sabato 24 gennaio 2015

La guerra e l'imperialismo hanno distrutto lo Stato-nazione postcoloniale fomentando - e usando - il fondamentalismo religioso

Nel mare del delirio, qualche zattera ogni tanto [SGA].



Il terrorismo, la guerra e la crisi dello stato-nazione 

Terrorismo. L’ideologia fondamentalista, cosmopolita e gerarchica, è un concorrente simmetrico nella destabilizzazione dello Stato post-coloniale e delle sue promesse laiche di emancipazione sociale e nazionale. E la guerra torna a essere la potente forma di redistribuzione del capitale

Fulvio Lorefice, Tommaso Nencioni, il Manifesto 23.1.2015 

Una volta assor­bito lo shock dei bar­bari atten­tati di Parigi, biso­gnerà comin­ciare a valu­tarne le con­se­guenze nel mondo glo­bale. Voci tutt’altro che disin­te­res­sate già si affa­stel­lano a difesa dell’occidente «asse­diato», di unioni sacre che pre­scin­dono total­mente da un’analisi dei rap­porti tra cen­tro e peri­fe­ria nel sistema-mondo nascente sulle ceneri della Guerra Fredda. La tran­si­zione verso un nuovo ordine ege­mo­nico, infatti, non può esser com­presa senza tener conto della crisi eco­no­mica e con­se­guente ride­fi­ni­zione del ruolo dello Stato-nazione. 
Un pro­cesso che si mani­fe­sta sia nelle rela­zioni inter­na­zio­nali, attra­verso l’offensiva nei con­fronti delle eco­no­mie emer­genti e la crea­zione di entità sovra­na­zio­nali a cui sono in parte deman­date fun­zioni sto­ri­ca­mente assunte dagli Stati; sia sul piano interno, attra­verso la ride­fi­ni­zione dello spa­zio poli­tico demo­cra­tico, sul ter­reno cioè della lotta egemonica. 
Lo Stato-nazione deci­mo­no­nico prende forma sotto l’impulso della bor­ghe­sia in ascesa come classe diri­gente. Tut­ta­via, già nel corso di svol­gi­mento di quel labo­ra­to­rio poli­tico che fu la Rivo­lu­zione fran­cese, si pote­vano intra­ve­dere alcune pre­fi­gu­ra­zioni di sce­nari avve­nire: lo Stato bor­ghese, ancora in for­ma­zione, già era inner­vato dalle spinte dal basso che nei due secoli suc­ces­sivi ne avreb­bero mutato in pro­fon­dità le carat­te­ri­sti­che, ben al di là dei desi­de­rata del blocco sto­rico che lo stava tenendo a battesimo. 
Nel corso del “lungo Nove­cento”, que­sto pro­cesso dia­let­tico si spin­gerà ai limiti delle capa­cità di tenuta del sistema, all’interno dei sin­goli Stati come nelle rela­zioni tra i cen­tri mon­diali dell’accumulazione capi­ta­li­stica e le peri­fe­rie. Da un lato il nascere ed il con­so­li­darsi del movi­mento ope­raio favo­rirà la ride­fi­ni­zione della natura dello Stato, da stru­mento di accen­tra­mento di potere nelle mani delle classi domi­nanti, a spa­zio poli­tico all’interno del quale quello stesso potere può essere con­teso dalle classi subal­terne. Dall’altro, con le rivo­lu­zioni russa e cinese ed il pro­cesso di deco­lo­niz­za­zione, irrom­pe­ranno entità sta­tuali nuove — non pre­vi­ste dall’ordine statual-borghese Otto­cen­te­sco — desti­nate ad acqui­sire un cre­scente potere di inter­di­zione nei con­fronti degli inte­ressi della metro­poli e delle esi­genze dell’accumulazione capitalistica. 
Gli anni Set­tanta del Nove­cento rap­pre­sen­tano il cul­mine di que­sto pro­cesso: le con­qui­ste sociali del movi­mento ope­raio arri­vano a met­tere in crisi il capi­ta­li­smo nel cuore stesso della sua accu­mu­la­zione; men­tre la scon­fitta sta­tu­ni­tense in Viet­nam san­ci­sce l’affermazione defi­ni­tiva delle poten­zia­lità dello Stato post-coloniale. Una “tem­pe­sta perfetta”. 
Dopo un periodo di incer­tezza e ripie­ga­mento, segnato dall’intensificazione del pro­cesso di trans-nazionalizzazione del capi­tale e dalle prime modi­fi­ca­zioni delle fun­zioni dello Stato-nazione, la metro­poli capi­ta­li­sta rilan­cia, ride­fi­nen­dola, la por­tata della pro­pria azione, appro­fit­tando di tre fat­tori tra loro for­te­mente inter­di­pen­denti: il crollo dell’Urss; la riscossa pro­prie­ta­ria nelle metro­poli; la crisi di legit­ti­mità di alcuni gruppi diri­genti post-coloniali. 
Lo Stato-nazione comin­cia a sgan­ciarsi dalle fun­zioni «sociali» di cui si era dotato in rispo­sta alla sfida del movi­mento ope­raio; men­tre l’Europa indu­stria­liz­zata è inve­stita da una cre­scente mano­vra di «espor­ta­zione della legit­ti­mità» dagli orga­ni­smi par­te­ci­pati dal popolo a quelli tec­no­cra­tici sovra-nazionali, cui ven­gono tra­sfe­rite talune fun­zioni e pre­ro­ga­tive dello Stato-nazione, con rela­tive nuove gerar­chie nella divi­sione con­ti­nen­tale del lavoro. Con­te­stual­mente, si raf­forza la dimen­sione coer­ci­tiva dello Stato, in ter­mini di con­trollo sociale e di egemonia. 
Col crollo del sistema inter­na­zio­nale della guerra fredda si inau­gura, nei rap­porti col «terzo mondo», una sta­gione inin­ter­rotta di guerre e aggres­sioni: dall’Afghanistan alla ex-Jugoslavia, dalla Soma­lia all’Iraq, dalla Libia alla Siria, l’occidente inter­viene sugli anelli deboli per disgre­gare il sistema di Stati sorto dal bino­mio rivoluzione/decolonizzazione. Al di là della reto­rica, non c’è nes­suna volontà di imple­men­tare la demo­cra­zia, né sem­pli­ce­mente di «rico­struire»: dopo le distru­zioni ed i bom­bar­da­menti, le popo­la­zioni ven­gono abban­do­nate al caos e alla dispe­ra­zione, e ci si limita a mili­ta­riz­zare par­ziali encla­ves attorno alle zone stra­te­gi­che dal punto di vista geo­po­li­tico e dell’accaparramento delle risorse naturali. 
In que­sto sfondo pos­sono col­lo­carsi gli atten­tati a Parigi. L’ideologia fon­da­men­ta­li­sta, col suo por­tato cosmo­po­lita e pro­fon­da­mente gerar­chico, risulta, più che un nemico, un con­cor­rente sim­me­trico nell’opera di desta­bi­liz­za­zione dello Stato post-coloniale e delle sue pro­messe lai­che di eman­ci­pa­zione sociale e nazio­nale. Desta­bi­liz­za­zione su cui ha cer­ta­mente inciso l’estinzione del campo socia­li­sta, attorno al quale a varie lati­tu­dini ave­vano gra­vi­tato gli Stati post-coloniali. 
All’indubbio, e pro­gres­si­va­mente sem­pre più mar­cato, logo­ra­mento delle lea­der­ship nazio­nali, si sono poi com­bi­nati gli effetti della crisi. Più in par­ti­co­lare quella ali­men­tare, vero deto­na­tore delle rivolte spri­gio­na­tesi nell’area del Magh­reb e primo oggetto delle riven­di­ca­zioni popo­lari. In que­sto com­plesso pro­cesso, con­di­zio­nato da una geo­me­tria plu­rale di inte­ressi di potenza, sem­pre più pesante è risul­tato il peso dell’Islam poli­tico: una galas­sia di opzioni, sen­si­bi­lità e stra­te­gie, in larga parte con­flig­genti tra loro; ma abbrac­ciate da lar­ghis­sime fasce di subal­terni di quella regione del mondo, orfane di stra­te­gie poli­ti­che alternative. 
Ed è qui che serve, quindi, la sini­stra: per com­bat­tere la «bat­ta­glia delle idee», con­ten­dendo l’egemonia che si va costruendo nell’interpretazione dei fatti e delle sue ori­gini; e per offrire un ter­reno di mobi­li­ta­zione con­se­guente. Demi­sti­fi­care gli argo­menti del pre­sunto «scon­tro di civiltà», della reduc­tio ad unum dell’Islam, evi­den­zian­done limiti e con­trad­di­zioni, primi tra i quali l’accecante euro­cen­tri­smo, con­sente infatti di cogliere l’essenziale della nar­ra­zione che si va facendo strada: la neces­sità della guerra. 
L’obiettivo verso cui, non a caso, è pro­teso, quasi una­ni­me­mente, l’apparato ege­mo­nico occi­den­tale. Indu­bi­ta­bile è in que­sto senso il cam­bio di passo avve­nuto dopo gli atten­tati a Parigi. 
Die­tro le dispute sul «noi» e «loro», su cosa è «demo­cra­zia», sui limiti della satira, vi è, infatti, la strin­gente e con­creta urgenza della crisi: l’elemento poli­tico che più di ogni altro solca le rela­zioni inter­na­zio­nali del nostro tempo. Non coglierne il nesso, ancor­ché poten­ziale, con l’uso poli­tico che l’occidente può fare degli atten­tati di Parigi, e quindi con la guerra, la più potente forma di distru­zione di capi­tale ecce­dente, rischia, infatti, di essere esi­ziale per la sinistra.

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