di bilan­cio pro­vo­cati dall’evasione fiscale di ric­chi e mul­ti­na­zio­nali. In que­sto con­te­sto, non con­si­de­rare l’informazione come una merce equi­var­rebbe per i poli­tici a bucare il loro stesso salvagente.

Ritorno al XIX secolo
Anche i più acuti osser­va­tori della crisi finan­zia­ria sot­to­va­lu­tano il peso di que­sta fede nell’onnipotenza della tecnologia.
Così, il socio­logo tede­sco Wol­fgang Streeck spiega che all’inizio degli anni 1970, con la com­parsa dei primi segni di crollo del modello sociale nato dal com­pro­messo del dopo­guerra, i diri­genti occi­den­tali appli­ca­rono tre stra­te­gie per gua­da­gnare tempo e man­te­nere lo statu quo: l’inflazione, l’indebitamento degli Stati e, infine, un tacito inco­rag­gia­mento all’indebitamento dei cit­ta­dini, ai quali il set­tore pri­vati vende pre­stiti immo­bi­liari e cre­diti al con­sumo. Nell’elenco di que­sti stru­menti desti­nati a ritar­dare l’inevitabile, Streeck non indica le tec­no­lo­gie informatiche.
Que­ste ultime cree­reb­bero al tempo stesso ric­chezza e posti di lavoro a con­di­zione che tutti si tra­sfor­mino in impren­di­tori e impa­rino a pro­gram­mare per scri­vere delle appli­ca­zioni. Fra i primi, il governo bri­tan­nico ha con­cre­tiz­zato que­sto poten­ziale su scala nazio­nale ten­tando di ven­dere i dati dei malati alle com­pa­gnie di assi­cu­ra­zione (fin­ché un’ondata di pro­te­sta popo­lare non ha archi­viato l’iniziativa), o i dati per­so­nali di stu­denti a ope­ra­tori della tele­fo­nia mobili e a ven­di­tori di bevande ener­ge­ti­che. Un recente rap­porto, par­zial­mente finan­ziato da Voda­fone, sostiene che si potreb­bero creare 16,5 miliardi di ster­line (21 miliardi di euro) aiu­tando i con­su­ma­tori a gestire, cioè a ven­dere, i loro dati per­so­nali. Lo Stato si limi­te­rebbe a defi­nire un qua­dro legale per gli inter­me­diari pre­po­sti alle tran­sa­zioni tra con­su­ma­tori e for­ni­tori di servizi.
Men­tre gli Stati si sfor­zano di gua­da­gnare tempo dall’alto, le start-up della Sili­con Val­ley pro­pon­gono solu­zioni per gua­da­gnare tempo dal basso. Hanno una fede totale in ser­vizi come Uber (pri­vati che usano la pro­pria auto­mo­bile come taxi) e Airbnb (e i loro appar­ta­menti in hotel), in grado di tra­sfor­mare anti­quati beni ana­lo­gici in fonte di pro­fitti digi­tali e moderni.
Obiet­tivo: assi­cu­rare un red­dito com­ple­men­tare al loro pro­prie­ta­rio. Come spiega Brian Che­sky, pre­si­dente e diret­tore gene­rale di Airbnb, la disoc­cu­pa­zione le disu­gua­glianze hanno rag­giunto i livelli più ele­vati, ma siamo seduti su una miniera d’oro (…). Abbiamo impa­rato a creare i nostri con­te­nuti, ma ormai pos­siamo tutti creare il nostro lavoro e, per­ché no, un nostro set­tore di atti­vità.
Fedele alle sue abi­tu­dini, la Sili­con Val­ley riprende qui la reto­rica comu­ni­ta­ria della con­tro­cul­tura per pre­sen­tare Uber e Airbnb come i pila­stri della nuova eco­no­mia della con­di­vi­sione, uto­pi­stico oriz­zonte, sognato dagli anar­chici quanto dai liber­ta­riani, nel quale gli indi­vi­dui trat­te­ranno diret­ta­mente gli uni con gli altri eli­mi­nando gli inter­me­diari. Più pro­sai­ca­mente, si tratta di sosti­tuire inter­me­diari ana­lo­gici, come le com­pa­gnie di taxi, con inter­me­diari digi­tali, come Uber, impresa finan­ziata dai noti anar­chici di Gold­man Sachs.
Poi­ché il set­tore alber­ghiero quanto quello dei taxi è uni­ver­sal­mente dete­stato, il dibat­tito pub­blico è rapi­da­mente sfo­ciato nell’immagine di audaci pre­cur­sori che spaz­zano via deiren­tiersbolsi e privi di imma­gi­na­zione. Que­sta pre­sen­ta­zione così poco obiet­tiva maschera un fatto essen­ziale: i corag­giosi cam­pioni dell’economia della con­di­vi­sione si muo­vono in un uni­verso men­tale tipico del XIX secolo. Nel loro sistema il lavo­ra­tore, radi­cal­mente indi­vi­dua­liz­zato, gode di una pro­te­zione sociale solo sim­bo­lica; si assume rischi che in pre­ce­denza erano dei datori di lavoro; le sue pos­si­bi­lità di con­trat­ta­zione col­let­tiva sono ridotte a zero.
I difen­sori di que­sto nuovo modello giu­sti­fi­cano una simile pre­ca­rietà con argo­menti degni del teo­rico libe­ri­sta Frie­drich Hayek. I mec­ca­ni­smi auto­re­go­la­tori (è il mer­cato a decre­tare la qua­lità dell’autista o dell’ospite) sono più effi­caci delle leggi, dun­que tanto vale sba­raz­zarsi di que­ste ultime. Quando avremo costruito sistemi dav­vero in grado di auto-correggersi, assi­cura il noto inve­sti­tori in capi­tali di rischio Fred Wil­son, non avremo più biso­gno di mec­ca­ni­smi rego­la­tori.
A que­sto scopo basta satu­rare la società di mec­ca­ni­smi retroat­tivi, cioè valu­ta­zioni qua­li­ta­tive for­nite con­ti­nua­mente dagli attori del mer­cato: i pareri e i com­menti degli uti­liz­za­tori. La digi­ta­liz­za­zione della vita quo­ti­diana unita all’avidità pro­dotta dalla finan­zia­riz­za­zione fa pre­sa­gire la tra­sfor­ma­zione di tutto il genoma come la camera da letto in bene pro­dut­tivo. Esther Dyson, pio­niera della geno­mica per­so­na­liz­zata, azio­ni­sta prin­ci­pale della società 23andMe, para­gona la sua società a un distri­bu­tore auto­ma­tico che vi per­mette di acce­dere alle ric­chezze nasco­ste nei vostri geni.
Ecco dun­que il futuro che ci pro­mette la Sili­con Val­ley: un numero suf­fi­ciente di sen­sori col­le­gati a inter­net cam­bierà le nostre vite in distri­bu­tori auto­ma­tici giganti.
Pre­sto o tardi, i refrat­tari alla sal­vezza pro­spet­tata dall’economia della con­di­vi­sione saranno per­ce­piti come sabo­ta­tori dell’economia, e la non dif­fu­sione di dati sarà vista come uno spreco ingiu­sti­fi­ca­bile di risorse suscet­ti­bili di con­tri­buire alla cre­scita. Non con­di­vi­dere diven­terà bia­si­me­vole quanto non lavo­rare, rispar­miare, ripa­gare i pro­pri debiti; il giu­di­zio morale pas­serà la ver­nice della legit­ti­mità su que­sta forma di sfruttamento.
Non può affatto sor­pren­dere che cate­go­rie sociali schiac­ciate dal far­dello dell’austerità ini­zino a con­ver­tire la cucina di casa in risto­rante, l’automobile in taxi e i dati per­so­nali in attivi finan­ziari. Che altro pos­sono fare? Ma per la Sili­con Val­ley, stiamo assi­stendo al trionfo dello spi­rito d’impresa, gra­zie allo svi­luppo spon­ta­neo di una tec­no­lo­gia sepa­rata da ogni con­te­sto sto­rico, e soprat­tutto dalla crisi finan­zia­ria. In realtà, que­sto desi­de­rio d’impresa è gio­ioso quanto quello dei dispe­rati di tutto il mondo che, per pagarsi l’affitto, arri­vano a pro­sti­tuirsi o a ven­dere gli organi.
A volte gli Stati ten­tano di fre­nare que­ste derive, ma poi devono risa­nare i bilanci. E allora, tanto vale lasciare che Uber e Airbnb sfrut­tino la miniera d’oro come meglio cre­dono. Que­stoat­teg­gia­mento con­ci­liante ha il dop­pio van­tag­gio di aumen­tare le entrate fiscali e aiu­tare i comuni cit­ta­dini ad arri­vare alla fine del mese.

Una cri­tica ridotta a lamentela
Ma l’economia della con­di­vi­sione non sosti­tuirà quella del debito: al con­tra­rio, il loro destino è la coe­si­stenza. L’onnipresenza dei dati, unita alla cre­scente effi­ca­cia degli stru­menti di ana­lisi, per­met­terà alle ban­che di ven­dere cre­dito anche a una clien­tela rite­nuta fino a oggi insol­vi­bile ovvia­mente pre­via un’attenta scre­ma­tura digi­tale dei cat­tivi ele­menti. In que­sto modo, start-up come Zest-Finance stanno già aiu­tando le ban­che a fil­trare le richie­ste di pre­stiti on-line sulla base di 60.000 cri­teri, fra i quali il modo di pigiare i tasti del com­pu­ter o di usare il telefono.
In Colom­bia, la gio­vane società di pre­stiti Lenddo con­di­ziona l’emissione di carte di cre­dito al com­por­ta­mento dei can­di­dati sui social net­work: ognuno dei loro clic entra in una linea di conto. Un’evidenza che non sfugge a Dou­glas Mer­rill, cofon­da­tore di Zest­Fi­nance, che in home page­spiega a chiare let­tere: Tutti i dati per­so­nali sono per­ti­nenti in ter­mini di cre­dito. E allora, la nostra stessa vita, inte­gral­mente osser­vata dai sen­sori che ci cir­con­dano, può ini­ziare a bat­tere al ritmo del debito.
Gli idioti utili della Sili­con Val­ley rispon­de­ranno che stanno sal­vando il mondo. Se i poveri chie­dono di inde­bi­tarsi, per­ché non accon­ten­tarli? Gli spi­riti visio­nari non sono sfio­rati dal dub­bio che que­sto biso­gno di cre­dito possa dipen­dere dall’aumento della disoc­cu­pa­zione, dalla ridu­zione delle spese sociali e dal crollo dei salari reali. Né riflet­tono sul fatto che altre poli­ti­che eco­no­mi­che potreb­bero inver­tire que­ste ten­denze, e ren­dere inu­tili que­sti mera­vi­gliosi stru­menti digi­tali che con­sen­tono di ven­dere sem­pre più debito. Il loro unico com­pito e la loro unica fonte di red­dito è creare stru­menti per risol­vere i pro­blemi così come essi si pre­sen­tano giorno per giorno, non svi­lup­pare un’analisi poli­tica ed eco­no­mica suscet­ti­bile di rifor­mu­lare gli stessi pro­blemi per affron­tarne le cause.
In ciò la Sili­con Val­ley è simile a tutte le altre indu­strie: a meno che non pos­sano trarne pro­fitto, le imprese non vogliono un cam­bia­mento sociale radi­cale. Ma Goo­gle, Uber o Airbnb­di­spon­gono di un reper­to­rio reto­rico molto più ampio rispetto a JP Mor­gan o Gold­man Sachs. Se ci viene voglia di cri­ti­care le ban­che, pas­siamo per avver­sari del capi­ta­li­smo e di Wall Street, con­trari al suo sal­va­tag­gio da parte dei con­tri­buenti: un punto di vista ormai così banale da far sbadigliare.
Invece, cri­ti­care la Sili­con Val­ley, signi­fica essere rite­nuti dei­tec­no­fobi, stu­pi­doni nostal­gici dei bei tempi andati prima dell’iPhone. Allo stesso modo, qua­lun­que cri­tica poli­tica ed eco­no­mica for­mu­lata con­tro il set­tore delle tec­no­lo­gie infor­ma­ti­che e i suoi legami con l’ideologia neo­li­be­ri­sta è subito con­si­de­rata una cri­tica cul­tu­rale alla moder­nità. E il suo autore è dipinto come nemico del pro­gresso, desi­de­roso di rag­giun­gere Mar­tin Hei­deg­ger nella Fore­sta nera per guar­dare tri­ste­mente il cemento senz’anima delle dighe idroelettriche.
Da que­sto punto di vista, le con­ti­nue lamen­tele sul declino della cul­tura pro­dotto da Twit­ter e dai libri elet­tro­nici hanno gio­cato un ruolo nefa­sto. All’inizio del XX secolo, il filo­sofo Wal­ter Ben­ja­min e il socio­logo Sieg­fried Kra­cauer con­si­de­ra­vano i pro­blemi posti dai nuovi media attra­verso un pri­sma socioeconomico.
Oggi, biso­gna accon­ten­tarsi delle rifles­sioni di un Nicho­las Carr, osses­sio­nato dalle neu­ro­scienze, o di un Dou­glas Rush­koff, con la sua cri­tica bio-fisiologica dell’accelerazione. Indi­pen­den­te­mente dalla mag­giore o minore per­ti­nenza dei loro con­tri­buti, la loro moda­lità di ana­lisi fini­sce per sepa­rare la tec­no­lo­gia dall’economia. E così ci si ritrova a discu­tere di come uno schermo di iPad con­di­zioni i pro­cessi cogni­tivi del cer­vello, invece di com­pren­dere come i dati rac­colti dagli iPad influen­zino le misure di auste­rità dei governi.
Copy­right Le monde Diplomatique/il manifesto  Tra­du­zione di Mari­nella Correggia


Il business della libertà di parola
Internet. La rete messa sotto controllo dagli stati nazionali e imprese globali. Per reprimere i movimenti sociali, ma anche per fare profitti Benedetto Vecchi, 27.8.2014

È sto­ria antica, quella dei virus debi­ta­mente svi­lup­pati per poi pre­sen­tare sul mer­cato pro­grammi infor­ma­tici svi­lup­pati per difen­dersi da essi. Ma ormai la Rete è un mer­cato maturo, non tol­lera più i gio­chetti arti­gia­nali di pic­cole imprese che fun­zio­nano così. Su Inter­net le tec­no­lo­gie della sor­ve­glianza e del con­trollo sono infatti diven­tate un set­tore in forte espan­sione, che vede come com­mit­tenti stati nazio­nali e imprese glo­bali. Sono cioè parte inte­grante del com­plesso digitale-militare che con­sente tassi di svi­luppo ancora al di sopra della soglia di sicu­rezza per l’informatica. Senza di esso, il ter­mini più usato per indi­care l’high-tech sarebbe crisi.
È stata la vicenda del Data­gate a sve­lare defi­ni­ti­va­mente una realtà fatta da governi che finan­ziano lo svi­luppo di pro­grammi infor­ma­tici per «spiare» le comu­ni­ca­zioni on-line. Oppure per col­pire dis­si­denti e movi­menti sociali. Alcune volte sono imprese pri­vate che hanno le com­messe sta­tali; altre volte sono uni­ver­sità pub­bli­che, come testi­mo­nia il coin­vol­gi­mento dei cen­tri di eccel­lenza infor­ma­tici di Israele nello svi­lup­pare pro­grammi per la cyber­war con­tro le orga­niz­za­zioni pale­sti­nesi. O di uni­ver­sità cinesi che lavo­rano per i ser­vizi di intel­li­gence per tenere sotto con­trollo — con risul­tati alterni, però — gli utenti della Rete.
Le tec­no­lo­gie del con­trollo sono cioè diven­tate una fac­cenda seria, che costringe a ripen­sare radi­cal­mente il cyber­spa­zio. Non più terra pro­messa di una libertà radi­cale, ma una realtà dove il panop­ti­con è un resi­duo pas­sivo di altri tempi. Inter­net infatti non è una realtà dove opera un «grande fra­tello» che tutto con­trolla, bensì è un synop­ti­con che vede mol­ti­pli­carsi sistemi di con­trollo e sor­ve­glianza tesi alla rac­colta di dati, che ven­gono ela­bo­rati, impac­chet­tati allo scopo non solo di limi­tare la libertà di espres­sione, ma anche per ven­dere «pro­fili» alle imprese che pia­ni­fi­cano le loro stra­te­gie di ven­dita. Il con­trollo e la sor­ve­glianza sono cioè parte inte­grante di una valo­riz­za­zione capi­ta­li­stica della comu­ni­ca­zione. Tutela della pri­vacy come diritto uni­ver­sale e ano­ni­mato, così come lo svi­luppo di soft­ware per «difen­dersi» da coo­kie, mal­ware e spy­ware sono, ognuno a suo modo, stru­menti indi­spen­sa­bili per svi­lup­pare stra­te­gie di resi­stenza al con­trollo sta­tale e impren­di­to­riale della Rete.



I sentimenti della crisi secondo la rivista “outlet”



Rivista. Da precarietà a risentimento, le parole chiave per una critica dell'ideologia italiana

Il titolo ha pre­ce­denti illu­stri. Il più noto è sicu­ra­mente Adam Smith con il suo clas­sico Teo­ria dei sen­ti­menti morali. Ma molti degli autori pre­senti nel nuovo numero, il sesto, della rivi­sta «Outlet», c’è da giu­rarci, pre­fe­ri­scono l’accostamento con il volume col­let­tivo sui «Sen­ti­menti dell’aldiqua. Oppor­tu­ni­smo, cini­smo e paura», che negli anni Ottanta del Nove­cento ha costi­tuito, in Ita­lia e non solo, una ripresa del pen­siero cri­tico nel pieno della con­tro­ri­vo­lu­zione libe­rale. Que­sta volta si parla, più paca­ta­mente, dei «Sen­ti­menti nella crisi» (pp. 142, euro 8), anche se l’ambizione è di for­nire gli stru­menti giu­sti per quella «cri­tica dell’ideologia ita­liana» che costi­tui­sce la mis­sion della rivi­sta. Le parole chiave scelte sono: cata­strofe, risen­ti­mento, sacri­fi­cio, mora­li­smo, paura/precarietà, odio/amore, ras­se­gna­zione, pro­messa. Sono tutte tappe per uscire dal labi­rinto di un ordine sociale e poli­tico che disprezza ogni carat­te­ri­stica sto­rica, pre­sen­tan­dosi infatti come un ordine dato in natura. Eppure le cro­na­che degli ultimi otto anni rive­lano l’esatto oppo­sto, cioè che la società neo­li­be­rale è desti­nata a lasciare il posto ad altre forme di orga­niz­za­zione sociale, isti­tu­zio­nale e eco­no­mica. Cio­no­no­stante, gli autori scom­met­tano sul fatto che il neo­li­be­ri­smo è riu­scito a met­tere in campo una mac­china pro­dut­trice di con­senso che è desti­nata a fun­zio­nare ancora a pieno regime. Il suo punto di forma è l’ambivalenza che carat­te­rizza la mani­fe­sta­zione dei sen­ti­menti scelti dal col­let­tivo reda­zio­nale di Outlet. Lo scrive nell’introduzione Andrea Colombo, lo riba­di­sce Marco Bascetta (il risen­ti­mento), lo con­ferma Angela Azzaro (mora­li­smo), lo arti­cola nelle sue forme più evi­denti (la pre­ca­rietà) Giu­liana Fer­rara. Chi però indi­vi­dua le fra­gi­lità dell’ordine neo­li­be­rale sono Monia Cap­puc­cini che parla della «ras­se­gna­zione» o Fabio Tar­zia (il sacri­fi­cio), sim­boli di un con­senso pas­sivo poco com­pa­ti­bile con il vorace e nichi­li­stico dina­mi­smo che carat­te­rizza il mer­cato; e da Emi­liano Ilardi, che ana­lizza «la pro­messa» di buona vita che il neo­li­be­ri­smo sta disat­ten­dendo in Europa, come negli Stati Uniti.
E tut­ta­via, tra ambi­va­lenze e fra­gi­lità, i sen­ti­menti della crisi con­ti­nuano a svol­gere, come indi­vi­duano a ragione tutti gli autori, una fun­zione di deter­renza rispetto al con­flitto. Un unico appunto: manca una delle parole d’ordine della crisi: l’austerità. Non è certo un sen­ti­mento, ma ha l’indubbia capa­cità per­for­ma­tiva dei com­por­ta­menti col­let­tivi. Se un punto di forza, ma anche di debo­lezza, che il neo­li­be­ri­smo ha in que­sto ini­zio mil­len­nio è pro­prio l’austerity, motore di poli­ti­che sociali e di con­trollo sociale che il capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo ha messo in campo per ripor­tare all’ordine società sem­pre sul punto della «cata­strofe» (parola ana­liz­zata da Alberto Abruz­zese).
Chiu­dono la rivi­sta le sezioni «Rica­dute», «Imma­gini», «Con­ver­sa­zioni», «Docu­menti» (il sag­gio di Paolo Virno pre­sente nel volume «Sen­ti­menti dell’aldiqua» e «Posizionamenti».


 
Il mio profilo? È in vendita
Internet. Un percorso di letture sui Social Media e sulle trappole del web. A partire dal profitto che le aziende accumulano rubando dati agli utenti in cambio di informazioni Vanni Codeluppi, 29.7.2014 il Manifesto

Le ricer­che rela­tive agli effetti sociali pro­dotti dai media hanno all’incirca un secolo di vita. Si sono dap­prima occu­pate della radio e della stampa e poi della tele­vi­sione, met­tendo chia­ra­mente in luce l’importante ruolo sociale rive­stito da tali mezzi di comu­ni­ca­zione. Hanno dimo­strato come i media tra­di­zio­nali eser­ci­tino un’influenza sui sin­goli e sulla cul­tura col­let­tiva. Ora gli studi su que­sta mate­ria comin­ciano a dedi­carsi anche agli effetti pro­dotti dall’ultimo arri­vato: il Web. Da que­sto punto di vista siamo ancora agli inizi, ma alcuni libri usciti di recente con­sen­tono di avviare una rifles­sione sul ruolo che la Rete tende ad occu­pare oggi all’interno della società con­tem­po­ra­nea.
L’elevata dif­fu­sione dei per­so­nal com­pu­ter e dell’utilizzo di Inter­net ha enor­me­mente faci­li­tato, negli ultimi anni, lo svi­luppo di pra­ti­che crea­tive ama­to­riali, per­met­tendo inol­tre di con­di­vi­dere con altri quello che si è creato. Que­ste pra­ti­che con­si­stono gene­ral­mente nel ten­ta­tivo di pren­dere qual­cosa che già esi­ste nel mer­cato e nella cul­tura sociale e di rie­la­bo­rarlo a pro­prio pia­ci­mento, rein­ter­pre­tando il frutto di un lavoro che è stato rea­liz­zato da qual­cun altro. Quindi, più che di una vera crea­ti­vità, si tratta di una atti­tu­dine «di seconda mano».
 

Le abi­lità del bricoleur
Il socio­logo fran­cese Patrice Fli­chy ha ana­liz­zato le pra­ti­che espres­sive e crea­tive nel volume La società degli ama­tori. Socio­lo­gia delle pas­sioni ordi­na­rie nell’era digi­tale (Liguori, pp. 112, euro 11,99). A suo avviso, la figura dell’amatore è sem­pre esi­stita (hobby, gio­chi, arti­gia­nato), ma attra­verso il Web è in grado di gua­da­gnarsi una note­vole visi­bi­lità. Le sue atti­vità però non sono orien­tate verso la rea­liz­za­zione di pro­dotti arti­stici ecce­zio­nali o sco­perte scien­ti­fi­che ori­gi­nali e inno­va­tive, ma sono con­cen­trate sul pia­cere di fare qual­cosa con le pro­prie mani, anzi­ché sulla ricerca di un ele­vato livello qua­li­ta­tivo del risul­tato finale.
Il sin­golo, insomma, come scrive Fli­chy, «non cerca di sosti­tuirsi all’esperto, né di agire come un pro­fes­sio­ni­sta; egli svi­luppa piut­to­sto un’abilità ordi­na­ria, acqui­sita con l’esperienza, che gli con­sente di rea­liz­zare, nel tempo libero, le atti­vità che ama e che ha scelto».
Gli indi­vi­dui che svi­lup­pano tali pra­ti­che crea­tive costi­tui­scono un signi­fi­ca­tivo gruppo sociale delle cui opi­nioni l’industria cul­tu­rale deve neces­sa­ria­mente tenere conto, ma que­sto non è che uno dei tanti stru­menti di cui le imprese attual­mente dispon­gono per met­tere a punto, in maniera migliore, i loro pro­dotti e mes­saggi rispetto alle esi­genze dei con­su­ma­tori.
Non siamo di fronte a un movi­mento sociale «sov­ver­sivo» che mira a ribal­tare i rap­porti di potere tra­di­zio­nal­mente esi­stenti tra i con­su­ma­tori e l’industria cul­tu­rale, come alcune inter­pre­ta­zioni sorte negli ultimi anni hanno cer­cato di soste­nere.
C’è un aspetto però che vale la pena sot­to­li­neare rispetto alle espe­rienze ama­to­riali: hanno una grande visi­bi­lità sociale, ma coin­vol­gono solo una mino­ranza di per­sone. È più inte­res­sante, allora, andare a vedere gli effetti sociali di un’attività pro­dut­tiva che è molto meno visi­bile, ma che viene svolta in maniera con­ti­nua­tiva da tutti gli utenti del Web. Lo svi­luppo della Rete ha fatto com­ple­ta­mente sal­tare la tra­di­zio­nale distin­zione tra tempo libero e tempo di pro­du­zione. Ha spinto, inol­tre, tutti gli indi­vi­dui a for­nire un con­tri­buto al fun­zio­na­mento sul piano eco­no­mico e azien­dale della Rete. Que­sta, infatti, dipende in gran parte dall’enorme mole di dati e infor­ma­zioni che viene elar­gita dai com­por­ta­menti indi­vi­duali e che con­sente alle imprese di pro­durre valore.
L’obiettivo è quello di incre­men­tare le infor­ma­zioni di cui è pos­si­bile disporre: in que­sto modo, diven­tano più accu­rati i pro­fili dei con­su­ma­tori. È per que­sto motivo che Goo­gle, ad esem­pio, salva nei suoi com­pu­ter i trenta miliardi di ricer­che che i suoi utenti effet­tuano ogni mese, men­tre Face­book con­ti­nua a pos­se­dere la pro­prietà di tutte le infor­ma­zioni che ven­gono pub­bli­cate dal suo miliardo di utenti.
 

Pub­bli­che esposizioni
Il con­trollo di tali infor­ma­zioni con­sente di otte­nere un signi­fi­ca­tivo potere eco­no­mico, sia impie­gando in pro­prio le infor­ma­zioni che ven­den­dole ad altre imprese. Non è un caso, dun­que, che tutte le prin­ci­pali aziende ope­ranti nel Web dichia­rino soli­ta­mente di voler per­se­guire la libertà e la tra­spa­renza, men­tre in realtà il loro scopo è di spin­gere il più pos­si­bile gli utenti a met­tere in cir­colo delle infor­ma­zioni sulla loro vita. Quello che accade è che gli utenti, senza averne una grande con­sa­pe­vo­lezza, «ven­dano la loro vita» e, di con­se­guenza, attra­verso quest’azione otten­gano il risul­tato d’incrementare i pro­fitti delle sud­dette aziende.
Tutto ciò è reso pos­si­bile dall’atteggiamento oggi pre­va­lente presso gli utenti, i quali riten­gono che la pro­pria espo­si­zione nel Web debba essere con­si­de­rata un giu­sto prezzo da pagare per avere la pos­si­bi­lità di disporre infor­ma­zioni e imma­gini rela­tive ad altre per­sone. D’altronde, sono anche con­vinti di poter sele­zio­nare tutto ciò che vogliono far cir­co­lare rispetto loro stessi. In realtà, ciò che met­tono sui social net­work diventa pub­blico, che que­sto sia nei loro desi­deri oppure no.
Una delle ragioni del grande suc­cesso che viene otte­nuto attual­mente dai social net­work risiede nel fatto che, con que­sti stru­menti, gli indi­vi­dui vivono l’illusione di poter con­ti­nuare a por­tare avanti delle atti­vità che hanno sem­pre pra­ti­cato (chiac­chie­rare con amici, scam­biarsi pet­te­go­lezzi, mostrarsi reci­pro­ca­mente foto­gra­fie delle vacanze, ecc.), ma con tec­no­lo­gie effi­cienti, avan­zate e alla moda.
In realtà, all’interno dei social net­work, que­sti com­por­ta­menti assu­mono un signi­fi­cato total­mente dif­fe­rente, per­ché non sono più liberi e ven­gono incor­po­rati all’interno di pre­cisi for­mat tec­nici, con il risul­tato che sono anche impo­ve­riti e stan­dar­diz­zati. Ma, soprat­tutto, non riman­gono più con­fi­nati all’interno di uno spa­zio ristretto e di natura pri­vata, per­ché sono tra­sfe­riti in un ter­ri­to­rio sociale molto vasto, dove ven­gono resi poten­zial­mente acces­si­bili da parte di grandi masse di persone.
 

I ten­ta­coli della Rete
Inol­tre, pro­prio per­ché tra­sfor­mate da libera forma di socia­lità a socia­lità che è obbli­gata a rispet­tare dei pre­cisi stan­dard tec­nici, le atti­vità rela­zio­nali delle per­sone pos­sono essere gestite e mani­po­late dalle imprese ope­ranti nel Web. Dun­que, ven­gono anche incor­po­rate come pre­ziose risorse per la pro­du­zione di valore da quel potente sistema eco­no­mico su cui si basa il fun­zio­na­mento di Inter­net. Come con­se­guenza, l’exploit dei social net­work sta alte­rando la natura della comu­ni­ca­zione inter­per­so­nale, la quale era rima­sta pres­so­ché immu­tata per diversi mil­lenni.
Su que­sti impor­tanti temi la let­te­ra­tura scien­ti­fica è ancora scarsa in Ita­lia e molto vasta all’estero. Riman­diamo per­tanto, per alcune indi­ca­zioni di let­tura, alla scheda a fianco, per con­cen­trarci adesso su altri aspetti che sono meri­te­voli di atten­zione. Andrea Miconi ha ten­tato la fati­cosa impresa di rac­co­gliere e sin­te­tiz­zare i risul­tati delle ricer­che sugli effetti sociali pro­dotti dal Web nel volume Teo­rie e pra­ti­che del web (Il Mulino, pp. 178, euro 13). Dalla sua ana­lisi emer­gono i risul­tati di molti studi su cui non ci sof­fer­me­remo per­ché rela­tivi a ricer­che e autori ben noti. Ma affiora anche l’idea che oggi il Web sia molto potente: ciò dipende soprat­tutto dalla per­va­si­vità di tale stru­mento, dalla sua capa­cità di entrare in pro­fon­dità nella esi­stenza quo­ti­diana delle per­sone, tanto da far sal­tare la distin­zione tra vir­tuale e reale, luo­ghi della Rete e luo­ghi fisici. Non a caso le ricer­che mostrano che — più che creare nuovi legami — il Web serve gene­ral­mente a man­te­nere in vita alcuni rap­porti sociali che sono stati già sta­bi­liti. Insomma, la Rete si con­fi­gura come una spe­cie di «spec­chio della società».
 

Una reli­gione capitalista
Anche a livello più com­ples­sivo, dun­que, in essa non pos­siamo che ritro­vare, come dimo­stra Miconi, una sorta di foto­gra­fia di quella con­di­zione di disu­gua­glianza che rap­pre­senta la norma nel sistema sociale con­tem­po­ra­neo. Quella con­di­zione cioè carat­te­riz­zata dalla con­vi­venza tra un gruppo sociale com­po­sto da poche per­sone ric­che e masse ster­mi­nate di poveri. Certo, ciò non signi­fica che il Web non possa anche essere, in alcune occa­sioni, egua­li­ta­rio e demo­cra­tico. La regola, però, è che esso è gene­ral­mente orien­tato a pro­durre dispa­rità nelle con­di­zioni sociali. D’altronde, quello che abbiamo di fronte oggi è pur sem­pre un sistema capi­ta­li­stico, il quale, come è noto, ha nella disu­gua­glianza la sua carat­te­ri­stica pri­ma­ria. Il Web si intrec­cia sem­pli­ce­mente con tale sistema, raf­for­zan­dolo e poten­zian­dolo.
Sap­piamo da tempo gra­zie agli studi sto­rici e socio­lo­gici, a comin­ciare da quelli ben noti di Max Weber, che la reli­gione pro­te­stante ha avuto un ruolo cen­trale nello svi­luppo del sistema capi­ta­li­stico. Non è sor­pren­dente, per­ciò, che oggi ci sia chi tenti di sta­bi­lire un legame tra il mondo del Web e quello reli­gioso. È il caso del filo­sofo Anto­nio Guer­rieri, il quale, nel volume Apple come espe­rienza reli­giosa (Mime­sis, pp. 96, euro, 4,90), sostiene che la figura dell’imprenditore Steve Jobs e tutti quei feno­meni di acceso entu­sia­smo o vera e pro­pria devo­zione che alcuni utenti di Apple hanno mani­fe­stato verso tale logo, pos­sano essere rac­chiusi all’interno dell’etichetta «espe­rienza reli­giosa». Secondo Guer­rieri, non è cor­retto sco­mo­dare, in que­sto caso, con­cetti come chiesa, sacro, culto o reli­gione, che sono stati invece impie­gati da altri stu­diosi. È pos­si­bile però sta­bi­lire una pre­cisa con­nes­sione tra i feno­meni che riguar­dano Apple e una forma di reli­gio­sità debole.
Se poi si vuole defi­nire quel legame un po’ par­ti­co­lare di dot­trina reli­giosa, è neces­sa­rio guar­dare al mondo orien­tale. Guer­rieri, infatti, sot­to­li­nea la note­vole impor­tanza che la spi­ri­tua­lità e l’estetica Zen hanno avuto in pas­sato nella con­ce­zione dei pro­dotti Apple. Per­ché il design mini­ma­li­sta di tali pro­dotti ha mirato costan­te­mente a quella essen­zia­lità e a quella purezza che sono pro­prie di quella cul­tura. E ciò, appunto, spiega il grande suc­cesso otte­nuto da Apple sul mer­cato, almeno sino a quando a gui­darla è stato il suo fon­da­tore Jobs, devoto cul­tore di tutto ciò che affe­ri­sce all’universo Zen.



Byung-Chul Han, l’intimità messa in piazza
Saggi. «La società della trasparenza» di Byung-Chul Han per Nottetempo. Un testo che coglie forti tendenze presenti nella realtà contemporanea. Ma che riduce la critica a un reiterato aforisma sulla mercificazione 
Vanni Codeluppi, 17.7.2014  il Manifesto

La socio­lo­gia sta attra­ver­sando da alcuni decenni una fase di crisi iden­ti­ta­ria. E tale crisi con­sente alle altre disci­pline sociali d’invadere quello spe­ci­fico ter­ri­to­rio che essa si era rita­gliata nel corso dell’Ottocento e del Nove­cento. Cioè di occu­parsi di quello che costi­tuiva il suo oggetto d’analisi pri­vi­le­giato: la società. Lo fanno gli antro­po­logi. Da que­sto punto di vista il lavoro di Marc Augé è esem­plare, così come lo è quello di Duc­cio Cane­strini. Da quando però è nato il filone della cosid­detta «filo­so­fia pop», sono soprat­tutto i filo­sofi ad occu­parsi del sociale. È il caso, ad esem­pio, del filo­sofo tede­sco di ori­gine coreana Byung-Chul Han, di cui è stato tra­dotto in ita­liano il volume La società della tra­spa­renza (Not­te­tempo, pp. 94, euro 11), che segue ideal­mente il pre­ce­dente La società della stan­chezza, uscito in Ita­lia nel 2012. In que­sto nuovo testo, l’autore si con­cen­tra su un aspetto para­dos­sale del sociale con­tem­po­ra­neo: l’ossessione per la tra­spa­renza a tutti i costi, che pro­mette una mag­giore libertà per­so­nale, ma deter­mina invece la nascita di nuove forme di potere. L’individuo, infatti, si trova a vivere all’interno di uno spa­zio pri­vato che non rie­sce più a con­trol­lare ed è som­merso dall’enorme quan­tità di dati e infor­ma­zioni che la tra­spa­renza ine­vi­ta­bil­mente genera.
In entrambi i volumi, Byung-Chul Han è for­te­mente influen­zato da pen­sa­tori radi­cali fran­cesi come Jean Bau­dril­lard e Michel Fou­cault. Il primo è pro­ba­bil­mente l’autore che ne La società della tra­spa­renza viene citato il mag­gior numero di volte.
C’è però un pen­sa­tore fran­cese che non viene espli­ci­ta­mente citato, ma che eser­cita un’influenza deci­siva sulle rifles­sioni di Byung-Chul Han: Guy­De­bord. Dell’autore de La società dello spet­ta­colo viene infatti ripreso sia lo stile di scrit­tura afo­ri­stico, che il tono for­te­mente cri­tico e radi­cale. E qui sta il prin­ci­pale pro­blema che l’analisi del filo­sofo tede­sco com­porta. L’operazione di Debord aveva infatti un senso negli anni Ses­santa, per­ché La società dello spet­ta­colosi pre­sen­tava come una spe­cie di mani­fe­sto di riven­di­ca­zione per le lotte gio­va­nili di con­te­sta­zione e così in effetti ha fun­zio­nato, a comin­ciare dalle lotte pari­gine del mag­gio 1968. Ma oggi non sem­bra esserci un con­te­sto sociale ade­guato a rece­pire un libro-manifesto di que­sto tipo.
Da un volume che ha come titolo La società della tra­spa­renza ci si dovrebbe aspet­tare oggi un’analisi di come fun­ziona una delle carat­te­ri­sti­che più impor­tanti delle società con­tem­po­ra­nee: la tra­spa­renza. Ed è pro­prio da que­sto punto di vista che il volume di Byung-Chul Han pre­senta i mag­giori pro­blemi. Per­ché quello che afferma nelle pagine il filo­sofo tede­sco può essere con­di­viso, ma rimane appunto al livello dell’affermazione afo­ri­stica. Non si può infatti non essere d’accordo con lui quando scrive, ad esem­pio, che «La tra­spa­renza è una coer­ci­zione siste­mica che coin­volge tutti i pro­cessi sociali e li sot­to­pone a una pro­fonda muta­zione». Un’analisi che voglia essere rigo­rosa non dovrebbe fer­marsi qui e dovrebbe mirare invece ad otte­nere un mag­gior livello di appro­fon­di­mento. Dovrebbe cer­care cioè di spie­gare per­ché la tra­spa­renza sia oggi fon­da­men­tale dal punto di vista eco­no­mico e strut­tu­rale. Per­ché dun­que operi come un impor­tante stru­mento di pro­du­zione per l’attuale assetto del sistema capi­ta­li­stico.
Le parti più inno­va­tive del volume sono quelle nelle quali Byung-Chul Han cerca di legare il tema della tra­spa­renza alla rivo­lu­zione digi­tale in corso e in par­ti­co­lare al fon­da­men­tale ruolo che viene eser­ci­tato dai social net­work. La sua idea è che i social media e i motori di ricerca, adot­tando l’ideologia della tra­spa­renza, creino uno spa­zio intimo e con­di­viso dal quale ven­gono bru­tal­mente espulsi il pub­blico e l’esterno. A ben vedere, però, tale opi­nione non è molto lon­tana da quello che Richard Sen­nett por­tava avanti già alla fine degli anni Set­tanta e cioè che nelle società occi­den­tali l’uomo pub­blico stava lasciando il posto all’uomo dell’intimità. Come d’altronde hanno più volte affer­mato negli ultimi anni anche diversi stu­diosi del Web, a comin­ciare da Eli Pari­ser, che ha pre­sen­tato le sue rifles­sioni in pro­po­sito nel volume Il Fil­tro.
Ma il pro­blema che l’analisi di Byung-Chul Han soprat­tutto pre­senta è che muove da una visione for­te­mente nega­tiva del sistema sociale. Una visione simile a quella pro­po­sta a suo tempo da Debord, e dun­que radi­cale e priva di spe­ranze per il futuro. È invece cor­retto rite­nere che l’attuale «società tra­spa­rente», nono­stante gli evi­denti limiti che pre­senta, possa con­sen­tire anche la nascita di nuove pos­si­bi­lità per gli esseri umani e di spinte sociali orien­tate verso l’emancipazione. E che dun­que sia pos­si­bile ana­liz­zarla facendo ricorso ad una pro­spet­tiva mag­gior­mente dialettica.

 

La Rete si è mobilitata dopo la decisione di Facebook. Siamo tornati al solito anatema contro i «persuasori occulti»
Gli indignati della privacyI giganti del web accusati di modificare gli algoritmi per influenzare emozioni e bisogni degli utenti. Sciocchezze: tutto è manipolazione, anche l’amore
Battista La Lettura

Nessun commento: