sabato 31 gennaio 2015

Renzi fa scacco matto: Berlusconi, PD e Tachipirini schiantati, grillini suicidati

Va comunque detto che Mattarella è tra i meno peggio. La vera catastrofe sarebbe stato Veltroni, o Rodotà. Tra l'altro, da sinistro democristiano qual è - siculo per giunta -, potrebbe prima o poi affidarsi alla corda pazza e introdurre qualche elemento di contraddizione.

Non c'è dubbio però che in questo momento Renzi vinca su tutta la linea: con un colpo solo mette nell'angolo Silvio, fa piangere di commozione Bersani e Rosi Bindi, fa accucciare Pippa Civati e l'imbroglione pugliese...
La figura di merda della sinistra PD e di Sel è battuta solo dall'idiozia politica primordiale dei grillini, ma quelli giocano un altro campionato e con loro non c'è partita.

"Grillino" negli aggiornamenti dei dizionari diventerà sinonimo di "ottuso", "politicamente sprovveduto", "minchione". Hanno perduto la loro occasione - quella occasione per la quale andavano strumentalmente sostenuti allo scorso giro - e ora sono defunti sul piano politico.

La fortuna della Sinistra complementare sono dunque unicamente i grillini: la loro sola presenza significa che c'è sempre qualcuno politicamente più idiota di te [SGA].

Caos M5S, in assemblea tutti contro tutti
di Annalisa Cuzzocrea Repubblica 31.1.15
ROMA . Il direttorio spaccato, il blog che dà la linea con un post contro Sergio Mattarella, parlamentari ortodossi infuriati con «chi vuole fare lo stratega senza esserne capace ». E un’assemblea alle nove di sera rigorosamente senza streaming, perché alla trasparenza c’è un limite, e il modo in cui è finita la partita è meglio non mandarlo in onda. Muore così il tentativo dei 5 stelle di incidere sul voto per il presidente della Repubblica. Scriveranno il nome di Ferdinando Imposimato anche alla quarta votazione. Non faranno un passaggio notturno sul blog per valutare la candidatura di Mattarella. Ieri mattina gli esponenti del direttorio stavano sondando questa possibilità. Hanno avuto molti colloqui con il Pd - con chi da mesi tiene con loro contatti riservati - ma sono rimasti divisi. A vincere è stata la linea del restare “puri”. Quella incarnata da Roberto Fico. A perdere, le grandi strategie targate Di Maio-Sibilia- Di Battista. Così, mentre ancora alla Camera alcuni parlamentari rilasciavano interviste in cui tutte le strade sembravano aperte, un post sul blog dettava la linea. Con la pubblicazione di un articolo contro la posizione di Sergio Mattarella ai tempi in cui era ministro della Difesa, e aveva negato la pericolosità dell’uranio impoverito e il legame con i numerosi casi di tumore nelle forze armate.
Improvvisamente, i parlamentari dichiarano i loro dubbi. Andrea Colletti parla di un «personaggio ben inserito nel sottobosco politico italiano». Carlo Sibilia di un presidente «gradito a Berlusconi». A sera, Di Maio dice al Tg2 che «un colpo di scena è sempre possibile» e che se così fosse «saremo pronti a mettere sul piatto un altro nome». Pensa a una quinta votazione, ma è una mossa disperata. Molti ortodossi sono arrabbiati con lui e con il suo tentativo di fare strategie trattando col Pd. Per sviare, insieme a Sibilia attacca gli ex. Parlano di una compravendita che sarebbe stata rivelata dalla deputata Paola Pinna (già cacciata) in un’intervista rubata trasmessa da Servizio Pubblico . Alessandro Di Battista - che non le parla da mesi - va a cercarla apposta in Transatlantico. L’unica battaglia rimasta è quella di delegittimare gli ultimi 10 fuoriusciti, con dichiarazioni che hanno come corollario insulti e minacce sui social network. E un clima di paura di cui la contestazione al Nazareno è stata solo il preludio.


Renzi: capolavoro o errore strategico? /1

Massimo Cacciari: “Ingannare l’avversario è una dote, ma non può permettersi passi falsi” La Stampa 31.1.15
Professor Massimo Cacciari eleggere un Presidente al primo colpo sarebbe un successo politico indiscutibile, ma lo è anche dopo aver ripetuto per mesi che sul Capo dello Stato bisognava coinvolgere tutti e poi al momento decisivo imporre un candidato prendere o lasciare?
«Renzi ha dispiegato un efficacissimo machiavello e d’altra parte saper giocare l’avversario e saperlo ingannare, questa è una dote politica. L’uomo è animato da volontà di potenza delirante, e anche questo un pregio, purché non incappi in errori madornali, perché quando uno così sbaglia, difficile che poi trovi zattere di salvataggio. Finora Renzi ha commesso pochi errori madornali: quella di Mattarella è stata un’operazione intelligente, molto forte».
Si potrebbe dire: bravo Renzi, efficacissimo blitzkrieg ma è davvero capolavoro se perdi il tuo miglior alleato? Non rischia di archiviarsi, assieme al patto del Nazareno, anche il ventennio della Seconda repubblica?
«Il ventennio si è già chiuso da tempo. Già da anni Berlusconi politicamente non ha più nulla da dire. E d’altra parte a lui non conviene assolutamente votare contro il nuovo Capo dello Stato, gli converrebbe invece continuare come ha fatto negli ultimi tempi, per mettere a posto gli affari di famiglia».
Ma anche se Berlusconi proverà a rientrare, questa vicenda segnata dalla tattica e dal pubblico divorzio, non segna la fine di un rapporto politico?
«I due non sono affatto simili come si dice. Berlusconi è un galleggiatore, un personaggio molto da Prima Repubblica, con quella sua vocazione a piacere a molti; Renzi è un carrino armato, ha un modo di avanzare che non gli consente molti errori e per il bene dell’Italia speriamo che sia in grado di andare avanti, sia pure con questi straccetti di riforme. Avanti popolo! D’altra parte questo è il Paese...».


Renzi: capolavoro o errore strategico? /2

Giuliano Ferrara: “Non è un Don Chisciotte ma un fiorentino furbo. Avrà anche svantaggi” 

La Stampa 31.1.15

Giuliano Ferrara, quello di Renzi è una sapiente operazione tattica o un capolavoro politico?
«Si è svolta una schermaglia tattica molto tradizionale, con la differenza che stavolta non c’erano i partiti o le nomenclature ad incrociare le lance, ma sono state due persone a discutere un nome. Renzi aveva bisogno di qualcuno che fugasse l’impressione di un accordo cinico con Berlusconi ed è venuto fuori Mattarella, personaggio con una sua vena di intransigenza, ma che stando zitto dal 2008, da allora di lui non si conoscono le idee e comunque appare sopra le parti».
Per mesi Renzi ha ripetuto il refrain dell’accordo e al momento decisivo ha fatto l’opposto: tatticismo o qualcosa di più disinvolto?
«Renzi non passerà alla storia come un Don Chisciotte, non deve salvare l’onore del mondo, ma è un fiorentino che vuole salvare ghirba e fare le riforme. Berlusconi è un uomo molto pratico, crede alle strette di mano e si è sentito gabbato: è stato informato all’ultimo momento ed essendosi sentito messo con le spalle al muro, è rimasto incerto sul da farsi, col sospetto di aver subito un affronto eccessivo».
Su una vicenda come l’elezione del Capo dello Stato, consumata in questo modo così poco amichevole, come si può pensare che tutto torni come prima? In quel caso non sarebbe capolavoro...
«Se riuscirà ad eleggere Mattarella presidente, Renzi acquisirà dei vantaggi, ma anche degli svantaggi perché sarà dura ricostruire un dialogo, ma come disse il presidente Napolitano al principio di realtà non ci sono alternative: io non credo che questa vicenda segni la fine della base sulla quale si è costituita la legislatura e dunque anche la presa di possesso di Renzi sul governo».


Rino Formica: Renzi: capolavoro o errore strategico? /3

“Né successo né boomerang. Il giovanilismo di Palazzo deve temere quello di piazza”

La Stampa 31.1.15

Onorevole Rino Formica, due settimane fa lei aveva previsto tutto: Mattarella contro Amato e Nazareno in crisi...
«Ma la politica è una scienza esatta...».
Siamo davanti ad un capolavoro di Renzi o a sapiente tatticismo?
«Non è questione di tattica o di strategia. Il Parlamento non gode più del rispetto che meriterebbe, perché lì oramai si ritrovano partiti che non ci sono più nella realtà di massa del Paese. Nelle votazioni di queste ore c’è qualcosa che ricorda il rito pre-funerario e voi che lo raccontate non avete la necessaria distanza per rendervi conto che la realtà sta evolvendo».
Renzi ha provato ad uscirne politicamente vivo e pare che l’impresa gli stia riuscendo, o no?
«Renzi e tutto il sistema politico erano davanti ad un bivio: affidarsi ad una personalità come Prodi o come Amato, gli ultimi che avrebbero potuto garantire una autoriforma del sistema, oppure....».
Sergio Mattarella è una personalità solida della “sua” Prima Repubblica...
«E’ una persona perbene, con un costume monacale, che ha vissuto una drammatica vicenda famigliare ed è dotato di dottrina costituzionale. Ma temo che lui possa essere l’ultimo Presidente della Repubblica che abbiamo conosciuto, potrebbe essere un Presidente provvisorio, che prima poi darà le chiavi ad un Presidente dotato di altri poteri. Come capitò in Francia con René Coty, che nominò De Gaulle presidente del Consiglio, affidandogli così le chiavi dell’Eliseo».
Un presidente chiamato Matteo Renzi?
«Il giovanilismo che ha agitato nel Palazzo prima o poi potrebbe determinare la rivolta dei giovani della piazza contro i giovani del Palazzo!».

Il declino degli ex comunisti traditi da gelosie e rancori
Fuori da tutte le poltrone rilevanti. Finocchiaro: “Ce la siamo cercata”

di Federico Geremicca La Stampa 31.1.15

Ci sono tramonti e tramonti. Ce ne è di romantici, di infuocati, di languidi... Quello dell’anima diessina e post-comunista del Pd, è un tramonto triste e silenzioso: così inarrestabile ed evidente, però, da somigliare addirittura ad un’eclissi. Ad un declino.
La “ditta” di bersaniana memoria, perde colpi e posizioni. Non è un processo di oggi, è vero: ma oggi, mentre si va verso l’incoronazione di Sergio Mattarella - leader cattolico ed ex popolare - lo si può osservare in tutta la sua incontestabile evidenza. Il tramonto, il declino, si consuma in un’atmosfera mogia, fatta di soddisfazione troppo esagerata per esser sincera e di disappunto soffocato: il disappunto inconfessabile di chi non ha nemici con cui prendersela, per quanto di triste va accadendo. Un declino inevitabile? «Un declino da noi cocciutamente costruito», sussurra Anna Finocchiaro, aprendo la finestra sull’altro stato d’animo che serpeggia tra gli ex ds: la tentazione, cioè, dell’ennesimo regolamento di conti.
Non il capo del governo; non più (se Mattarella sarà eletto) il Presidente della Repubblica; non la guida del Pd, e nemmeno quella delle assemblee di Camera e Senato; non ministri di peso e nemmeno giovani leader che oggi appaiano in grado di ipotecare il futuro. Sostenere che gli ex ds - chiamiamoli la sinistra del Pd - siano ridotti ad una condizione di irrilevanza, sarebbe sbagliato: ma la spinta propulsiva di quella cultura pare essersi esaurita, «e forse c’è anche di peggio, purtroppo», annota Sergio Chiamparino, in un clima di fitta mestizia.
La sua annotazione è secca, ma accende il riflettore su un problema politico nient’affatto da poco: «Quando ci sono momenti di difficoltà, di divisione, non è mai sul nome di uno di noi che si riesce a ricostruire l’unità del centrosinistra - dice -. Successe vent’anni fa con l’Ulivo e con la scelta di puntare su Romano Prodi, succede di nuovo oggi con Sergio Mattarella. Dovremmo interrogarci sul perchè. Ma l’aria non mi pare questa...».
No, l’aria non pare questa. Sotto una cenere fatta di tristezza e disorientamento, infatti, arde la solita brace: quella dell’ennesima resa dei conti. «Sono divisivi - annota Beppe Fioroni -. Escluso Bersani, che pensa davvero alla ditta, dagli altri arrivano solo veti incrociati e manovre d’interdizione». Fioroni, forse, si riferisce ai colloqui intercorsi tra Renzi ed alcuni dei candidabili-presidente del Pd: alla fine degli scambi d’opinione, il segretario avrebbe avuto infatti la conferma che puntando su Veltroni o su Fassino, piuttosto che su Finocchiaro o Chiamparino, i gruppi parlamentari del Pd sarebbero letteralmente esplosi.
Gelosie e rancori ormai più che ventennali. E l’eterno duello D’Alema-Veltroni è solo l’epifenomeno di una tale situazione. E la “malattia” appare contagiosa, se solo si guarda al Vietnam in cui si è rapidissimamente trasformato il campo dell’opposizione interna a Renzi: cuperliani, bersaniani, civatiani, dalemiani, eccetera, eccetera, eccetera.
Matteo Renzi ha spesso approfittato delle divisioni interne alla minoranza del Pd. Stavolta, invece, qualche timore lo ha avuto. E se la frustrazione degli ex ds si tramutasse in nugoli di franchi tiratori? O ancora: e se di fronte al nuovo smacco prevalesse il solito muoia Sansone con tutti i filistei col quale due anni fa fu affondato (e mortificato) persino Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo? E’ vero che la quantità di voti che va convergendo sul nome di Mattarella (ieri anche quelli del partito di Alfano, oggi - magari - quelli di Berlusconi) è tale da metterlo quasi al riparo da brutte sorprese: ma se fidarsi è bene, non fidarsi è spesso meglio...
E così, ieri, “vedette renziane” hanno controllato addirittura i tempi di permanenza nella cabina elettorale dei parlamentari pd per vedere se qualcuno vi rimanesse un tempo eccessivo per una semplice scheda bianca. Renziani ed ex popolari, insomma, a controllare il voto degli ex diessini: il mondo alla rovescia, una mortificazione. E però le “vedette renziane” non hanno lavorato invano. Il rapporto poi sottoposto a Renzi, infatti, segnalava questo: in 42 sono stati in cabina un tempo eccessivo, non dovendo scrivere sulla scheda (da lasciare bianca) alcun cognome. Quarantadue: la metà dei quali riconducibile a esponenti della minoranza interna. Sarà stato un caso, chissà. Lo si capirà oggi, quando il tramonto degli ex ds potrebbe esser completo, e sulla Falce e sul Martello, e sulla Quercia e tutto il resto calerà il buio di una notte fredda e cupa...



La scomparsa degli ex comunisti

di Guido Crainz Repubblica 31.1.15

OVE avvenga realmente, come è lecito sperare, l’elezione di Sergio Mattarella è un passo importante nella storia della Repubblica: nella sua vicenda più lunga e in quella degli ultimi vent’anni, in questa seconda Repubblica mai nata che forse oggi inizia a prendere forma.
LOè per le modalità in cui è maturata. E per lo scenario in cui si colloca. In seguito ad essa, con il centrosinistra al governo e con il Pd in un ruolo largamente dominante, nessuna alta carica delle istituzioni è ricoperta da figure che vengono dalla storia del partito comunista. Ma al tempo stesso quella storia, cui Napolitano pienamente appartiene, è stata parte importante di questa transizione, ha fatto in qualche modo da preparazione a questo esito. Esso deve molto, occorre ricordarlo sempre, anche al “senso della missione” di Giorgio Napolitano (sono le parole che egli dedicò qualche anno fa ai Costituenti). Non viene dal partito comunista Matteo Renzi, naturalmente, e non vengono da quella storia i presidenti di Camera e Senato: e forse proprio le modalità della loro elezione hanno dato un importante impulso a questo cammino. Non sono stati eletti con quella logica politica “pigliatutto” che aveva avuto largo corso nella prima e nella seconda repubblica, e non furono neppure frutto di quell’ equilibrio partitico aperto anche all’opposizione che era stato inaugurato felicemente, e finalmente, nel 1976 con l’elezione alla presidenza della Camera di Pietro Ingrao: equilibrio rotto poi dalle scelte del 1994 di Silvio Berlusconi (purtroppo imitate poi anche dal centrosinistra). Fu uno spirito diverso quello in cui maturò la scelta di Pietro Grasso e di Laura Boldrini, e portò per un attimo un soffio di speranza: presto soffocata da quel che avvenne, e che costrinse a fare appello al grande spirito di sacrificio di Giorgio Napolitano. Eppure un seme importante fu messo con quella elezione, e oggi va riconosciuto a Pierluigi Bersani di averlo saputo porre.
Anche per la storia del mondo cattolico l’elezione di Sergio Mattarella è in qualche modo una novità: non viene dal popolarismo prefascista, come era stato per Gronchi, e non ha vissuto l’aura della fondazione della Repubblica come Oscar Luigi Scalfaro. Viene da una storia recente, è testimone dei drammi e al tempo stesso della dignità della Repubblica: dall’assassinio mafioso del fratello al suo personale impegno nel trasformare la Dc siciliana (la Dc dei Lima e dei Ciancimino, cui seppe opporre il sindaco antimafia Leoluca Orlando). Sino alla rigorosa interpretazione delle leggi che lo portarono a dimettersi di fronte al diktat craxianberlusconiano sulla legge Mammì. Caso senza precedenti — è stato scritto —, quello di dimissioni collettive di ministri per coerenza politica, ma non è vero: avvenne anche ai tempi di Tambroni che alcuni ministri democristiani si dimettessero, in questo caso di fronte al sostegno determinante al governo del Movimento sociale italiano. Fecero prevalere le ragioni della democrazia, e furono sostituiti in un batter di ciglio anche allora. Mattarella rinvia inoltre all’avvio della transizione dal vecchio sistema dei partiti: alla legge elettorale poi abolita dal Porcellum, e anche a quella fedeltà al cattolicesimo democratico che è stato dato per morto con troppa facilità e che ha portato lui (e Rosi Bindi, e molti altri) a opporsi alle derive filoberlusconiane. Rinvia, Sergio Mattarella, alle origini del Partito democratico (Pietro Scoppola, che ne stese assieme a lui e ad altri il manifesto, oggi ne sarebbe lieto). Rinvia al ruolo importantissimo della Corte costituzionale nella nostra tormentata transizione. E fu anche ministro della Difesa nella difficilissima situazione della guerra e del dopoguerra del Kossovo: lo hanno dimenticato quegli imbarazzati esponenti del vecchio e del nuovo centrodestra che si sono appigliati sin alla sua presunta mancanza di esperienza internazionale. E si sono appigliati soprattutto «al metodo» seguito da Renzi, alla «imposizione» che essi avrebbero subito. Un’altra bugia dalle gambe corte: accanto al profilo di Sergio Mattarella è stato importante proprio il metodo che il segretario del Partito democratico ha seguito. Anche quel metodo fa sperare che la transizione abbia fatto un passo in avanti decisivo. Molti veti sono stati posti a Renzi nei colloqui che ha avuto — che ha voluto avere — con gli altri partiti: il nuovo presidente non doveva venire dalla storia del Partito comunista, doveva essere un moderato (meglio se cattolico, aveva aggiunto Alfano), non doveva essere un tecnico ma un politico, doveva essere un grande conoscitore delle istituzioni e della Costituzione, una figura di alto profilo (e non doveva essere persona troppo vicina a Renzi, e così via). Sergio Mattarella è tutto questo e più ancora: c’è da sperare davvero che oggi un voto larghissimo non consacri solo un nuovo presidente ma anche un modo di essere della Repubblica.


Centrodestra sull’Aventino e ritorno
di Marcello Sorgi La Stampa 31.1.15
La giornata del 30 gennaio, vigilia della quarta votazione e dell’elezione, che tutti danno ormai per scontata, di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, verrà ricordata per l’imprevista insurrezione del centrodestra a favore del candidato del Pd. Un mormorio, sfociato in aperta rivolta, contro la decisione annunciata dai capigruppo di Forza Italia Brunetta e Romani, di impedire ai loro Grandi Elettori di ritirare le schede e partecipare alla quarta e decisiva votazione, per far ricadere tutto l’onere dell’elezione sul centrosinistra e fargli scontare un maggior rischio di non raggiungere il quorum a causa dei franchi tiratori.

Se tutto ciò è potuto rientrare, è stato grazie all’iniziativa, assunta formalmente da Renzi, di chiedere pubblicamente un largo appoggio al nome di Mattarella. E a sorpresa, a spingere per un accordo tra il premier e il ministro dell’Interno è stato l’ex-Presidente Giorgio Napolitano, che da senatore a vita ha fatto nuovamente sentire il peso della sua esperienza e della sua moral suasion.

Così l’Aventino è stato rinnegato, dapprima, in aperta rottura del patto di consultazione, dal Ncd. E successivamente smentito da Berlusconi, che ha confermato la scelta della scheda bianca. Quanti dei suoi decideranno lo stesso di votare per Mattarella, è difficile dire, prima dello scrutinio.
Ma la sensazione è che nel segreto dell’urna si sommeranno i consensi di chi non accetta il «no» pregiudiziale al candidato con quelli di chi lo voterà solo per ribellarsi a Berlusconi e al modo in cui ha condotto la trattativa per il Quirinale. Accettando di pagare la pesante cambiale della legge elettorale, per poi motivare il proprio ritiro con il «tradimento» di Renzi e la violazione del metodo sancito dal patto del Nazareno.
Il gran rifiuto dell’ex-Cavaliere sarebbe stato più comprensibile se dalle consultazioni fosse uscito un candidato post-comunista o un ex-segretario del Pd. In fondo, nel 2006, Berlusconi si oppose alla candidatura di D’Alema e a Napolitano diede scheda bianca, senza stare a contare i franchi tiratori della sua parte che alla fine si schierarono per Re Giorgio. La non partecipazione al voto, invece, era stata usata due anni fa per isolare il centrosinistra nella tragica votazione in cui contro Prodi spuntarono i 101.
Ma di fronte a un moderato come Mattarella, ieri, molti dei parlamentari di Forza Italia e Ncd hanno fatto sentire la loro voce, costringendo l’ex-Cavaliere a ripiegare e a garantire che i Grandi Elettori sarebbero entrati in aula e avrebbero ritirato le schede, sia pure per depositarle bianche nell’urna. Era questa la libera uscita che senatori, deputati e rappresentanti delle regioni aspettavano per votare come gli pare.
Dopo la svolta e la contro-svolta di Forza Italia, anche Alfano ha capito che era indispensabile riaprire la trattativa. È stato Napolitano in persona, visibilmente presente nella lunga giornata di votazioni, ad adoperarsi per convincerlo dell’inaccettabilità della mancata partecipazione del ministro dell’Interno all’elezione del Presidente della Repubblica, o anche della semplice astensione: con la conseguenza, politicamente perniciosa, della spaccatura della maggioranza di governo, proprio nel momento in cui la sinistra radicale si riavvicinava al Pd. Conseguentemente, e sempre su consiglio di Napolitano, Renzi ha rivolto ad Alfano un appello formale, diramato dopo un lungo incontro tra i due, per la massima convergenza possibile sul nome del futuro Capo dello Stato: una corsia di salvataggio che il ministro e leader di Ncd non ha tardato a imboccare. La decisione di passare dalla scheda bianca al voto a favore di Mattarella, formalmente affidata nella notte all’assemblea dei parlamentari, in pratica era già presa da ore.
Alla fine Mattarella, da candidato di sfida del centrosinistra, è diventato il Presidente in pectore che oggi, nello spirito della Costituzione, sarà eletto da un ampio arco di forze politiche e da deputati e senatori di centrodestra che sceglieranno di disubbidire agli ordini dei loro partiti. Qualcuno si spinge a dire che anche Berlusconi, nella notte, potrebbe averci ripensato. Non è detto: ma non sarebbe neppure la più clamorosa delle giravolte a cui l’ex-Cavaliere ci ha abituato negli ultimi tempi.



Sconfitto sul Colle Berlusconi rischia anche in Forza Italia
Decine di grandi elettori azzurri pronti a seguire Renzi

di Ugo Magri La Stampa 31.1.15

Dopo aver perso la partita del Colle, Berlusconi rischia oggi di farsi sfuggire di mano Forza Italia e di restare praticamente in pochi intimi, lui e il suo «cerchio magico». Se è vero il tam-tam della vigilia, frotte di «grandi elettori» forzisti sarebbero pronti a convergere stamane su Mattarella (che non amano) come gesto di rivolta contro i vertici del partito che li hanno condotti in questo cul-de-sac. Per cui ieri sera erano in molti a ipotizzare che l’ex Cavaliere fosse pronto a una capriola in extremis. E, vista la mala parata, impartire ordine di ritirarsi, trasformando la scheda bianca in un voto a favore di Mattarella... Alfano, Casini e Gianni Letta hanno tentato di convincerlo in tutti i modi che questa era la sola via di scampo, ma finora senza successo. «Non se ne parla nemmeno, ci rimetterei pure la faccia», è stata la risposta infuriata. Berlusconi sceglie di resistere ed eventualmente farsi travolgere, però con un sussulto di dignità.
Sotto un treno
Berlusconi sta come uno che in due giorni è precipitato da padre costituente, co-fondatore insieme a Renzi di un presunto Partito della Nazione, a condannato che deve tornare nel pieno delle trattative a Cesano Boscone per scontare la pena e seguire via telefono la Caporetto «azzurra». Sedotto e abbandonato, secondo il vecchio Bossi che si aggira a Montecitorio con un mezzo toscano penzolante dalle labbra. Profondamente offeso dal trattamento che gli ha riservato il premier, testimoniano le sue «pie donne», Carfagna in testa. Tradito dal premier e «ri-tradito» da Ncd, il cui ritorno a casa, prendono atto con sconforto ad Arcore, «è durato meno di 24 ore». E, adesso, pure con un partito che gli esplode come una bomba.
Resa dei conti
I 40 di Fitto sono inferociti contro il leader e «le badanti» (espressione dell’ex ministro) per aver messo Forza Italia al servizio del premier, salvo ricavarne una risata in faccia. Voteranno scheda bianca, ma se ci saranno defezioni nell’urna tutti penseranno subito a loro. E non soltanto a loro. Una trentina di «grandi elettori» che si richiamano a Verdini sono anch’essi con la bava alla bocca. Invocano un grande repulisti per motivi opposti ai fittiani ma ai fini pratici convergenti: accusano «cerchio magico» e capigruppo di avere indotto Silvio a rompere l’incantesimo del Nazareno, fino al delirio di ieri mattina quando un vertice Romani-Brunetta ha deciso che no, non sarà scheda bianca ma addirittura Aventino: nessuno stamane al voto per evitare i «franchi soccorritori», come li definisce spiritoso Gasparri (quelli che «votano nell’urna il candidato della sinistra in odio al Cav...»). È stato Berlusconi stesso a fermarli, appena uscito dalla comunità «Sacra Famiglia»: «Avevo detto scheda bianca e quella dev’essere», ha ribadito testardo fino a notte, nel tentativo di barcamenarsi tra gli opposti estremismi. Scuote la testa Minzolini: «Berlusconi va dicendo: “È tornato il teatrino della politica”. No, è tornata la politica. Che nel bene e nel male è proprio questa».



Il dietrofront sul Colle e l’anno zero del centrodestra
Il patto del Nazareno è stato smontato e riscritto portando la leadership politica nelle mani di Renzi

di Stefano Folli Repubblica 31.1.15

L’ULTIMO tassello dell’operazione Mattarella è la nota di Matteo Renzi diffusa nel pomeriggio di ieri. Un auspicio, niente di più, alla «convergenza parlamentare» sul nome del designato perché egli la merita: è una figura degna, un servitore delle istituzioni e soprattutto non appartiene «a un solo partito». Poche parole, poco impegnative, senza concessioni sul piano politico. Costruite in modo di non dare il segno di una debolezza, di un timore improvviso alla vigilia del voto decisivo.
Nessun accenno, nemmeno indiretto, ai vecchi accordi parlamentari con il centrodestra (il patto del Nazareno, in linguaggio giornalistico). Ma un preciso obiettivo: recuperare i centristi di Alfano alla maggioranza di governo, impedire lo strano caso di un ministro dell’Interno che non vota il presidente della Repubblica. Obiettivo raggiunto perché il gruppo di Area Popolare (Ncd-Udc), al termine di una giornata di tormenti e mediazioni, non chiedeva altro se non una ragione formale per intraprendere il viaggio di ritorno. Le brevi righe di Renzi sono servite perfettamente allo scopo, dopo che il presidente «in pectore» Sergio Mattarella, che non è un parlamentare ma un giudice della Consulta, aveva rifiutato di farsi coinvolgere nel gioco degli appelli, a conferma di uno stile personale fondato sulla serietà dei comportamenti.
Sullo sfondo, al di là di Alfano, anche Berlusconi si è mosso. La nota di Palazzo Chigi gli ha permesso di tornare alla scheda bianca, rinunciando all’idea di non partecipare al voto, di fatto un auto-isolamento e una scelta ostile. Sarà una scheda bianca che assomiglia a un tacito «rompete le righe», nel senso che un certo numero di parlamentari di Forza Italia, al riparo del voto segreto, andranno in soccorso al vincitore. Anche così si riallaccia un filo verso destra. Adesso hanno poco senso le minacce berlusconiane, rese esplicite da Brunetta, di interrompere il lavoro comune sulle riforme. La rabbia comincia a sbollire e prevale la valutazione realistica delle convenienze. La prima delle quali suggerisce a Berlusconi di non perdere il contatto con Renzi, l’interlocutore privilegiato, ma anche l’unico, di ieri e di domani.
È chiaro che il famoso «patto»è stato smontato e riscritto dagli eventi: Berlusconi lo pensava come la premessa della diarchia, Renzi gli ha fatto capire che ormai la leadership politica è nelle sue mani. Ma il non aver spezzato tutti i fili è un atto di saggezza: il presidente del Consiglio evita di stravincere, Berlusconi sfugge alla tentazione autolesionista del «fronte del no». Quanto ad Alfano, con il ritorno a casa non gli sarà imputata la responsabilità di una crisi di governo e magari, chissà, delle elezioni anticipate: sarebbe stata una punizione sproporzionata per aver tentato di giocare, con forze esigue, un ruolo di primo piano nella scelta del capo dello Stato.
In effetti nella storia della Repubblica nessuno, fino a ieri, ha preteso di far coincidere in modo meccanico la maggioranza di governo con quella istituzionale che elegge il presidente. Né si sono mai innescate vendette e ritorsioni contro un «metodo» sgradito o un capo dello Stato diverso da quello immaginato. Il che non significa che gli strappi di questi giorni saranno privi di conseguenze politiche. Renzi, cioè il vincitore, dovrà continuare nella paziente opera di ricucitura. I rischi di destabilizzazione sono stati circoscritti e neutralizzati, anche grazie alla sorprendente opera mediatrice svolta da Napolitano, un presidente emerito che non ha intenzione di starsene con le mani in mano.
Ci sarà bisogno di una fase di riflessione nel mondo centrista e anche Berlusconi non potrà esimersi dal ragionare su quanto è successo. Le rendite di posizione non esistono, non c’è «patto» che possa garantire la difesa statica di certi interessi. In un certo senso oggi il centrodestra è all’anno zero e la vicenda Mattarella lo dimostra. Tutto lascia pensare che il giudice costituzionale sarà eletto stamane al Quirinale. Per l’Italia comincia il percorso verso una Terza Repubblica dai contorni ancora indefiniti.

Ora il Pd non sia un freno alle riforme
di Sergio Fabbrini Il Sole 31.1.15
Certamente il partito (il Pd) che rappresenta il 45% dei grandi elettori del presidente della Repubblica non poteva non assumersi la prerogativa di proporre il suo candidato per quel ruolo. Nel farlo, tuttavia, è stato condizionato più dal suo passato che dal suo futuro.
Dietro il metodo e la strategia utilizzati per giungere alla candidatura di Sergio Mattarella (che è un ottimo candidato) si è manifestata una preoccupazione esclusiva da parte del Pd. Evitare il ripetersi del dramma dell'aprile 2013, quando il partito si divise tra diversi candidati, fino al punto da spaccarsi di fronte alla candidatura del suo fondatore, Romano Prodi. Ciò che successe in quel mese ha poi cambiato la storia del partito (e della legislatura appena nata). In quell’occasione morì il partito oligarchico dei capetti in costante rivalità, proprio per effetto della crisi di fiducia che era esplosa tra il partito e il paese. Il Pd di oggi è un partito radicalmente diverso da quello di allora. È un partito del leader divenuto inospitale verso la logica delle correnti e delle fazioni del passato. Inevitabilmente, il partito del leader ha presentato un unico candidato ai suoi grandi elettori, un candidato che rispondesse primariamente alla necessità di ricucire il rapporto di fiducia tra di esso e l’opinione pubblica. Ricostruire quella fiducia è, per Matteo Renzi, una condizione indispensabile per mantenere il controllo del governo. Per questo motivo, occorreva suturare la ferita del 2013, dimostrando agli elettori che lui è stato in grado di ri-portare ordine tra i suoi, evitando così gli errori dei suoi predecessori. D’altra parte, così succede anche in altri paesi. Negli Stati Uniti, ad esempio, i candidati presidenziali che emergono vincenti dalle primarie sono quelli che con più determinazione si sono distinti dai presidenti precedenti.
Ma se è comprensibile la preoccupazione che ha guidato la scelta di Matteo Renzi, è bene tuttavia non sottovalutarne le implicazioni sistemiche. Quella scelta è stata maturata all’interno del Pd, non già all’interno della maggioranza di governo, tanto meno all’interno della maggioranza parlamentare che ha finora sostenuto il processo delle riforme istituzionali. Naturalmente ogni problema ha una sua soluzione. Il governo quotidiano e la riforma del sistema possono basarsi su maggioranze diverse, così come l'elezione del presidente della Repubblica può scaturire da convergenze impreviste tra grandi elettori di partiti diversi. Tuttavia, è indubbio che una relazione virtuosa tra questi passaggi istituzionali avrebbe sicuramente favorito un loro esito positivo. L’elezione del presidente della Repubblica da parte di una maggioranza principalmente di sinistra avrà probabili conseguenze negative sulla fiducia reciproca tra il Pd e Forza Italia quando ripartirà (a breve) la discussione parlamentare sulla riforma del bicameralismo. È ovvio che le due cose sono distinte, ma è anche ovvio che nelle scelte di sistema la convergenza tra forze opposte costituisce una basilare condizione di legittimità.
Renzi e i suoi sanno che nel partito che sono riusciti a ricomporre in occasione dell’elezione presidenziale continuano ad agire gli avversari irriducibili delle riforme strutturali del paese. L’asse di sinistra che si è formato in occasione dell'elezione presidenziale non potrà dunque reggere la strategia riformatrice che riprenderà dopo l’elezione presidenziale. Quella strategia, per avere successo, richiederà il sostegno di forze esterne a quell’asse. Non solo per ragioni di legittimità, ma soprattutto per ragioni di necessità, Renzi non potrà concludere il processo riformatore senza il sostegno parlamentare delle forze modernizzatrici del centro-destra. Così, come si dice, si risolve un problema per crearne un altro. Per chiudere la vicenda del 2013 Matteo Renzi ha dovuto ricomporre il partito, ma la ricomposizione del partito può diventare una trappola quando riprenderà la riforma istituzionale ed economica. Da quella trappola si può uscire solamente avendo chiaro che i partiti sono un mezzo e non un fine. L'unità del partito non è un bene in sé, se è di ostacolo alla riforma del sistema. Il bene in sé è una democrazia italiana finalmente adeguata al XXI secolo, non un partito pacificato intorno alla preservazione di una democrazia che era già vecchia nel secolo precedente. Per troppo tempo, in Italia, si sono privilegiati i partiti alle istituzioni, gli interessi particolari a quelli collettivi. L’unità interna ai partiti è stata vista come il bene supremo cui sacrificare gli interessi del paese. Questo paradigma concettuale deve essere combattuto con forza, in quanto da esso sono derivati molti dei nostri problemi nazionali. I partiti che abbiamo oggi sono parte del problema, non della soluzione. Se le riforme andranno avanti, essi si divideranno di nuovo al loro interno. Un esito necessario se si vuole adeguare il sistema partitico alle esigenze del governo del paese (e non viceversa). Se Renzi e suoi sono consapevoli di ciò, allora è bene che ricostruiscano i nessi che collegano trasversalmente i riformatori dei vari schieramenti. Un lavoro che dovrà beneficiare dell’aiuto del nuovo presidente della Repubblica, in continuità con il lavoro svolto dal presidente precedente.

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