Il che non significa affatto che è meglio che vincano gli altri. La vittoria di Syriza sarebbe importante. Il fatto è però che l'Italia è un paese strano [SGA].
Cofferati lascia il Pd: "Non posso più restare"
Corriere 17.11.15
La Grecia e il partito della sinistra Syriza sono stati al centro di un ordine del giorno (approvato) alla direzione del Pd di ieri. Il testo, primo firmatario l’esponente della minoranza interna Stefano Fassina, chiede al Partito socialista europeo di aprire un confronto col partito guidato da Alexis Tsipras, favorito secondo i sondaggi alle Politiche del 25 gennaio. Nella mozione c’è poi un aspetto che impegna direttamente il Pd a chiedere al governo di Matteo Renzi di intervenire per evitare che nelle prossime elezioni ci siano «ingerenze» di altri Stati e «istituzioni europee e internazionali». Più si avvicina il momento del voto più aumentano le prese di posizione di esponenti della sinistra a sostegno della corsa di Syriza: ieri alla Camera è stata presentata la campagna «Cambia la Grecia cambia l’Europa» a favore — hanno spiegato i firmatari — «della libera scelta del popolo greco». Sono finora circa 1.400 le persone che hanno sottoscritto l’appello (nella foto Inside da destra Pippo Civati, deputato del Pd, e Nichi Vendola, presidente di Sel. Alle loro spalle il pd Stefano Fassina).
Syriza, Fassina (Pd): "Nuova sinistra anche in Italia? Prima i contenuti"
Al governo, ma con chi? Nodo alleanze per Syriza Grecia. Tsipras cerca accordi, ma nella coalizione c’è chi frena. E i comunisti del Kke dicono noPavlos Nerantzis, il Manifesto ATENE, 16.1.2015
Che Syriza sarà il partito vincitore delle prossime elezioni è considerato ormai un fatto certo da tutti i greci, compresi quelli che votano per Nea Dimokratria. La sinistra radicale sta lievamente aumentando la sua differenza dai conservatori, raccogliendo oltre il 31 per cento delle preferenze contro il 28 del partito del premier uscente Antonis Samaras.
Secondo gli ultimi sondaggi, al terzo posto tra il 5,5–4,5 per cento si trovano il Potami (Il Fiume), una nuova organizzazione centrista fondata dal giornalista televisivo Stavros Teodorakis, poi i nazisti di Chrysi Avghi (Alba Dorata) e i comunisti del Kke. Il Pasok, partner fino a ieri del governo di coalizione, supera la soglia del 3 per cento, mentre rischiano di rimanere fuori dal nuovo parlamento, raccogliendo poco piú del 2 per cento, i Greci indipendenti (Anel), partito anti-memorandum di destra, il Movimento dei socialisti democratici, fondato due settimane fa dall’ex premier Yorgos Papandreou, la Sinistra democratica (Dimar, sinistra moderata) e Antarsya, una formazione della sinistra di origine trotzkista. Una parte degli Ecologisti verdi, invece, ha scelto di collaborare con Syriza, mentre un’altra con la Sinistra democratica.
Se così staranno le cose, per Syriza sarà molto difficile fare un governo da sola. La legge elettorale offre un bonus di 50 seggi al partito vincente, ma la formazione di un governo monocolore non dipende soltanto dalla percentuale presa, ma anche dalla somma delle percentuali che raccoglieranno i partiti che non riusciranno a superare la soglia del 3 per cento nelle prossime elezioni. Se per esempio questa somma arriva al 15 per cento, Syriza potrebbe formare un governo anche con il 34,5 per cento. Se, invece, i partiti rimasti fuori dal parlamento raccolgono il 10 per cento dei voti, la sinistra radicale greca dovrà ottenere oltre il 36 per cento per poter costituire un governo monocolore.
L’obiettivo quindi di un governo tutto Syriza, per essere più forti contro la troika (Fmi, Ue, Bce) come vorebbe Alexis Tsipras, è molto complicato. Così come per il momento rimane incerto l’obiettivo di una maggioranza solida e quindi forte a trattare e a resistere alle pressioni dei mercati e dei creditori internazionali, Berlino compresa. Ecco perché la questione delle alleanze post-elettorali diventa una questione di primaria importanza per il giorno dopo, oltre ovviamente all’hair-cut del debito pubblico e all’annullamento dei memorandum, questioni che riguardano i rapporti di Atene con i creditori internazionali. Intanto, a prescindere dalle eventuali difficoltà per la formazione del governo, il nuovo parlamento deve comunque eleggere il Presidente della Repubblica.
Per il momento in via Koumoundourou, quartier generale di Syriza, Tsipras e tutti gli esponenti del partito non perdono occasione per sottolineare la necessità di ottenere una «grande vittoria», con una percentuale alta (oltre il 35 per cento). Non solo perché la legge elettorale è «abusiva», bensì per il fatto che sia a destra che a sinistra di Syriza non ci sono ponti di dialogo per un’eventuale cooperazione post-elettorale con forze politiche collaterali. Negli ultimi mesi, il dibattito tra gli «alleanzisti» e gli «incoalizzabili» è stato spesso difficile.
Alexis Tsipras fin dall’inizio era a favore di alleanze con «forze politiche che si svincolano dai memorandum», ma anche con personalità provenienti da altre aree ideologiche. Invece Panajotis Lafazanis, capogruppo parlamentare di Syriza e leader della componente Aristero Revma, si è schierato contro «qualsiasi collaborazione con le forze e le persone considerati responsabili degli accordi con la troika». L’«alleanzista» Tsipras, insomma, si presenta più aperto nei confronti di chi ha cambiato rotta nei confronti della troika, mentre l’«incoalizzabile» Lafazanis non vorrebbe avere alcun rapporto con i socialisti pentiti.
Alla fine la querelle si è risolta con un compromesso, pure questo non ben chiaro per una parte dell’elettorato: sì a una collaborazione con ex parlamentari provenienti dal Pasok che avevano votato a favore dei primi accordi con i creditori internazionali; no a un dialogo e a un eventuale accordo programmatico con le forze a destra di Syriza e quindi con il centrosinistra.
Indicativa a questo proposito è stata la conclusione degli incontri tra Alexis Tsipras e Fotis Kouvelis, leader della Sinistra democratica (Dimokratiki aristera, Dimar). Componente fino al 2010 di Syriza, di cui esprimeva l’ala moderata e riformista, erede della cultura eurocomunista, la Sinistra democratica prima si è allontanata dalla coalizione della sinistra radicale, poi ha deciso di far parte del governo di larghe intese guidato da Samaras, ma ha abbandonato i suoi partner conservatori e socialisti subito dopo la chiusura-choc della radio-televisione pubblica nel giugno del 2013. Kouvelis, vecchio esponente della sinistra greca, anche come partner del governo di coalizione non ha smesso di criticare l’operato governativo. Negli ultimi mesi Tsipras e Kouvelis stavano lavorando insieme per una collaborazione in base a un accordo programmatico tra Syriza e Dimar.
Ma la maggioranza degli esponenti dei due partiti erano contrari a questa prospettiva e nella sua ultima riunione il comitato centrale di Syriza ha concluso che la Sinistra democratica «sta dall’altra parte della barricata». Analoga posizione di rifiuto Syriza ha, ovviamente, nei confronti del Pasok e del Movimento dei socialisti democratici dell’ex premier Yorgos Papandreou — «sono forze politiche che hanno distrutto la Grecia» ha detto Tsipras — e di Potami (Il Fiume), visto che «è una forza dello status quo».
Tsipras ha invece lanciato un invito per una collaborazione post-elettorale alle altre forze della sinistra, il Partito comunista di Grecia (Kke) e i trotzkisti di Antarsya. Ma la risposta dei comunisti del Kke è sempre la stessa: un categorico «no». «Dicono che vorrebbero fare la rivoluzione, ma discutono con i rappresentanti della City e del Bilderberg Group», sottolinea il segretario del Kke, Dimitris Koutsumbas, descrivendo Syriza come «una forza filoborghese che accetta il memorandum».
In realtà il dibattito interno a Syriza sulle alleanze rispecchia i differenti modi in cui le undici componenti di cui è composta la coalizione vorrebbero governare la Grecia. C’è chi crede che il Paese potrebbe essere governato senza trattare con nessuno e chi sostiene che il dialogo è comunque necessario anche con gli avversari. C’è chi vorrebbe essere a tutti i costi radicale e chi vede la sua moderazione come «un male necessario» per affrontare la crisi umanitaria del Paese.
Di fatto, il vantaggio di un pluralismo, di tante voci diverse che convivevano sotto lo stesso tetto rischia ora di indebolire la capacità di trattare e la forza di governo di Syriza. «In questo momento l’unica forza alternativa nel paese siamo noi. Una volta al governo) prenderemo delle decisioni unilaterali», dice Lafazanis sull’annullamento del memorandum. «No agli atti unilaterali», risponde invece il parlamentare di Syriza Yorgos Stathakis, professore di economia.
«Dobbiamo farla finita con Il poliglottismo», ha sottolineato pochi giorni fa Alexis Tsipras, ma difficilmente verrà ascoltato. È questo pluralismo di idee e di posizioni su come affrontare gli avversari che rischia di diventare il tallone d’Achille per Alexis Tsipras, il giorno dopo il voto del 25 gennaio.
Le cinquanta sfumature della sinistra italianaLa campagna. Cambiare la Grecia, cambiare l’Europa
Daniela Preziosi, il Manifesto 16.1.2015
Riunione di famiglia della sinistra anti-renzista ieri a Montecitorio. Ci sono tutti, nuovi amici ex compagni, vecchi compagni ex amici: da Nichi Vendola a Pippo Civati a Stefano Fassina, ma c’è anche Paolo Ferrero, Antonio Ingroia, Luca Casarini, l’attore Ivano Marescotti, il costituzionalista Gianni Ferrara.
Chi non poteva, ha inviato un messaggio, come il sociologo Marco Revelli.
A pochi passi, nel Transatlantico, infuria la battaglia sul prossimo presidente della repubblica.
Qui, nell’auletta delle conferenze stampa, le cinquanta sfumature della sinistra sono d’accordo su un nome. Però è Alexis Tsipras, e non stiamo parlando dell’Italia ma della repubblica greca che il prossimo 25 gennaio andrà al voto. Tsipras e la sua Syriza, la coalizione della sinistra radicale, sono favoriti e da ieri puntano persino a un governo monocolore.
L’occasione della rimpatriata è la presentazione ai media della campagna di solidarietà “Cambia la Grecia, cambia l’Europa”. C’è un appello firmato da mille e cinquecento persone e c’è una spedizione della autonominata (e autoironica) “Brigata Kalimera”, duecento italiani che andranno ad Atene, spiega Raffaella Bolini (dell’Altra Europa, già dell’Arci), «a portare a Syriza la nostra vicinanza e ammirazione, a chiedere a loro di vincere anche per noi».
La campagna di solidarietà infatti «va rovesciata», spiega Luciana Castellina, giornalista e fondatrice del manifesto ma anche politica di lungo corso, «in realtà non è Syriza a ricevere la nostra solidarietà, ma noi la loro».
Non è una battuta: in Grecia la sinistra sta per vincere le elezioni, in Italia fin qui ha miracolosamente messo insieme un 4 per cento alle europee, un milione di voti. Ma la speranza c’è: «Non avrei mai pensato — dice Castellina — che la sinistra greca, litigiosa come e più di quella italiana, sarebbe riuscita a stare unita».
Ma il punto non è (per ora) l’Italia, o solo l’Italia, ma il cataclisma politico che può portare su tutta Europa l’eventuale vittoria di Alexis Tsipras.
«Tsipras è l’alternativa alla povertà e alla paura», attacca Vendola, al contrario di Renzi che ha vissuto il «fallimentare» semestre di presidenza della Ue «come una critica di costume alle politiche dell’austerità, non come una critica politica all’impianto liberista dell’Europa».
Per Pippo Civati le elezioni in Grecia «rappresentano una sfida che investe anche il Pd. C’è una continuità che dobbiamo ritrovare», dice, all’indirizzo degli ex alleati di Sel, quelli della ‘sinistra di governo’.
Stavolta con Civati è d’accordo anche Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, che rivendica la primazia dei rapporti con la sinistra radicale greca, quando da noi Tsipras era un nome sconosciuto. Oggi in Grecia si può puntare, dice, a «un’alternativa che non sia solo pratica di opposizione e di conflitto ma anche di governo. E’ il segnale che dovremmo dare anche noi in Italia».
Insomma, la morale è che per vincere le scommesse italiane serve innanzitutto che i greci vincano le loro.
Per Stefano Fassina, Pd, sono «inaccettabili le ingerenze che tanti governi e istituzioni europee hanno fatto pesare sulla Grecia» (Più tardi, alla direzione del suo partito propone una mozione che dice esattamente così: e sarà approvata, anche Renzi dirà sì). Quelle di Tsipras, conclude Fassina, non sono ricette estremistiche: «E’ proprio il contrario: la proposta di Syriza è realistica e mette in evidenza che un’alternativa è possibile e necessaria. La sinistra riesce a unirsi e a vincere, quando costruisce un programma autonomo rispetto al paradigma dominante».
E anche qui si parla di Grecia, ma il discorso sembra perfetto anche per l’Italia.
La tradizione ex Pci e la corsa al Colle
La direzione del Pd di ieri non ha toccato uno dei punti dirimenti nella scelta per il Colle: le tradizioni politiche del partito. E in particolare dell’ex Pci. di Lina Palmerini Il Sole 17.11.15E invece la riflessione che spesso circola tra la minoranza è il rischio che tra i vertici delle istituzioni potrebbe non esserci più alcun rappresentante di quella storia.
Ieri Matteo Renzi ha illustrato un metodo per il coinvolgimento di tutto il partito nella scelta delle candidature per il Colle ma poi il dibattito ha visto gli esponenti della minoranza concentrarsi su due aspetti che apparentemente nulla avevano a che fare con il capo dello Stato: le primarie in Ligura e il decreto fiscale con l’errore del Governo sulla depenalizzazione delle frodi. Su quest’ultimo punto la polemica c’era già stata ma a colpire di più è stato lo strascico di divisioni ancora vive sulle primarie liguri che hanno segnalato tutto il malumore della minoranza Pd. Un malumore che è soprattutto la preoccupazione nel vedere lentamente ritirarsi - fino al rischio di “estinzione” - un’area politica, quella che ha visto la sconfitta di Sergio Cofferati contro Raffaella Paita, con 4mila voti di scarto. Dunque la storia nuova renziana che fagocita la tradizione, la marginalizza, attraverso le primarie ma anche attraverso una legge elettorale con i capilista bloccati.
Quei malumori usciti allo scoperto ieri sono sembrati il primo vero segno di tensione sul Quirinale: la preoccupazione, appunto, di non avere più nessuno tra i vertici del potere politico-istituzionale che appartenga a quella storia di sinistra che va dal Pci e arriva al Pd. Oggi al Senato c’è Pietro Grasso, alla Camera Laura Boldrini, a Palazzo Chigi Matteo Renzi e a capo del partito di nuovo Renzi, che non è di quella storia. Finora Giorgio Napolitano ha dato la rappresentanza più alta, primo presidente a provenire dal partito comunista, ma ora? C’è il rischio che questa area non abbia più una sponda politico-istituzionale e si assottigli fino a sparire. Questa è la domanda che tormenta le correnti di sinistra alla vigilia dello scontro sul Quirinale.
“Figli di un dio minore”, definì Massimo D’Alema gli ex comunisti nel ’98, proprio prima di entrare a Palazzo Chigi. E adesso si torna a quel malessere con l’aggravante che si è rimasti alle divisioni del passato se perfino la minoranza è divisa in due o tre parti. E quindi se da un lato c’è la preoccupazione legittima che al Colle salga una personalità vicina a Renzi - popolare e cattolica - è anche vero che quel mondo ex comunista è ancora dilaniato dalle lotte dei decenni scorsi. Non si riconoscono nell’area che esprime Renzi ma non si riconoscono neppure - in modo unitario - nella figura di uno degli ex leader di quella tradizione fino al Pd. Con un paradosso ora perfettamente visibile: che la sinistra ha sempre rivendicato l’avversione per l’uomo forte ma è poi vissuta di forti personalità sempre in guerra tra loro. È questa l’impasse che vive la minoranza Pd e anche quella parte che è confluita nella maggioranza renziana: voler esprimere un “proprio” candidato ma non essere nelle condizioni di farlo. Non riuscire - almeno finora - a trovare una figura di riconciliazione dopo una lunga storia di scontri e vendette.
Ed è con questa frustrazione che potrebbe fare i conti Renzi. Una frustrazione che facilmente può trasformarsi nella manovra puramente distruttiva di franchi tiratori che non potendo imporre il proprio candidato impallinano gli altri. Alla fine tutto l’ex Pci, minoranza e maggioranza Pd, si trova dinanzi al suo dilemma di sempre. Quello delle sue divisioni.
Matteo incassa l’ok di Bersani “Faremo quel che dirà lui”
L’ex segretario pronto a votare anche Amato o Mattarella
di Carlo Bertini La Stampa 17.11.15
Matteo Renzi rassicura la minoranza interna con due mosse: in pubblico chiama tutti alla battaglia promettendo una cogestione della scelta passo dopo passo; e in privato lascia che i suoi facciano trapelare che in pole position vi siano i nomi di Giuliano Amato e Sergio Mattarella: che per motivi diversi potrebbero compattare gran parte del Pd, dai democristiani ai bersanian-dalemiani. Mattarella poi, stando ai rumors di Palazzo, sarebbe in grado pure di strappare il consenso di una sinistra (anche tra i 5stelle) che vedrebbe in lui una sorta di argine al patto del Nazareno, visto i suoi trascorsi di ministro Dc dimissionario contro la legge Mammì sulle Tv. Insomma, la prima mossa del leader di coinvolgere tutti fino alla fine del percorso piace ai «compagni», che vogliono contare in questa partita. E che per questo apprezzano pure l’avvertimento tra le righe lanciato da Renzi a Berlusconi: tradotto da un renziano doc è «facci capire chi comanda in Forza Italia, se tu o Brunetta, che altrimenti saremo in grado di eleggercelo da soli, il capo dello Stato, noi del Pd insieme ai centristi della maggioranza».
Lo dimostra il fatto che Pierluigi Bersani è pronto a votare sia Mattarella che Amato, due nomi che erano nella prima terna (il terzo era Marini) che due anni fa propose a Silvio Berlusconi. «Io sono coerente e non cambio mica idea», ammette l’ex segretario seduto su un divano alla Camera. «Certo io ci sono caduto l’altra volta su Prodi e mi è difficile non votarlo alla prima, alla terza o alla settima votazione che sia».
Ma quando gli si chiede se davvero sia disposto a tradire l’indicazione del partito con l’operazione di votare Prodi e non scheda bianca ai primi tre scrutini, l’ex leader si fa serio. «No alla fine si farà quel che dice Renzi, e io non la vedo così drammatica come si pensa, stavolta è diverso da due anni fa. E inoltre i candidati che girano non sono così divisivi...».
Bersani è ben informato, se non altro per averne parlato con Renzi due giorni fa. Accanto a lui siede Davide Zoggia, che in Direzione tende la mano, «ora partiamo dal Pd e offriamo un profilo in cui tutti noi ci riconosciamo e che possa fare da sintesi». Dopo la Direzione, a microfoni spenti i colonnelli di Bersani dicono che «Amato però rischia di spaccare il Pd, Mattarella meno». E non credono che Renzi abbia già chiuso un accordo con Berlusconi, «lo si vede dall’atteggiamento dei gruppi parlamentari di Forza Italia che frenano le riforme». Il premier infatti ancora deve capire che intenzioni abbia il Cavaliere. «Vedremo che succede la prossima settimana alla Camera, tutti i gruppi hanno chiesto di sospendere i lavori e il più accanito è Brunetta», fanno notare i renziani.
Berlusconi non ha ancora detto sì al nome di Mattarella, mentre Amato, che a Renzi non dispiace, «presenta qualche criticità in più perché sarebbe poco compreso dall’opinione pubblica, per via del suo passato troppo vicino a Craxi», ammettono gli uomini del premier. Il quale, a sentir cosa dicono quelli a lui più vicini, vedrebbe bene pure Fassino, gradito agli ex Ds e pare non sgradito neanche a Berlusconi. Ma che la partita sia solo all’inizio, lo prova tutto questo inseguirsi di voci, comprese quelle che danno i centristi di Alfano in gran fermento insieme ai fittiani sul nome di Pierferdinando Casini.
La tattica del dialogo
di Marcello Sorgi La Stampa 17.1.15Alla prima direzione del Pd convocata dopo le dimissioni di Napolitano, per discutere la successione al Quirinale, Renzi s’è presentato con un insolito (per lui) atteggiamento dialogante con la minoranza, proteso verso un accordo unitario. Nella consapevolezza che l’elezione del Presidente dipende in gran parte dal suo partito, e il peso di un nuovo fallimento, come quello del 2013, lo riguarderebbe in pieno.
Renzi ha proposto una sorta di convocazione permanente della direzione, la formazione di una delegazione composta da vicesegretari, capigruppo e presidente del Pd, chiamata a trattare con tutti gli altri partiti e a concludere accordi con chi ci sta, M5s incluso, e senza privilegi per nessuno, Berlusconi compreso. Massimo di informazioni condivise per tutto il percorso e poi, alla vigilia della convocazione delle Camere riunite, assemblea dei grandi elettori per scegliere il nome da proporre e la tattica per farlo eleggere, se alla prima votazione o dalla quarta in poi. Di fronte a un’impostazione così aperta, la minoranza non ha potuto che consentire, anche se controllerà che le promesse siano mantenute.
La sensazione, dopo l’irrigidimento dì giovedì e dopo la richiesta di posticipare a dopo le votazioni per il Capo dello Stato l’approvazione della legge elettorale e il voto sulla riforma del Senato (che il premier, al contrario, intende ottenere anche con sedute parlamentari notturne), è che Renzi voglia capire cosa sta succedendo al centrodestra. Senza escludere, patto del Nazareno o no, che Berlusconi alla fine non voti il candidato Presidente proposto dal centrosinistra, né più né meno come fece nel 2006, quando, dopo molte indecisioni, ritirò l’appoggio promesso a D’Alema e si rifiutò di sostenere Napolitano, che la prima volta fu eletto con i soli voti del centrosinistra e qualche aiuto di singoli.
L’ex-Cavaliere in realtà deciderà solo all’ultimo, valutando il nome o i nomi che gli saranno proposti. Ma chi pensava che avrebbe votato qualsiasi nome, pur di non restare isolato, comincia a ricredersi. Perché Berlusconi avrebbe indubbie convenienze a non rispettare il patto con Renzi: con un’unica mossa riunificherebbe il suo partito e tutto o quasi il centrodestra: c’è da vedere infatti cosa farebbero Alfano e Area Popolare se Forza Italia e Lega si schierassero per il no al candidato del Pd. Alla vigilia del voto per le regionali (e chissà se solo di quello) non sarebbe facile per i centristi votare per un candidato del centrosinistra, mentre il resto della destra si ricompatta all’opposizione. Meglio, per ora, stare alla finestra, in attesa di vedere cosa la corsa al Colle smuoverà nel Pd e fino a che punto Berlusconi resisterà sul suo Aventino.
La prima sfida è arrivare al 29 gennaio con il Pd unito
di Massimo Franco Corriere 17.11.15L’ applauso che ieri Matteo Renzi ha sollecitato alla direzione del Pd per un «minorenne» per il Quirinale, Nico Stumpo, è significativo. «Almeno tu non hai cinquant’anni», lo ha benedetto scherzosamente. È evidente che il segretario-premier sente la pressione della filiera dei candidati interni. E per quanto sostenga che il loro numero «non è un problema», si rende conto di doverne scontentare la quasi totalità. Anche per questo ribadisce che la questione del capo dello Stato sarà discussa col partito e gli alleati di governo. E annuncia che la designazione avverrà solo ventiquattro ore prima dell’inizio delle votazioni a Camere riunite, il 29 gennaio.Dire che se si ripeterà la situazione del 2013, quando non si riuscì ad eleggere un nuovo capo dello Stato, il Pd sarà additato come colpevole, è un appello-monito all’unità. E tradisce il timore che prevalga la voglia di sabotare la strategia renziana. Non a caso, l’intervento che il presidente del Consiglio ha fatto ieri è stato rivolto all’interno. Per definire il Pd «forza tranquilla»; per rivendicare soluzioni che dovrebbero avere tacitato la minoranza, soprattutto sulla legge elettorale; insomma, per far capire che riterrebbe incomprensibile una fronda sull’Italicum, «difficilmente migliorabile», nel Pd.È sempre più evidente che la priorità di Renzi nei prossimi giorni sarà di garantirsi la compattezza del proprio partito. Senza quella, risulterà più difficile piegare le resistenze di una Forza Italia in ebollizione; ed eleggere il presidente della Repubblica che vuole. E infatti, alcuni dei nomi emersi nelle ultime ore in mezzo a molti altri segnalano questo: l’intenzione di rassicurare gli avversari interni. Sono alcuni esponenti storici del Pd quelli da convincere: molto più dei Civati, dei Cuperlo e dei Fassina. Il «via libera» all’accordo con Fi non può non passare per il «placet» di quanti, dentro e fuori dal Parlamento, possono influire sui gruppi parlamentari.D’altronde, prima ancora della presidenza della Repubblica, nei prossimi dieci giorni sarà necessaria una marcia a tappe forzate per approvare legge elettorale e riforma del Senato. L’ostruzionismo strisciante minacciato da Fi, dalla Lega e dal M5S di Beppe Grillo può saldarsi con i malumori della minoranza del Pd. «Sarebbe allucinante bloccare il percorso di riforme per l’elezione del capo dello Stato. Abbiamo scelto il metodo del dialogo e sono convinto che il Pd non fallirà», ammonisce il premier. Ma occorreranno sedute notturne e una presenza senza distrazioni. L’incastro risulta complicato dall’ombra persistente del patto del Nazareno tra Renzi e Silvio Berlusconi. È riemersa anche ieri in alcuni interventi in direzione. Il pasticcio del decreto fiscale presentato e ritirato dal governo perché depenalizzerebbe uno dei reati per i quali è stato condannato il capo di FI, aleggia. Renzi ha ribadito la volontà di correggerlo solo dopo il 20 febbraio. Questo ripropone le domande sul perché voglia aspettare tanto. Gli oppositori del Movimento 5 Stelle continuano ad accusarlo di voler scambiare i voti berlusconiani sul capo dello Stato con una sorta di «grazia» surrettizia concessa da palazzo Chigi. Ma l’ombra del nulla di fatto della primavera del 2013, per Renzi, è più imbarazzante, per il Pd. Evocandola, Renzi confida di far passare in secondo piano il resto .
La mossa di Migliore e quei gazebo appesi al groviglio campanoCorriere 17.1.15Primarie - La serie. Chi volesse far concorrenza a Gomorra in tv con un giallo d’autore ha già il copione scritto. Invece di recidere il nodo gordiano di quelle Campane, infatti, il Pd è finito in uno «gliommero» gaddiano, in un groviglio inestricabile, in un pasticcio assoluto. L’ultimo atto? Gennaro Migliore, ex delfino di Vendola passato dal pessimismocosmico di Sel all’ottimismo strategicodi Renzi, è pronto a candidarsi per le Regionali. E se per fare questo deve sottoporsi al rito delle primarie, che si facciano! «Io non ho paura» dice, pur sapendo di dover fare i conti con due campioni del consenso: l’ex bassoliniano Andrea Cozzolino, più volte assessore regionale e ora deputato europeo e Vincenzo De Luca, sindaco di Salernoda una vita e, nel frattempo, anche viceministro nel governo Letta. Marinviate già due volte, e ora fissate peril primo giorno di febbraio, non è dettoche le primarie campane si facciano davvero. Lo scontro è bipolare: da unaparte i renziani, che non le vogliono; dall’altro gli eterni rivali: Cozzolino e De Luca, divisi su tutto, ma uniti dalla vogliadi vedere di quante truppe sia capace Migliore. Guarda caso, però, proprioora i microalleati del Pd chiedono altro tempo per nuove candidature; e poici sono da considerare le elezioni per il presidente della Repubblica: impossibile sovrapporle alle primarie. Dunque? Che dubbio c’è: nuovo rinvio e lo spettacolo continua.
Ma lo «gliommero» è logico prima ancora che politico. Se Cozzolino è «indigesto», perché il Pd lo ha presentato alle Europee?
E se De Luca è un ostacolo all’innovazione, come mai è sempre in prima fila? Eppoi: i renziani di Migliore fanno sapere che mai e poi mai accetteranno voti di destra: il riferimento è a Vincenzo D’Anna, vicino a Cosentino, l’ex berlusconiano ora sotto processo, che ha raccontato di essersi incontrato sia con Cozzolino sia con De Luca. Eppure, i renziani sono quelli che in Liguria hanno invece accettato i voti degli scajoliani a Raffaella Paita. La cui vittoria, dopo le accuse di brogli lanciate da Cofferati, è stata decretata annullando solo 13 seggi. A Napoli, nel 2011, quando ad accusare fu invece Umberto Ranieri, l’annullamento non fu parziale ma totale. Trovare un bandolo?
È una parola.
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