mercoledì 5 novembre 2014

Questa gloria da stronzi 3: gli artisti e i "creativi"

La servitù coatta dei creativi 
Terre promesse. L’arte contemporanea è un settore florido che non è stato scalfito dalla perdurante crisi economica globale. La sua «base di massa» è costituita dal lavoro gratuito di giovani in cerca di visibilità che possono citare sul proprio curriculum la partecipazione a «eventi» artistici
Valeria Graziano, il Manifesto 5.11.2014 

In inglese il lavo­rare gra­tis si tra­duce con free labour, un’espressione che signi­fica sia lavoro gra­tuito che lavoro libero, trat­te­nendo tutta l’ambiguità che accom­pa­gna le con­di­zioni di vita e lavoro di chi opera nel set­tore dell’arte con­tem­po­ra­nea. C’è un’obiezione fre­quente quando si parla di lavoro gra­tuito e di arte che biso­gna pren­dere sul serio, in parte per con­fu­tarla, in parte per sco­varne i meriti. Mi rife­ri­sco al com­mento, sen­tito tante volte in situa­zioni infor­mali ma anche in alcune sedi più uffi­ciali, secondo il quale l’arte non è pro­pria­mente un lavoro. Ini­ziamo con l’esaminare l’assunto nasco­sto in que­sta cri­tica mossa a chi, occu­pan­dosi d’arte come arti­sta, cura­tore, cri­tico, edu­ca­tore o altro, non rie­sce gua­da­gnarsi da vivere in maniera digni­tosa. Il primo mito da sfa­tare è che si tratti di un’attività mar­gi­nale, per pochi appas­sio­nati. Sus­si­ste la per­ce­zione dif­fusa che la pra­tica arti­stica sia solo per ceti sociali «alti», e che quindi la que­stione del lavoro gra­tuito rimanga una pro­ble­ma­tica tutto som­mato super­fi­ciale. È impor­tante, invece, sot­to­li­neare come que­sta reto­rica sia falsa e dannosa. 
A par­tire dalla metà degli anni Novanta, infatti, in Europa ha ini­ziato a dif­fon­dersi il modello di svi­luppo eco­no­mico delle cosid­dette «indu­strie crea­tive». Si tratta di un modello che ha attratto e reclu­tato una forza lavoro tra­sver­sale alle classi sociali, inco­rag­giando i gio­vani a per­se­guire una car­riera che li por­tasse a svi­lup­pare le com­pe­tenze per poter inter­pre­tare i lin­guaggi crea­tivi inter­na­zio­nali, ricom­bi­nan­doli come fonte di inno­va­zione per il paese. In paral­lelo, il numero degli iscritti a corsi di for­ma­zione arti­stica e crea­tiva ha con­ti­nuato a cre­scere a livello euro­peo, coin­vol­gendo, fin quando i costi dell’istruzione supe­riore sono stati acces­si­bili, diverse classi sociali (Une­sco; Euro­stat). Nono­stante l’entusiasmo di molti governi per la reto­rica delle «indu­strie crea­tive», tut­ta­via, il red­dito e la sta­bi­lità con­trat­tuale di chi lavora nel set­tore restano tutt’ora signi­fi­ca­ti­va­mente più bassi rispetto a pro­fes­sioni com­pa­ra­bili, sia nell’Unione Euro­pea (Euro­stat 2011), che in Austra­lia (Austra­lian Art Coun­cil, 2014) e Stati Uniti (Bls, 2013). 

Una potente economia 
Il secondo punto da con­fu­tare è che l’arte con­tem­po­ra­nea sia un set­tore scar­sa­mente red­di­ti­zio o poco rile­vante per l’economia. La rivi­sta For­bes nel 2012 ha dichia­rato il mer­cato dell’arte «l’economia più forte del mondo». Il mer­cato dell’arte con­tem­po­ra­nea ha rad­dop­piato il suo valore negli anni 2007–2008, e dopo la crisi finan­zia­ria, si è ripreso a tempi di record, rag­giun­gendo i 2.046 miliardi di dol­lari nel 2013, il 40% in più rispetto all’anno pre­ce­dente (Art­Price Report, 2013). E que­sta cifra si limita alle ven­dite a col­le­zio­ni­sti tra­mite aste, senza con­tare le tran­sa­zioni tra pri­vati, gli introiti di musei, bien­nali, festi­val, e mostre iti­ne­ranti, e l’indotto indi­retto gene­rato dal turi­smo cul­tu­rale e dal mer­chan­di­sing. Se è vero come dice Okwui Enwe­zor, cura­tore della pros­sima Bien­nale di Vene­zia, che il mer­cato è solo una com­po­nente dell’arte con­tem­po­ra­nea, è anche vero che si ragiona forse troppo poco sulla rela­zione esi­stente tra que­sto e le altre componenti. 
Oltre che falsa, la per­ce­zione dif­fusa che l’arte e la cul­tura con­tem­po­ra­nea siano que­stioni eli­ta­rie è dan­nosa per­ché ripro­duce una visione del fare arte come atti­vità per pochi, rischiando di con­se­gnare la cul­tura nelle mani di coloro che con­di­vi­dono que­sta impo­sta­zione dal momento che li favo­ri­sce, con­tri­buendo al loro sta­tus sociale. Ed è pro­prio il dila­gare del free labour ad assu­mere un ruolo stra­te­gico in que­sta ten­denza di estrema pola­riz­za­zione, sbar­rando l’ingresso a quanti non pos­sono per­met­tersi di lavo­rare gra­tis. Per potersi riap­pro­priare della cul­tura con­tem­po­ra­nea è pro­prio dal free labour che si potrebbe ripar­tire, com­pren­den­done i mec­ca­ni­smi di fun­zio­na­mento nelle due forme più dif­fuse di stage e iperlavoro. 
Con gli stage, l’esperienza del free labour emerge come rito di pas­sag­gio obbli­ga­to­rio durante il periodo di for­ma­zione, sotto forma di pre­sta­zioni non retri­buite in cam­bio di una pro­messa di visi­bi­lità futura. Un sistema che chiede ai gio­vani (e in par­ti­co­lare a gio­vani donne, la mag­gio­ranza degli stu­denti nel set­tore arte) il prezzo più alto. 

Riti di iniziazione 
Nono­stante il nome «stage» evo­chi il gra­dino di un per­corso, esso è sem­pre di più una con­di­zione ciclica e obbli­ga­to­ria per i crea­tivi. È ormai con­si­de­rato nor­male avere in cur­ri­cu­lum tre, quat­tro, cin­que stage prima di poter essere con­si­de­rata per qual­che ingag­gio pagato. Inol­tre molte oppor­tu­nità di stage si tro­vano in metro­poli inter­na­zio­nali (e per que­sto, tanti sono costretti a migrare verso il nord del mondo) dove il costo della vita è alto e dove gli sta­gi­sti devono tro­vare un secondo impiego per potersi man­te­nere. Tut­ta­via, que­sti sta­gi­sti non solo ten­gono in piedi un set­tore dal quale siste­ma­ti­ca­mente ven­gono sot­tratte risorse pub­bli­che, ma con­tri­bui­scono anche al valore del brand delle uni­ver­sità e delle scuole spe­cia­li­sti­che (spesso a paga­mento) che li dovreb­bero for­mare. Que­sti cen­tri di for­ma­zione sti­pu­lano spesso accordi con isti­tu­zioni cul­tu­rali, festi­val o musei per garan­tire l’esclusivo accesso agli stage ai loro studenti. 
Ma che cosa dovrebbe inse­gnare lo stage agli aspi­ranti arti­sti e crea­tivi? Come rac­conta l’inchiesta del «Car­rot Wor­kers Col­lec­tive» di Lon­dra, ci sono due prin­ci­pali espe­rienze nel set­tore arti­stico, entrambe assai pro­ble­ma­ti­che. Nel primo caso le man­sioni richie­ste sono di lavoro dequa­li­fi­cato o aper­ta­mente ser­vile. Lo sta­gi­sta porta il caffè, va in tin­to­ria e porta a pas­seg­gio il cane del cura­tore, sor­ve­glia le sale espo­si­tive, attacca i fran­co­bolli per gli inviti ai ver­nis­sage. Ciò che si impara durante lo stage è la pro­pria vul­ne­ra­bi­lità di fronte al potere di chi con­trolla gli spazi di visi­bi­lità. Si impara a dis­si­mu­lare la fru­stra­zione di fronte ai pro­pri capi, ci si allena a pre­va­ri­care i com­pa­gni e ad appro­fit­tare oppor­tu­ni­sti­ca­mente di ogni occasione. 
C’è poi un secondo tipo di stage dove, al con­tra­rio, ai nuovi è richie­sto un con­tri­buto crea­tivo di alto livello, un’idea arti­stica ori­gi­nale, la cura­tela di un evento, una solu­zione di design inno­va­tiva, la scrit­tura di un testo per un cata­logo, il mon­tag­gio di un video. Anche se la sta­gi­sta tor­nerà a casa più con­tenta dello stagista-servo, que­sto caso è ancora più pro­ble­ma­tico pro­prio per­ché lo stage ha inse­gnato che la gra­ti­fi­ca­zione dovrebbe bastare come com­penso e che biso­gna dire di sì a qua­lun­que invito se que­sto «fa cur­ri­cu­lum». Que­sto mec­ca­ni­smo agi­sce mali­gna­mente in un con­te­sto in cui spesso sono i gio­vani ad essere por­ta­tori delle idee e com­pe­tenze più pre­ziose, in un mer­cato che si nutre di novità, più che di espe­rienza, per pro­durre valore. 
Il ruolo degli sta­gi­sti è cru­ciale anche per man­te­nere docili e iper­pro­dut­tivi i lavo­ra­tori dell’arte sem­pre più pre­ca­riz­zati e minac­ciati di essere rim­piaz­zati da qual­cuno dispo­ni­bile a svol­gere le loro stesse man­sioni gra­tui­ta­mente. Oltre ad essere un effi­cace dispo­si­tivo di disci­plina, il ruolo del lavoro gra­tuito nell’arte ha però altri effetti nocivi. Il suo mas­sic­cio impiego ha reso imper­cet­ti­bile la siste­ma­tica ridu­zione di risorse pub­bli­che nel set­tore cul­tu­rale. Molti finan­zia­menti ero­gati per ini­zia­tive arti­sti­che non pre­ve­dono nem­meno più la voce di spesa per i com­pensi al per­so­nale. Il con­tri­buto gra­tuito di sta­gi­sti e volon­tari e l’iperproduttività dei lavo­ra­tori sop­pe­ri­scono alla man­canza di risorse, all’interno di una reto­rica del sacri­fi­cio in nome della cultura. 
Inol­tre, il mer­cato dell’arte attra­verso il mec­ca­ni­smo del free labour impone ai lavo­ra­tori un cre­scente ribasso dei com­pensi: oggi vivere sola­mente di arte con­tem­po­ra­nea è assai raro. Molti che si tro­vano in que­sta situa­zione ricor­rono a una stra­te­gia di sdop­pia­mento. Da un lato si con­ti­nua a por­tare avanti la pro­pria pra­tica arti­stica, a pro­muo­verla, a fare net­wor­king; dall’altro si cer­cano fonti di gua­da­gno alter­na­tive per ren­dere tutto ciò soste­ni­bile. Secondo una recente inchie­sta sugli arti­sti nel Regno Unito, un’alta per­cen­tuale smette intorno ai 45 anni o alla nascita del primo figlio (Nesta, 2008). Spesso que­sto secondo lavoro, di cui si parla mal­vo­len­tieri, con­si­ste in un impiego nelle stesse indu­strie cul­tu­rali e crea­tive in man­sioni che non hanno nulla di crea­tivo (ammi­ni­stra­tivi, guide, instal­la­tori, ecc.). Anche se pagati meno di ruoli equi­va­lenti in altri set­tori, que­sti ingaggi per­met­tono di con­ti­nuare a sen­tirsi parte della «scena», indi­vi­duata dal socio­logo Pascal Gie­len come la nuova unità di pro­du­zione del capi­tale semio­tico. Tut­ta­via, fre­quen­tare la «scena» non è impor­tante solo per una que­stione di appar­te­nenza iden­ti­ta­ria: come fa notare Gie­len, è anche l’unico modo per tute­lare le pro­prie idee e impe­dirne l’appropriazione da parte di altri più affermati. 
Uno sdop­pia­mento ancora più radi­cale col­pi­sce quanti ripie­gano su un secondo lavoro estra­neo alle indu­strie crea­tive. Que­sta situa­zione porta a uno scol­la­mento tra la per­ce­zione della pro­pria iden­tità (sono un cura­tore, un video­ma­ker, un per­for­mer) e il pro­filo pro­fes­sio­nale per cui si viene pagati. Dal punto di vista con­tri­bu­tivo, molti arti­sti e crea­tivi sono in realtà lavo­ra­tori del set­tore ter­zia­rio. Tut­ta­via, sic­come non si iden­ti­fi­cano come tali, fini­scono con il for­nire una mano d’opera tran­si­to­ria e disin­te­res­sata a riven­di­care i pro­pri diritti, in attesa di essere «sco­perti» dal sistema artistico. 

Pra­ti­che di autorganizzazione 
Nelle indu­strie cul­tu­rali si spe­ri­men­tano nuovi mec­ca­ni­smi di sfrut­ta­mento della tota­lità della vita, ma pro­prio in que­sti ambiti emer­gono forme di resi­stenza che pos­sono offrire spunti utili per una rifles­sione più allar­gata sul lavoro stesso. Negli ultimi anni sono nate in vari paesi pra­ti­che col­let­tive che denun­cia­vano l’insostenibilità del free labour. Alcune di que­ste, come «A/traversad*s por la Cul­tura» in Spa­gna o «Can­tieri per pra­ti­che non affer­ma­tive» in Ita­lia, sono par­tite da per­corsi di inchie­sta per sop­pe­rire alla carenza di sta­ti­sti­che uffi­ciali sul tema del lavoro gra­tuito. I «Pre­ca­rious Wor­kers Bri­gade» e i «Future Interns» nel Regno Unito si sono invece con­cen­trati sullo «sta­gi­smo» e sul ruolo dei pro­cessi peda­go­gici nel ripro­durre miti quali l’artista/genio/bohémien o l’«artista/imprenditore di se stesso». Altre espe­rienze invece hanno affron­tato il lavoro gra­tuito come parte di una lotta più estesa con­tro lo sfrut­ta­mento strut­tu­rale che con­trap­pone, nel «sistema arte», il lusso dei ver­tici alla pau­pe­riz­za­zione della base. Sono que­sti i casi di W.A.G.E. negli Stati Uniti che ha creato un mar­chio di cer­ti­fi­ca­zione etica per ini­zia­tive cul­tu­rali che pagano equa­mente i pro­pri col­la­bo­ra­tori; di «Tra­ba­ja­do­res de Arte», una rete che riu­ni­sce arti­sti in sette paesi lati­noa­me­ri­cani for­nendo stru­menti per cal­co­lare com­pensi equi; e la piat­ta­forma ArtLeaks, impe­gnata a pub­bli­care in forma ano­nima segna­la­zioni di abuso e sfruttamento. 
Nono­stante i diversi livelli di suc­cesso, que­ste pra­ti­che con­tri­bui­scono a scal­fire la pato­lo­gica divi­sione tra con­te­nuti «cri­tici» e forme orga­niz­za­tive in ambito arti­stico. Il loro aspetto più inte­res­sante risiede nella capa­cità di porre il pro­blema del lavoro non in chiave cor­po­ra­ti­via o pro­fes­sio­na­liz­zante, ma in quanto limite strut­tu­rale alle pos­si­bi­lità di supe­rare le ingiu­sti­zie dell’ordine sociale esi­stente. Un’importante fonte di ispi­ra­zione è stata la pro­te­sta degli «Inter­mit­tenti dello Spet­ta­colo» fran­cesi, che nel 2003 furono tra i primi a mobi­li­tarsi con­tro le con­di­zioni di ricatto in cui si stava rior­ga­niz­zando il set­tore cul­tu­rale in Europa e a capire come que­sto rap­pre­sen­tasse un attacco al sistema di wel­fare per tutti. Nel rifiu­tarsi di porre la que­stione del free labour solo in ter­mini di pre­ca­rietà e man­cato red­dito, que­ste pra­ti­che di ribel­lione tema­tiz­zano la con­trad­di­zione tra la libertà pro­messa dal free labour e il lavoro. Forse pro­prio a causa della ten­sione tra arte intesa come rifiuto del lavoro e arte come pro­fes­sione, le espe­rienze di lotta in que­sto ambito hanno spinto molto più di altre sull’urgenza di alzare la posta in gioco, di ribel­larsi non solo alle con­di­zioni con­trat­tuali ma al lavoro stesso. La scom­messa che si nasconde nell’affermazione che l’arte non è pro­prio un lavoro è saper imma­gi­nare la potenza delle pra­ti­che, non solo arti­sti­che, ma anche di cura, di coo­pe­ra­zione e d’invenzione, una volta libe­rate dalla scar­sità arti­fi­ciale e dall’ansia esi­sten­ziale che, nella logica lavo­ra­tiva, le sfigurano. 

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