Evgeny Morozov, 30.8.2014 il Manifesto
Nel bagno connesso, lo spazzolino da denti interattivo lanciato quest’anno dalla società Oral-B (filiale del gruppo Procter&Gamble) è una star: interagisce senza fili con il nostro cellulare mentre, sullo schermo, un’applicazione segue secondo per secondo le fasi della pulizia dei denti e indica gli angoli della cavità orale che meriterebbero maggiore attenzione. Abbiamo strofinato con sufficiente vigore, passato il filo interdentale, raschiato la lingua, risciacquato il tutto?
Ma c’è di meglio.
Come spiega con fierezza il sito che gli è dedicato, lo spazzolinoconnesso trasforma il gesto di spazzolare i denti in un insieme di dati che si possono rendere in forma di grafico o comunicare ai professionisti del settore. Che sarà di questi dati, è ancora oggetto di dibattito: ne manterremo l’uso esclusivo? O saranno catturati dai dentisti professionisti e perfino venduti a compagnie di assicurazione? Si aggiungeranno alla montagnadi informazioni già disponibili nel granaio di Facebook e Google?
L’improvvisa presa di coscienza che i dati personali registrati dal più banale degli elettrodomestici dallo spazzolino elettrico al frigorifero potrebbero trasformarsi in oro ha sollevato critiche alla logica portata avanti dai mastodonti della Silicon Valley.
Queste imprese raccolgono su grande scala le tracce lasciate dagli internauti sui siti che frequentano, le sistemano e le rivendono a inserzionisti o ad altre società. Così guadagnano miliardi di dollari, mentre i fruitori noi ottengono solamente alcuni servizi gratuiti. Da questa constatazione nasce una critica bizzarra, dai connotati populisti: contestiamo questi monopoli, si sostiene, e sostituiamoli con una moltitudine di piccoli imprenditori. Ognuno di noi, insomma, potrebbe costituire il proprio portafoglio di dati e trarre vantaggi dalla sua commercializzazione,vendendo ad esempio i dati sulla spazzolatura dei denti a un produttore di dentifrici e il proprio genoma a un laboratorio farmaceutico, o rivelando la propria ubicazione in cambio di uno sconto al ristorante all’angolo.Voci autorevoli, come quella del saggista e imprenditore JaronLanier o del ricercatore e informatico Alex Sandy Pentland, decantano questo nuovo modello.
Ci viene promesso un mondo nel quale la protezione della vita privata sarebbe comunque garantita: se si considerano i dati come una proprietà privata, allora un solido arsenale giuridico e tecnologie adeguate possono assicurare che nessun soggetto terzo li trafughi. Al tempo stesso si fa balenare ai nostri occhi anche un futuro di prosperità. Grazie a quale miracolo? Quello dell’internet degli oggetti, cioè la proliferazione di apparecchi grazie ai quali i nostri più piccoli atti e gesti saranno censiti, analizzati e…monetizzati.Da qualche parte c’è qualcuno disposto a pagare per conoscere il motivo che cantiamo sotto la doccia. Se non si è ancora manifestato, è solo perché nel nostro bagno non ci sono microfoni collegati a internet.
È chiaro. Se Google riempie la nostra casa di graziosi sensori intelligenti fabbricati dalla sua filiale Nest, sarà Google e non noi a guadagnare denaro quando canticchiamo. La strategia di questo gigante consiste nell’aggregare dati provenienti da una quantità di fonti (autovetture senza conducente, occhiali collegati, posta elettronica) e a far dipendere l’efficacia del sistema dalla sua ubiquità: per trarne il massimo vantaggio, dovremmo permettere ai suoi servizi di arrivare, come il gas, a tutti gli angoli della nostra vita quotidiana.
L’enormità del serbatoio di dati in tal modo costituito lo protegge da qualunque concorrenza; le imprese di minore dimensione l’hanno capito benissimo. Non rimane loro che una scelta: rispondere all’appello di Pentland e Lanier, e contrattaccare Google esigendo che i dati appartengano by default agli utilizzatori, o almeno che questi siano i destinatari di una parte dei benefici.
Queste due strategie apparentemente divergenti attingono alla stessa sorgente ideologica, della quale rappresentano due varianti intellettuali. Come spiega il sociologo britannico William Davies, la visione proposta da Pentland e Lanier si ricollega ala traduzione ordoliberista tedesca, che eleva la concorrenza al rango di imperativo morale e considera dunque pericoloso qualunque monopolio.
Meno ossessionato dalla morale che dall’efficacia economica e dall’interesse del consumatore, l’approccio di Google, dal canto suo, è riconducibile all’ideologia neoliberista statunitense incarnata dalla scuola di Chicago: i monopoli non sono nocivi di per sé; alcuni possono anche giocare un ruolo positivo. Malgrado le sue pretese di innovazione e sovvertimento dell’ordine costituito, il dibattito contemporaneo sulla tecnologia rimane dunque incanalato in un alveo familiare: l’informazione, considerata una merce, si integra benissimo nel paradigma liberista.
Per concepire l’informazione in altro modo occorrerebbe, per cominciare, sottrarla alla sfera economica. Magari considerandola come bene comune, concetto caro a una certa sinistra radicale. Ma sarebbe molto utile domandarsi intanto perché si accetta come un dato di fatto la mercificazione dell’informazione. La risposta risiede nel ruolo che la fase storica attuale assegna alla tecnologia: un deus ex machina creatore di lavoro, che deve stimolare l’economia e colmare i deficit di bilancio provocati dall’evasione fiscale di ricchi e multinazionali. In questo contesto, non considerare l’informazione come una merce equivarrebbe per i politici a bucare il loro stesso salvagente.
Ritorno al XIX secolo
Anche i più acuti osservatori della crisi finanziaria sottovalutano il peso di questa fede nell’onnipotenza della tecnologia.
Così, il sociologo tedesco Wolfgang Streeck spiega che all’inizio degli anni 1970, con la comparsa dei primi segni di crollo del modello sociale nato dal compromesso del dopoguerra, i dirigenti occidentali applicarono tre strategie per guadagnare tempo e mantenere lo statu quo: l’inflazione, l’indebitamento degli Stati e, infine, un tacito incoraggiamento all’indebitamento dei cittadini, ai quali il settore privati vende prestiti immobiliari e crediti al consumo. Nell’elenco di questi strumenti destinati a ritardare l’inevitabile, Streeck non indica le tecnologie informatiche.
Queste ultime creerebbero al tempo stesso ricchezza e posti di lavoro a condizione che tutti si trasformino in imprenditori e imparino a programmare per scrivere delle applicazioni. Fra i primi, il governo britannico ha concretizzato questo potenziale su scala nazionale tentando di vendere i dati dei malati alle compagnie di assicurazione (finché un’ondata di protesta popolare non ha archiviato l’iniziativa), o i dati personali di studenti a operatori della telefonia mobili e a venditori di bevande energetiche. Un recente rapporto, parzialmente finanziato da Vodafone, sostiene che si potrebbero creare 16,5 miliardi di sterline (21 miliardi di euro) aiutando i consumatori a gestire, cioè a vendere, i loro dati personali. Lo Stato si limiterebbe a definire un quadro legale per gli intermediari preposti alle transazioni tra consumatori e fornitori di servizi.
Mentre gli Stati si sforzano di guadagnare tempo dall’alto, le start-up della Silicon Valley propongono soluzioni per guadagnare tempo dal basso. Hanno una fede totale in servizi come Uber (privati che usano la propria automobile come taxi) e Airbnb (e i loro appartamenti in hotel), in grado di trasformare antiquati beni analogici in fonte di profitti digitali e moderni.
Obiettivo: assicurare un reddito complementare al loro proprietario. Come spiega Brian Chesky, presidente e direttore generale di Airbnb, la disoccupazione le disuguaglianze hanno raggiunto i livelli più elevati, ma siamo seduti su una miniera d’oro (…). Abbiamo imparato a creare i nostri contenuti, ma ormai possiamo tutti creare il nostro lavoro e, perché no, un nostro settore di attività.
Fedele alle sue abitudini, la Silicon Valley riprende qui la retorica comunitaria della controcultura per presentare Uber e Airbnb come i pilastri della nuova economia della condivisione, utopistico orizzonte, sognato dagli anarchici quanto dai libertariani, nel quale gli individui tratteranno direttamente gli uni con gli altri eliminando gli intermediari. Più prosaicamente, si tratta di sostituire intermediari analogici, come le compagnie di taxi, con intermediari digitali, come Uber, impresa finanziata dai noti anarchici di Goldman Sachs.
Poiché il settore alberghiero quanto quello dei taxi è universalmente detestato, il dibattito pubblico è rapidamente sfociato nell’immagine di audaci precursori che spazzano via deirentiersbolsi e privi di immaginazione. Questa presentazione così poco obiettiva maschera un fatto essenziale: i coraggiosi campioni dell’economia della condivisione si muovono in un universo mentale tipico del XIX secolo. Nel loro sistema il lavoratore, radicalmente individualizzato, gode di una protezione sociale solo simbolica; si assume rischi che in precedenza erano dei datori di lavoro; le sue possibilità di contrattazione collettiva sono ridotte a zero.
I difensori di questo nuovo modello giustificano una simile precarietà con argomenti degni del teorico liberista Friedrich Hayek. I meccanismi autoregolatori (è il mercato a decretare la qualità dell’autista o dell’ospite) sono più efficaci delle leggi, dunque tanto vale sbarazzarsi di queste ultime. Quando avremo costruito sistemi davvero in grado di auto-correggersi, assicura il noto investitori in capitali di rischio Fred Wilson, non avremo più bisogno di meccanismi regolatori.
A questo scopo basta saturare la società di meccanismi retroattivi, cioè valutazioni qualitative fornite continuamente dagli attori del mercato: i pareri e i commenti degli utilizzatori. La digitalizzazione della vita quotidiana unita all’avidità prodotta dalla finanziarizzazione fa presagire la trasformazione di tutto il genoma come la camera da letto in bene produttivo. Esther Dyson, pioniera della genomica personalizzata, azionista principale della società 23andMe, paragona la sua società a un distributore automatico che vi permette di accedere alle ricchezze nascoste nei vostri geni.
Ecco dunque il futuro che ci promette la Silicon Valley: un numero sufficiente di sensori collegati a internet cambierà le nostre vite in distributori automatici giganti.
Presto o tardi, i refrattari alla salvezza prospettata dall’economia della condivisione saranno percepiti come sabotatori dell’economia, e la non diffusione di dati sarà vista come uno spreco ingiustificabile di risorse suscettibili di contribuire alla crescita. Non condividere diventerà biasimevole quanto non lavorare, risparmiare, ripagare i propri debiti; il giudizio morale passerà la vernice della legittimità su questa forma di sfruttamento.
Non può affatto sorprendere che categorie sociali schiacciate dal fardello dell’austerità inizino a convertire la cucina di casa in ristorante, l’automobile in taxi e i dati personali in attivi finanziari. Che altro possono fare? Ma per la Silicon Valley, stiamo assistendo al trionfo dello spirito d’impresa, grazie allo sviluppo spontaneo di una tecnologia separata da ogni contesto storico, e soprattutto dalla crisi finanziaria. In realtà, questo desiderio d’impresa è gioioso quanto quello dei disperati di tutto il mondo che, per pagarsi l’affitto, arrivano a prostituirsi o a vendere gli organi.
A volte gli Stati tentano di frenare queste derive, ma poi devono risanare i bilanci. E allora, tanto vale lasciare che Uber e Airbnb sfruttino la miniera d’oro come meglio credono. Questoatteggiamento conciliante ha il doppio vantaggio di aumentare le entrate fiscali e aiutare i comuni cittadini ad arrivare alla fine del mese.
Una critica ridotta a lamentela
Ma l’economia della condivisione non sostituirà quella del debito: al contrario, il loro destino è la coesistenza. L’onnipresenza dei dati, unita alla crescente efficacia degli strumenti di analisi, permetterà alle banche di vendere credito anche a una clientela ritenuta fino a oggi insolvibile ovviamente previa un’attenta scrematura digitale dei cattivi elementi. In questo modo, start-up come Zest-Finance stanno già aiutando le banche a filtrare le richieste di prestiti on-line sulla base di 60.000 criteri, fra i quali il modo di pigiare i tasti del computer o di usare il telefono.
In Colombia, la giovane società di prestiti Lenddo condiziona l’emissione di carte di credito al comportamento dei candidati sui social network: ognuno dei loro clic entra in una linea di conto. Un’evidenza che non sfugge a Douglas Merrill, cofondatore di ZestFinance, che in home pagespiega a chiare lettere: Tutti i dati personali sono pertinenti in termini di credito. E allora, la nostra stessa vita, integralmente osservata dai sensori che ci circondano, può iniziare a battere al ritmo del debito.
Gli idioti utili della Silicon Valley risponderanno che stanno salvando il mondo. Se i poveri chiedono di indebitarsi, perché non accontentarli? Gli spiriti visionari non sono sfiorati dal dubbio che questo bisogno di credito possa dipendere dall’aumento della disoccupazione, dalla riduzione delle spese sociali e dal crollo dei salari reali. Né riflettono sul fatto che altre politiche economiche potrebbero invertire queste tendenze, e rendere inutili questi meravigliosi strumenti digitali che consentono di vendere sempre più debito. Il loro unico compito e la loro unica fonte di reddito è creare strumenti per risolvere i problemi così come essi si presentano giorno per giorno, non sviluppare un’analisi politica ed economica suscettibile di riformulare gli stessi problemi per affrontarne le cause.
In ciò la Silicon Valley è simile a tutte le altre industrie: a meno che non possano trarne profitto, le imprese non vogliono un cambiamento sociale radicale. Ma Google, Uber o Airbnbdispongono di un repertorio retorico molto più ampio rispetto a JP Morgan o Goldman Sachs. Se ci viene voglia di criticare le banche, passiamo per avversari del capitalismo e di Wall Street, contrari al suo salvataggio da parte dei contribuenti: un punto di vista ormai così banale da far sbadigliare.
Invece, criticare la Silicon Valley, significa essere ritenuti deitecnofobi, stupidoni nostalgici dei bei tempi andati prima dell’iPhone. Allo stesso modo, qualunque critica politica ed economica formulata contro il settore delle tecnologie informatiche e i suoi legami con l’ideologia neoliberista è subito considerata una critica culturale alla modernità. E il suo autore è dipinto come nemico del progresso, desideroso di raggiungere Martin Heidegger nella Foresta nera per guardare tristemente il cemento senz’anima delle dighe idroelettriche.
Da questo punto di vista, le continue lamentele sul declino della cultura prodotto da Twitter e dai libri elettronici hanno giocato un ruolo nefasto. All’inizio del XX secolo, il filosofo Walter Benjamin e il sociologo Siegfried Kracauer consideravano i problemi posti dai nuovi media attraverso un prisma socioeconomico.
Oggi, bisogna accontentarsi delle riflessioni di un Nicholas Carr, ossessionato dalle neuroscienze, o di un Douglas Rushkoff, con la sua critica bio-fisiologica dell’accelerazione. Indipendentemente dalla maggiore o minore pertinenza dei loro contributi, la loro modalità di analisi finisce per separare la tecnologia dall’economia. E così ci si ritrova a discutere di come uno schermo di iPad condizioni i processi cognitivi del cervello, invece di comprendere come i dati raccolti dagli iPad influenzino le misure di austerità dei governi.
Copyright Le monde Diplomatique/il manifesto Traduzione di Marinella Correggia
Il business della libertà di parola
Internet. La rete messa sotto controllo dagli stati nazionali e imprese globali. Per reprimere i movimenti sociali, ma anche per fare profitti Benedetto Vecchi, 27.8.2014
È storia antica, quella dei virus debitamente sviluppati per poi presentare sul mercato programmi informatici sviluppati per difendersi da essi. Ma ormai la Rete è un mercato maturo, non tollera più i giochetti artigianali di piccole imprese che funzionano così. Su Internet le tecnologie della sorveglianza e del controllo sono infatti diventate un settore in forte espansione, che vede come committenti stati nazionali e imprese globali. Sono cioè parte integrante del complesso digitale-militare che consente tassi di sviluppo ancora al di sopra della soglia di sicurezza per l’informatica. Senza di esso, il termini più usato per indicare l’high-tech sarebbe crisi.
È stata la vicenda del Datagate a svelare definitivamente una realtà fatta da governi che finanziano lo sviluppo di programmi informatici per «spiare» le comunicazioni on-line. Oppure per colpire dissidenti e movimenti sociali. Alcune volte sono imprese private che hanno le commesse statali; altre volte sono università pubbliche, come testimonia il coinvolgimento dei centri di eccellenza informatici di Israele nello sviluppare programmi per la cyberwar contro le organizzazioni palestinesi. O di università cinesi che lavorano per i servizi di intelligence per tenere sotto controllo — con risultati alterni, però — gli utenti della Rete.
Le tecnologie del controllo sono cioè diventate una faccenda seria, che costringe a ripensare radicalmente il cyberspazio. Non più terra promessa di una libertà radicale, ma una realtà dove il panopticon è un residuo passivo di altri tempi. Internet infatti non è una realtà dove opera un «grande fratello» che tutto controlla, bensì è un synopticon che vede moltiplicarsi sistemi di controllo e sorveglianza tesi alla raccolta di dati, che vengono elaborati, impacchettati allo scopo non solo di limitare la libertà di espressione, ma anche per vendere «profili» alle imprese che pianificano le loro strategie di vendita. Il controllo e la sorveglianza sono cioè parte integrante di una valorizzazione capitalistica della comunicazione. Tutela della privacy come diritto universale e anonimato, così come lo sviluppo di software per «difendersi» da cookie, malware e spyware sono, ognuno a suo modo, strumenti indispensabili per sviluppare strategie di resistenza al controllo statale e imprenditoriale della Rete.
I sentimenti della crisi secondo la rivista “outlet”
Il titolo ha precedenti illustri. Il più noto è sicuramente Adam Smith con il suo classico Teoria dei sentimenti morali. Ma molti degli autori presenti nel nuovo numero, il sesto, della rivista «Outlet», c’è da giurarci, preferiscono l’accostamento con il volume collettivo sui «Sentimenti dell’aldiqua. Opportunismo, cinismo e paura», che negli anni Ottanta del Novecento ha costituito, in Italia e non solo, una ripresa del pensiero critico nel pieno della controrivoluzione liberale. Questa volta si parla, più pacatamente, dei «Sentimenti nella crisi» (pp. 142, euro 8), anche se l’ambizione è di fornire gli strumenti giusti per quella «critica dell’ideologia italiana» che costituisce la mission della rivista. Le parole chiave scelte sono: catastrofe, risentimento, sacrificio, moralismo, paura/precarietà, odio/amore, rassegnazione, promessa. Sono tutte tappe per uscire dal labirinto di un ordine sociale e politico che disprezza ogni caratteristica storica, presentandosi infatti come un ordine dato in natura. Eppure le cronache degli ultimi otto anni rivelano l’esatto opposto, cioè che la società neoliberale è destinata a lasciare il posto ad altre forme di organizzazione sociale, istituzionale e economica. Ciononostante, gli autori scommettano sul fatto che il neoliberismo è riuscito a mettere in campo una macchina produttrice di consenso che è destinata a funzionare ancora a pieno regime. Il suo punto di forma è l’ambivalenza che caratterizza la manifestazione dei sentimenti scelti dal collettivo redazionale di Outlet. Lo scrive nell’introduzione Andrea Colombo, lo ribadisce Marco Bascetta (il risentimento), lo conferma Angela Azzaro (moralismo), lo articola nelle sue forme più evidenti (la precarietà) Giuliana Ferrara. Chi però individua le fragilità dell’ordine neoliberale sono Monia Cappuccini che parla della «rassegnazione» o Fabio Tarzia (il sacrificio), simboli di un consenso passivo poco compatibile con il vorace e nichilistico dinamismo che caratterizza il mercato; e da Emiliano Ilardi, che analizza «la promessa» di buona vita che il neoliberismo sta disattendendo in Europa, come negli Stati Uniti.
E tuttavia, tra ambivalenze e fragilità, i sentimenti della crisi continuano a svolgere, come individuano a ragione tutti gli autori, una funzione di deterrenza rispetto al conflitto. Un unico appunto: manca una delle parole d’ordine della crisi: l’austerità. Non è certo un sentimento, ma ha l’indubbia capacità performativa dei comportamenti collettivi. Se un punto di forza, ma anche di debolezza, che il neoliberismo ha in questo inizio millennio è proprio l’austerity, motore di politiche sociali e di controllo sociale che il capitalismo contemporaneo ha messo in campo per riportare all’ordine società sempre sul punto della «catastrofe» (parola analizzata da Alberto Abruzzese).
Chiudono la rivista le sezioni «Ricadute», «Immagini», «Conversazioni», «Documenti» (il saggio di Paolo Virno presente nel volume «Sentimenti dell’aldiqua» e «Posizionamenti».
Il mio profilo? È in vendita
Internet. Un percorso di letture sui Social Media e sulle trappole del web. A partire dal profitto che le aziende accumulano rubando dati agli utenti in cambio di informazioni Vanni Codeluppi, 29.7.2014 il Manifesto
Le ricerche relative agli effetti sociali prodotti dai media hanno all’incirca un secolo di vita. Si sono dapprima occupate della radio e della stampa e poi della televisione, mettendo chiaramente in luce l’importante ruolo sociale rivestito da tali mezzi di comunicazione. Hanno dimostrato come i media tradizionali esercitino un’influenza sui singoli e sulla cultura collettiva. Ora gli studi su questa materia cominciano a dedicarsi anche agli effetti prodotti dall’ultimo arrivato: il Web. Da questo punto di vista siamo ancora agli inizi, ma alcuni libri usciti di recente consentono di avviare una riflessione sul ruolo che la Rete tende ad occupare oggi all’interno della società contemporanea.
L’elevata diffusione dei personal computer e dell’utilizzo di Internet ha enormemente facilitato, negli ultimi anni, lo sviluppo di pratiche creative amatoriali, permettendo inoltre di condividere con altri quello che si è creato. Queste pratiche consistono generalmente nel tentativo di prendere qualcosa che già esiste nel mercato e nella cultura sociale e di rielaborarlo a proprio piacimento, reinterpretando il frutto di un lavoro che è stato realizzato da qualcun altro. Quindi, più che di una vera creatività, si tratta di una attitudine «di seconda mano».
Le abilità del bricoleur
Il sociologo francese Patrice Flichy ha analizzato le pratiche espressive e creative nel volume La società degli amatori. Sociologia delle passioni ordinarie nell’era digitale (Liguori, pp. 112, euro 11,99). A suo avviso, la figura dell’amatore è sempre esistita (hobby, giochi, artigianato), ma attraverso il Web è in grado di guadagnarsi una notevole visibilità. Le sue attività però non sono orientate verso la realizzazione di prodotti artistici eccezionali o scoperte scientifiche originali e innovative, ma sono concentrate sul piacere di fare qualcosa con le proprie mani, anziché sulla ricerca di un elevato livello qualitativo del risultato finale.
Il singolo, insomma, come scrive Flichy, «non cerca di sostituirsi all’esperto, né di agire come un professionista; egli sviluppa piuttosto un’abilità ordinaria, acquisita con l’esperienza, che gli consente di realizzare, nel tempo libero, le attività che ama e che ha scelto».
Gli individui che sviluppano tali pratiche creative costituiscono un significativo gruppo sociale delle cui opinioni l’industria culturale deve necessariamente tenere conto, ma questo non è che uno dei tanti strumenti di cui le imprese attualmente dispongono per mettere a punto, in maniera migliore, i loro prodotti e messaggi rispetto alle esigenze dei consumatori.
Non siamo di fronte a un movimento sociale «sovversivo» che mira a ribaltare i rapporti di potere tradizionalmente esistenti tra i consumatori e l’industria culturale, come alcune interpretazioni sorte negli ultimi anni hanno cercato di sostenere.
C’è un aspetto però che vale la pena sottolineare rispetto alle esperienze amatoriali: hanno una grande visibilità sociale, ma coinvolgono solo una minoranza di persone. È più interessante, allora, andare a vedere gli effetti sociali di un’attività produttiva che è molto meno visibile, ma che viene svolta in maniera continuativa da tutti gli utenti del Web. Lo sviluppo della Rete ha fatto completamente saltare la tradizionale distinzione tra tempo libero e tempo di produzione. Ha spinto, inoltre, tutti gli individui a fornire un contributo al funzionamento sul piano economico e aziendale della Rete. Questa, infatti, dipende in gran parte dall’enorme mole di dati e informazioni che viene elargita dai comportamenti individuali e che consente alle imprese di produrre valore.
L’obiettivo è quello di incrementare le informazioni di cui è possibile disporre: in questo modo, diventano più accurati i profili dei consumatori. È per questo motivo che Google, ad esempio, salva nei suoi computer i trenta miliardi di ricerche che i suoi utenti effettuano ogni mese, mentre Facebook continua a possedere la proprietà di tutte le informazioni che vengono pubblicate dal suo miliardo di utenti.
Pubbliche esposizioni
Il controllo di tali informazioni consente di ottenere un significativo potere economico, sia impiegando in proprio le informazioni che vendendole ad altre imprese. Non è un caso, dunque, che tutte le principali aziende operanti nel Web dichiarino solitamente di voler perseguire la libertà e la trasparenza, mentre in realtà il loro scopo è di spingere il più possibile gli utenti a mettere in circolo delle informazioni sulla loro vita. Quello che accade è che gli utenti, senza averne una grande consapevolezza, «vendano la loro vita» e, di conseguenza, attraverso quest’azione ottengano il risultato d’incrementare i profitti delle suddette aziende.
Tutto ciò è reso possibile dall’atteggiamento oggi prevalente presso gli utenti, i quali ritengono che la propria esposizione nel Web debba essere considerata un giusto prezzo da pagare per avere la possibilità di disporre informazioni e immagini relative ad altre persone. D’altronde, sono anche convinti di poter selezionare tutto ciò che vogliono far circolare rispetto loro stessi. In realtà, ciò che mettono sui social network diventa pubblico, che questo sia nei loro desideri oppure no.
Una delle ragioni del grande successo che viene ottenuto attualmente dai social network risiede nel fatto che, con questi strumenti, gli individui vivono l’illusione di poter continuare a portare avanti delle attività che hanno sempre praticato (chiacchierare con amici, scambiarsi pettegolezzi, mostrarsi reciprocamente fotografie delle vacanze, ecc.), ma con tecnologie efficienti, avanzate e alla moda.
In realtà, all’interno dei social network, questi comportamenti assumono un significato totalmente differente, perché non sono più liberi e vengono incorporati all’interno di precisi format tecnici, con il risultato che sono anche impoveriti e standardizzati. Ma, soprattutto, non rimangono più confinati all’interno di uno spazio ristretto e di natura privata, perché sono trasferiti in un territorio sociale molto vasto, dove vengono resi potenzialmente accessibili da parte di grandi masse di persone.
I tentacoli della Rete
Inoltre, proprio perché trasformate da libera forma di socialità a socialità che è obbligata a rispettare dei precisi standard tecnici, le attività relazionali delle persone possono essere gestite e manipolate dalle imprese operanti nel Web. Dunque, vengono anche incorporate come preziose risorse per la produzione di valore da quel potente sistema economico su cui si basa il funzionamento di Internet. Come conseguenza, l’exploit dei social network sta alterando la natura della comunicazione interpersonale, la quale era rimasta pressoché immutata per diversi millenni.
Su questi importanti temi la letteratura scientifica è ancora scarsa in Italia e molto vasta all’estero. Rimandiamo pertanto, per alcune indicazioni di lettura, alla scheda a fianco, per concentrarci adesso su altri aspetti che sono meritevoli di attenzione. Andrea Miconi ha tentato la faticosa impresa di raccogliere e sintetizzare i risultati delle ricerche sugli effetti sociali prodotti dal Web nel volume Teorie e pratiche del web (Il Mulino, pp. 178, euro 13). Dalla sua analisi emergono i risultati di molti studi su cui non ci soffermeremo perché relativi a ricerche e autori ben noti. Ma affiora anche l’idea che oggi il Web sia molto potente: ciò dipende soprattutto dalla pervasività di tale strumento, dalla sua capacità di entrare in profondità nella esistenza quotidiana delle persone, tanto da far saltare la distinzione tra virtuale e reale, luoghi della Rete e luoghi fisici. Non a caso le ricerche mostrano che — più che creare nuovi legami — il Web serve generalmente a mantenere in vita alcuni rapporti sociali che sono stati già stabiliti. Insomma, la Rete si configura come una specie di «specchio della società».
Una religione capitalista
Anche a livello più complessivo, dunque, in essa non possiamo che ritrovare, come dimostra Miconi, una sorta di fotografia di quella condizione di disuguaglianza che rappresenta la norma nel sistema sociale contemporaneo. Quella condizione cioè caratterizzata dalla convivenza tra un gruppo sociale composto da poche persone ricche e masse sterminate di poveri. Certo, ciò non significa che il Web non possa anche essere, in alcune occasioni, egualitario e democratico. La regola, però, è che esso è generalmente orientato a produrre disparità nelle condizioni sociali. D’altronde, quello che abbiamo di fronte oggi è pur sempre un sistema capitalistico, il quale, come è noto, ha nella disuguaglianza la sua caratteristica primaria. Il Web si intreccia semplicemente con tale sistema, rafforzandolo e potenziandolo.
Sappiamo da tempo grazie agli studi storici e sociologici, a cominciare da quelli ben noti di Max Weber, che la religione protestante ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo del sistema capitalistico. Non è sorprendente, perciò, che oggi ci sia chi tenti di stabilire un legame tra il mondo del Web e quello religioso. È il caso del filosofo Antonio Guerrieri, il quale, nel volume Apple come esperienza religiosa (Mimesis, pp. 96, euro, 4,90), sostiene che la figura dell’imprenditore Steve Jobs e tutti quei fenomeni di acceso entusiasmo o vera e propria devozione che alcuni utenti di Apple hanno manifestato verso tale logo, possano essere racchiusi all’interno dell’etichetta «esperienza religiosa». Secondo Guerrieri, non è corretto scomodare, in questo caso, concetti come chiesa, sacro, culto o religione, che sono stati invece impiegati da altri studiosi. È possibile però stabilire una precisa connessione tra i fenomeni che riguardano Apple e una forma di religiosità debole.
Se poi si vuole definire quel legame un po’ particolare di dottrina religiosa, è necessario guardare al mondo orientale. Guerrieri, infatti, sottolinea la notevole importanza che la spiritualità e l’estetica Zen hanno avuto in passato nella concezione dei prodotti Apple. Perché il design minimalista di tali prodotti ha mirato costantemente a quella essenzialità e a quella purezza che sono proprie di quella cultura. E ciò, appunto, spiega il grande successo ottenuto da Apple sul mercato, almeno sino a quando a guidarla è stato il suo fondatore Jobs, devoto cultore di tutto ciò che afferisce all’universo Zen.
Byung-Chul Han, l’intimità messa in piazza
Saggi. «La società della trasparenza» di Byung-Chul Han per Nottetempo. Un testo che coglie forti tendenze presenti nella realtà contemporanea. Ma che riduce la critica a un reiterato aforisma sulla mercificazione
Vanni Codeluppi, 17.7.2014 il Manifesto
La sociologia sta attraversando da alcuni decenni una fase di crisi identitaria. E tale crisi consente alle altre discipline sociali d’invadere quello specifico territorio che essa si era ritagliata nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Cioè di occuparsi di quello che costituiva il suo oggetto d’analisi privilegiato: la società. Lo fanno gli antropologi. Da questo punto di vista il lavoro di Marc Augé è esemplare, così come lo è quello di Duccio Canestrini. Da quando però è nato il filone della cosiddetta «filosofia pop», sono soprattutto i filosofi ad occuparsi del sociale. È il caso, ad esempio, del filosofo tedesco di origine coreana Byung-Chul Han, di cui è stato tradotto in italiano il volume La società della trasparenza (Nottetempo, pp. 94, euro 11), che segue idealmente il precedente La società della stanchezza, uscito in Italia nel 2012. In questo nuovo testo, l’autore si concentra su un aspetto paradossale del sociale contemporaneo: l’ossessione per la trasparenza a tutti i costi, che promette una maggiore libertà personale, ma determina invece la nascita di nuove forme di potere. L’individuo, infatti, si trova a vivere all’interno di uno spazio privato che non riesce più a controllare ed è sommerso dall’enorme quantità di dati e informazioni che la trasparenza inevitabilmente genera.
In entrambi i volumi, Byung-Chul Han è fortemente influenzato da pensatori radicali francesi come Jean Baudrillard e Michel Foucault. Il primo è probabilmente l’autore che ne La società della trasparenza viene citato il maggior numero di volte.
C’è però un pensatore francese che non viene esplicitamente citato, ma che esercita un’influenza decisiva sulle riflessioni di Byung-Chul Han: GuyDebord. Dell’autore de La società dello spettacolo viene infatti ripreso sia lo stile di scrittura aforistico, che il tono fortemente critico e radicale. E qui sta il principale problema che l’analisi del filosofo tedesco comporta. L’operazione di Debord aveva infatti un senso negli anni Sessanta, perché La società dello spettacolosi presentava come una specie di manifesto di rivendicazione per le lotte giovanili di contestazione e così in effetti ha funzionato, a cominciare dalle lotte parigine del maggio 1968. Ma oggi non sembra esserci un contesto sociale adeguato a recepire un libro-manifesto di questo tipo.
Da un volume che ha come titolo La società della trasparenza ci si dovrebbe aspettare oggi un’analisi di come funziona una delle caratteristiche più importanti delle società contemporanee: la trasparenza. Ed è proprio da questo punto di vista che il volume di Byung-Chul Han presenta i maggiori problemi. Perché quello che afferma nelle pagine il filosofo tedesco può essere condiviso, ma rimane appunto al livello dell’affermazione aforistica. Non si può infatti non essere d’accordo con lui quando scrive, ad esempio, che «La trasparenza è una coercizione sistemica che coinvolge tutti i processi sociali e li sottopone a una profonda mutazione». Un’analisi che voglia essere rigorosa non dovrebbe fermarsi qui e dovrebbe mirare invece ad ottenere un maggior livello di approfondimento. Dovrebbe cercare cioè di spiegare perché la trasparenza sia oggi fondamentale dal punto di vista economico e strutturale. Perché dunque operi come un importante strumento di produzione per l’attuale assetto del sistema capitalistico.
Le parti più innovative del volume sono quelle nelle quali Byung-Chul Han cerca di legare il tema della trasparenza alla rivoluzione digitale in corso e in particolare al fondamentale ruolo che viene esercitato dai social network. La sua idea è che i social media e i motori di ricerca, adottando l’ideologia della trasparenza, creino uno spazio intimo e condiviso dal quale vengono brutalmente espulsi il pubblico e l’esterno. A ben vedere, però, tale opinione non è molto lontana da quello che Richard Sennett portava avanti già alla fine degli anni Settanta e cioè che nelle società occidentali l’uomo pubblico stava lasciando il posto all’uomo dell’intimità. Come d’altronde hanno più volte affermato negli ultimi anni anche diversi studiosi del Web, a cominciare da Eli Pariser, che ha presentato le sue riflessioni in proposito nel volume Il Filtro.
Ma il problema che l’analisi di Byung-Chul Han soprattutto presenta è che muove da una visione fortemente negativa del sistema sociale. Una visione simile a quella proposta a suo tempo da Debord, e dunque radicale e priva di speranze per il futuro. È invece corretto ritenere che l’attuale «società trasparente», nonostante gli evidenti limiti che presenta, possa consentire anche la nascita di nuove possibilità per gli esseri umani e di spinte sociali orientate verso l’emancipazione. E che dunque sia possibile analizzarla facendo ricorso ad una prospettiva maggiormente dialettica.
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Battista La Lettura
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