venerdì 17 ottobre 2014

Le tragedie esistenziali del lavoro sconfitto, del lavoro che manca, della crisi

Gabriele Polo, Giovanna Boursier: Lavorare manca. La crisi vista dal basso, Einaudi, pagine 213, e 19

Risvolto
C'è una faccia della crisi che le narrazioni ufficiali troppo spesso relegano a sintomo secondario. È la crisi che colpisce al cuore il lavoro in fabbrica, lontana dalle astrazioni del mercato, vicinissima alle nostre vite. È la crisi raccontata in questo libro, attraverso un'inchiesta feroce e dolorosa.
Che cosa succede se proviamo a osservare la crisi rinunciando al consueto punto di vista, se proviamo a inquadrarla ad altezza di sguardo? Succede che ai flussi della finanza si sostituiscono le storie, alle manovre economiche le persone. Spariscono le oscillazioni dei mercati e dello spread, appaiono volti, voci di protesta. A quest'altezza, crisi vuol dire soprattutto lavoro che manca. A raccontarcelo sono due giornalisti d'inchiesta, in un reportage che ha come sfondo le fabbriche simbolo della «grande trasformazione italiana» - Innocenti, Fiat, Carbosulcis, Fincantieri, Omsa, Videocolor - le stesse che oggi sono simbolo del «grande collasso». I protagonisti, invece, sono le donne e gli uomini che in quelle fabbriche non possono lavorarci o rischiano di non poterlo piú fare: precari, disoccupati, cassaintegrati, esodati. Sono i nuovi poveri italiani, la cui voce è, all'interno di ogni capitolo, riportata in presa diretta. Gabriele Polo e Giovanna Boursier hanno raccolto le loro storie di rabbia, lotta, disillusione, speranza e le hanno cucite insieme sul tessuto di una storia piú grande: quella di un Paese al quale manca la terra sotto i piedi, ma che si ostina a tenere gli occhi puntati al cielo.
                   


Traversata nel deserto del lavoro Gli ultimi mohicani dell’industria 
Corrado Staiano Venerdì 17 Ottobre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA


Un libro di grande attualità, dimenticato dal suo editore e quasi ignorato dai recensori. L’hanno scritto due giornalisti, Gabriele Polo e Giovanna Boursier, marito e moglie: Lavorare manca. La crisi vista dal basso (Einaudi). Gli autori hanno affrontato con limpida scrittura un problema nodale della società di oggi, la caduta delle fabbriche, l’esistenza di migliaia di uomini e di donne, milioni anzi, che, perduto il lavoro, sono stati costretti a cancellare ogni progetto di futuro per sé e per i propri figli. 
La crisi esplosa nel 2008-2009 ha aggravato pesantemente la situazione: ancora nel 2012 il presidente del Consiglio dell’epoca, Berlusconi, parlava dell’Italia come dell’ unico Paese d’Europa che, per la sua solidità, aveva superato la crisi. (Benevolo, prometteva il taglio delle imposte). Non è stata però soltanto la crisi a rovinare tante vite, ma anche — concause ed effetti — i giochi della finanza, la sete di guadagno dei «padroni del vapore», l’incertezza e la debolezza del sindacato, l’assenza delle istituzioni, la corruzione, la macroscopica evasione fiscale, l’aggregazione sociale venuta meno con lo smorzarsi dello spirito di solidarietà. La fabbrica, infatti, soprattutto la grande fabbrica, ma anche la piccola, erano una volta simili a un paese dove la comunità cresce e invecchia insieme, dalla nascita alla morte. 
Gabriele Polo e Giovanna Boursier sono andati a vedere, come si usava un tempo. Da Milano a Monfalcone a Torino a Bergamo ad Avellino alla Sardegna. La narrazione di Lavorare manca inizia ai bordi di Lambrate, all’Innocenti, dove nacque la Lambretta che segnò l’Italia del miracolo economico. La canzone di Giorgio Gaber — il Cerutti Gino — e il film di Mario Monicelli Romanzo popolare , con Ornella Muti e Ugo Tognazzi, metalmeccanico in quella fabbrica, fanno da sfondo a un Paese che non c’è più, che ha mutato il suo assetto sociale. Là dentro lavoravano quattromila operai. Adesso? 
«Dietro portinerie ormai sbarrate e inutili, di quel mondo e di quella Milano è rimasto solo un frammento. Ventiquattromila metri quadrati di capannone, cinquanta operai, grandi macchinari». È l’Inse. Quei cinquanta resistono con le fresatrici, i torni, le gru, le dentatrici. È successo di tutto, là dentro, passaggi di proprietà, operazioni immobiliari e giochi finanziari, ingiunzioni di sgombero, fino alla decisione di smontare le macchine e di portarle via. Gli operai le consideravano «loro» e ci fu un sussulto di dignità. In cinque, nell’estate del 2009, si ribellarono, salirono sul carroponte, a 18 metri di altezza, minacciarono di buttarsi giù se non veniva interrotto lo smontaggio delle macchine. Vinsero la partita, un ex tornitore che aveva fatto fortuna con i grandi macchinari ed era diventato proprietario di venti fabbriche in tutto il mondo, acquistò l’Inse e quei cinquanta fantasmi tengono in vita quella che fu la grande Innocenti. 
Da Lambrate a Monfalcone. «Costruirono le stelle del mare, li uccise la polvere, li tradì il profitto», ricorda una scritta incisa sul marmo. Dai Cosulich, armatori dalmati, i fondatori, nel 1908, all’Iri, nel 1933, alla Fincantieri di oggi, che costruisce le grandi e informi navi passeggeri. L’internazionalismo è di casa — 75 nazionalità — tra gli operai residui. È cambiato il modo di lavorare: «Ha vinto la multifunzionalità, fai qualunque cosa, non c’è più il mestiere», racconta un cantierino in una delle testimonianze che arricchiscono il libro. 
Da Monfalcone a Torino, con la malinconia che si prova davanti alla famosa porta numero 5 di Mirafiori, orgoglioso simbolo della classe operaia di una volta. Erano 56 mila i dipendenti di Mirafiori quando Berlinguer, il 25 settembre 1980, parlò agli operai in sciopero e non li invitò affatto a occupare la fabbrica, come si continua a dire. Adesso la Fiat ha perso anche il nome, un altro pezzo d’Italia che se ne è andato. 
Da Torino a Faenza con le operaie dell’Omsa, il cui padrone, nel 2010, trapiantò, per far soldi, la fabbrica di calze a Valievo, una città della Serbia centrale che gli fece ponti d’oro. Chiuse così lo stabilimento di Faenza, famoso negli anni Sessanta del Novecento anche per lo slogan «Che gambe!» il Carosello delle gemelle Kessler. Le 350 operaie dell’Omsa lottarono intrepide per tre anni, una lunga catena di cassa integrazione in deroga, con il terrore della mobilità che arrivava con un gelido sms. In 147 furono riassunte da un altro imprenditore: dalle calze a far divani, da tessili a falegnami. 
E poi gli autori raccontano di altre vicissitudini di precari, disoccupati, cassintegrati, esodati. Tra Zingonia, i minatori sardi del Sulcis, la Videocom di Anagni e anche, in controtendenza, l’Onlus Ri-Maflow di Trezzano, una cooperativa della speranza. La società minuta che l’informazione conosce a tratti, con fastidio. 
È un documento importante, Lavorare manca . Dovrebbero leggerlo i politici di governo. Purtroppo, a sentire il linguaggio che usano, devono essere restii alla lettura. La cultura è un inciampo alla velocità del (non) fare. 
Altro che Lavorare stanca , il primo libro di poesie di Cesare Pavese. Nella quinta, sesta o settima potenza industriale del mondo il lavoro è diventato un miraggio.

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