Riuscirà mai la sinistra a operare una revisione complessiva di quegli anni? [SGA].
«Mondo contemporaneo», 1/2014, Franco Angeli, pp. 208, e 25
Indice
- Giovanni Mario Ceci, Guido Panvini, Premessa
- Paolo Mattera, Tra conflittualità e riflusso. l’Italia del 1977 nelle relazioni del ministero dell’interno
- Luigi Ambrosi, L’anno della consapevolezza. il 1977 nell’Italia meridionale, tra nuovi conflitti e trasformazioni sociali
- Andrea Sangiovanni, "Fratelli tute blu..": gli operai e il settantasette
- Luca Falciola, I dibattiti degli intellettuali italiani nel 1977: Segnali di una svolta culturale?
- Alessio Gagliardi, Sacrifici e desideri. Il movimento del ’77 nell’Italia che cambia
- Roberto Colozza, Guerra a sinistra. Il Pci, il Psi e il movimento del ’77
- Giovanni Mario Ceci, "Sicurezza pubblica: problema primario". La democrazia cristiana e il movimento del ’77
- Guido Panvini, Le Brigate rosse e i movimenti del 1977
- Andrea Argenio, "L’Italie a fait faillite et les italiens ne le savent pas". Uno sguardo francese sull’Italia del ’77
- Laura Fasanaro, 1977, "italien steht nicht stille". un profilo politico e sociale dell’Italia: Der Spiegel, Die Zeit e Frankfurter Allgemeine
- Laura Ciglioni, "La dolce vita turns perilous": l’Italia del ’77 vista dagli americani
Giovani del ’77 contestatori consumisti
di Giovanni Belardelli Corriere 4.12.14
Per molti italiani il ricordo del 1977 è legato a un’immagine
tristemente famosa: la foto del giovane con passamontagna che spara
sulla polizia tenendo la pistola con le mani giunte, a Milano.
Un’immagine che sintetizza bene l’aggravarsi di una violenza politica
che dalle cose si andava spostando sulle persone, ma che non può rendere
la complessità degli avvenimenti di quell’anno e di un movimento
giovanile che, a differenza di quello del Sessantotto, non nasceva da
alcun trascinamento internazionale. Dei caratteri di quel movimento si
occupa ora l’ultimo numero della rivista «Mondo contemporaneo» (Franco
Angeli, pp. 208, e 25), attraverso i saggi di una dozzina di giovani
studiosi che nel 1977 non erano probabilmente ancora nati e possono
dunque più agevolmente sottrarsi alle letture consolidate dei testimoni.
Al di là del dato più appariscente e noto, riguardante la permeabilità
tra i movimenti giovanili di contestazione e i gruppi terroristici (un
saggio è specificamente dedicato ai rapporti tra i giovani del ’77 e le
Brigate rosse), merita di essere sottolineato soprattutto come vari
autori ritornino su certi elementi culturali di fondo che emergono dalle
agitazioni di quell’anno. In primo luogo il rapporto peculiare che i
giovani contestatori intrattenevano con la società dei consumi. In una
situazione di difficoltà economiche per il Paese, e dopo che la crisi
petrolifera del 1973 aveva posto una seria ipoteca sulla ottimistica
visione di una crescita inarrestabile, quei giovani cominciavano a
percepire che qualcosa stava cambiando. Vale a dire che la promessa
nella quale erano cresciuti — un benessere sempre maggiore e per tutti —
difficilmente avrebbe potuto essere mantenuta (è indicativo che dal
1973 al 1977 la disoccupazione giovanile fosse triplicata). Su questa
base, si alimentò uno scontro con la sinistra tradizionale che era anche
uno scontro culturale.
Mentre Berlinguer proponeva la linea dell’austerità e Lama (oggetto nel
febbraio di una contestazione violenta all’Università di Roma)
dichiarava la disponibilità dei lavoratori a una politica di sacrifici,
il movimento del ’77 proponeva una linea inconsapevolmente consumista.
Criticava il sistema, accusava il capitalismo di avere fabbricato la
crisi, ma soprattutto contestava la linea dei sacrifici e
dell’austerità, contrapponendo a essa «il soddisfacimento dei “bisogni” e
l’affermazione dei “desideri”, (…) fino alla paradossale rivendicazione
dell’accesso ai beni di lusso», come ricorda in uno dei saggi Alessio
Gagliardi. All’etica del lavoro in cui si erano formati i militanti del
Pci, quei giovani contrapponevano provocatoriamente una sorta di diritto
all’ozio.
Come è evidente, si trattava di posizioni culturalmente debolissime, per
l’assoluta ignoranza dei più elementari dati dell’economia e delle
regole di base della vita sociale. Ma, a ripercorrere il durissimo
scontro tra il movimento del ’77 e la sinistra comunista, colpisce come
fosse piuttosto debole anche l’analisi che il Pci e una parte della
cultura di sinistra facevano della realtà italiana. Al di là del dato —
politicamente rilevantissimo — rappresentato dalla netta condanna nei
confronti dell’impiego della violenza, non si andava molto oltre la
riproposizione del vecchio bagaglio culturale marxista: da Achille
Occhetto, che difendeva la necessità di una «dittatura rivoluzionaria»
(sia pure, specificava, come forma eccezionale e provvisoria), a Umberto
Eco, per il quale la visione marxista della società era ormai un
«valore acquisito». Viene allora da chiedersi quanto i problemi
strutturali dei quali l’Italia soffre ormai da decenni non siano anche
il prodotto di una inadeguatezza culturale, di una consolidata
incapacità della classe dirigente e del ceto intellettuale (di sinistra e
non solo), che non sono riusciti a leggere adeguatamente la realtà del
Paese.
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