sabato 17 gennaio 2015

Trasformismo in tempo reale: l'Opa del PSE su Tachipirinas. Se Syriza vince, Nuovo Centrosinistra


Il che non significa affatto che è meglio che vincano gli altri. La vittoria di Syriza sarebbe importante. Il fatto è però che l'Italia è un paese strano [SGA].


23 gennaio 2015 ROMA
"Alexis Tsipras. La mia Sinistra"


alle ore 17.00 presso l'Associazione della Stampa Estera


(via dell'Umiltà 83/c) la presentazione del libro


ALEXIS TSIPRAS. LA MIA SINISTRA

Intervista con il leader di Syriza.

di Teodoro Andreadis Synghellakis 

(Ed. Bordeaux)


saluti istituzionali MAARTEN VAN AALDEREN

intervengono MASSIMO D'ALEMA e STEFANO RODOTA'

modera LUCIA ANNUNZIATA


video intervento di ALEXIS TSIPRAS


Cofferati lascia il Pd: "Non posso più restare"

L'europarlamentare, sconfitto alle primarie, dopo le dure critiche sulla gestione delle votazioni, ha deciso di lasciare il suo partito


Il sì dei dem al documento pro-Syriza
Corriere 17.11.15
La Grecia e il partito della sinistra Syriza sono stati al centro di un ordine del giorno (approvato) alla direzione del Pd di ieri. Il testo, primo firmatario l’esponente della minoranza interna Stefano Fassina, chiede al Partito socialista europeo di aprire un confronto col partito guidato da Alexis Tsipras, favorito secondo i sondaggi alle Politiche del 25 gennaio. Nella mozione c’è poi un aspetto che impegna direttamente il Pd a chiedere al governo di Matteo Renzi di intervenire per evitare che nelle prossime elezioni ci siano «ingerenze» di altri Stati e «istituzioni europee e internazionali». Più si avvicina il momento del voto più aumentano le prese di posizione di esponenti della sinistra a sostegno della corsa di Syriza: ieri alla Camera è stata presentata la campagna «Cambia la Grecia cambia l’Europa» a favore — hanno spiegato i firmatari — «della libera scelta del popolo greco». Sono finora circa 1.400 le persone che hanno sottoscritto l’appello (nella foto Inside da destra Pippo Civati, deputato del Pd, e Nichi Vendola, presidente di Sel. Alle loro spalle il pd Stefano Fassina).


Syriza, Fassina (Pd): "Nuova sinistra anche in Italia? Prima i contenuti"
Così il deputato della minoranza dem Stefano Fassina ha risposto a chi gli chiedeva se l'eventuale vittoria di Syriza in Grecia potrebbe dare la spinta alla nascita di un nuovo partito di sinistra anche in Italia
Repubblica

Al governo, ma con chi? Nodo alleanze per Syriza Grecia. Tsipras cerca accordi, ma nella coalizione c’è chi frena. E i comunisti del Kke dicono noPavlos Nerantzis, il Manifesto ATENE, 16.1.2015
Che Syriza sarà il par­tito vin­ci­tore delle pros­sime ele­zioni è con­si­de­rato ormai un fatto certo da tutti i greci, com­presi quelli che votano per Nea Dimo­kra­tria. La sini­stra radi­cale sta lie­va­mente aumen­tando la sua dif­fe­renza dai con­ser­va­tori, rac­co­gliendo oltre il 31 per cento delle pre­fe­renze con­tro il 28 del par­tito del pre­mier uscente Anto­nis Samaras.
Secondo gli ultimi son­daggi, al terzo posto tra il 5,5–4,5 per cento si tro­vano il Potami (Il Fiume), una nuova orga­niz­za­zione cen­tri­sta fon­data dal gior­na­li­sta tele­vi­sivo Sta­vros Teo­do­ra­kis, poi i nazi­sti di Chrysi Avghi (Alba Dorata) e i comu­ni­sti del Kke. Il Pasok, part­ner fino a ieri del governo di coa­li­zione, supera la soglia del 3 per cento, men­tre rischiano di rima­nere fuori dal nuovo par­la­mento, rac­co­gliendo poco piú del 2 per cento, i Greci indi­pen­denti (Anel), par­tito anti-memorandum di destra, il Movi­mento dei socia­li­sti demo­cra­tici, fon­dato due set­ti­mane fa dall’ex pre­mier Yor­gos Papan­dreou, la Sini­stra demo­cra­tica (Dimar, sini­stra mode­rata) e Antar­sya, una for­ma­zione della sini­stra di ori­gine trotz­ki­sta. Una parte degli Eco­lo­gi­sti verdi, invece, ha scelto di col­la­bo­rare con Syriza, men­tre un’altra con la Sini­stra democratica.
Se così sta­ranno le cose, per Syriza sarà molto dif­fi­cile fare un governo da sola. La legge elet­to­rale offre un bonus di 50 seggi al par­tito vin­cente, ma la for­ma­zione di un governo mono­co­lore non dipende sol­tanto dalla per­cen­tuale presa, ma anche dalla somma delle per­cen­tuali che rac­co­glie­ranno i par­titi che non riu­sci­ranno a supe­rare la soglia del 3 per cento nelle pros­sime ele­zioni. Se per esem­pio que­sta somma arriva al 15 per cento, Syriza potrebbe for­mare un governo anche con il 34,5 per cento. Se, invece, i par­titi rima­sti fuori dal par­la­mento rac­col­gono il 10 per cento dei voti, la sini­stra radi­cale greca dovrà otte­nere oltre il 36 per cento per poter costi­tuire un governo monocolore.
L’obiettivo quindi di un governo tutto Syriza, per essere più forti con­tro la troika (Fmi, Ue, Bce) come vorebbe Ale­xis Tsi­pras, è molto com­pli­cato. Così come per il momento rimane incerto l’obiettivo di una mag­gio­ranza solida e quindi forte a trat­tare e a resi­stere alle pres­sioni dei mer­cati e dei cre­di­tori inter­na­zio­nali, Ber­lino com­presa. Ecco per­ché la que­stione delle alleanze post-elettorali diventa una que­stione di pri­ma­ria impor­tanza per il giorno dopo, oltre ovvia­mente all’hair-cut del debito pub­blico e all’annullamento dei memo­ran­dum, que­stioni che riguar­dano i rap­porti di Atene con i cre­di­tori inter­na­zio­nali. Intanto, a pre­scin­dere dalle even­tuali dif­fi­coltà per la for­ma­zione del governo, il nuovo par­la­mento deve comun­que eleg­gere il Pre­si­dente della Repubblica.
Per il momento in via Kou­moun­dou­rou, quar­tier gene­rale di Syriza, Tsi­pras e tutti gli espo­nenti del par­tito non per­dono occa­sione per sot­to­li­neare la neces­sità di otte­nere una «grande vit­to­ria», con una per­cen­tuale alta (oltre il 35 per cento). Non solo per­ché la legge elet­to­rale è «abu­siva», bensì per il fatto che sia a destra che a sini­stra di Syriza non ci sono ponti di dia­logo per un’eventuale coo­pe­ra­zione post-elettorale con forze poli­ti­che col­la­te­rali. Negli ultimi mesi, il dibat­tito tra gli «allean­zi­sti» e gli «incoa­liz­za­bili» è stato spesso difficile.
Ale­xis Tsi­pras fin dall’inizio era a favore di alleanze con «forze poli­ti­che che si svin­co­lano dai memo­ran­dum», ma anche con per­so­na­lità pro­ve­nienti da altre aree ideo­lo­gi­che. Invece Pana­jo­tis Lafa­za­nis, capo­gruppo par­la­men­tare di Syriza e lea­der della com­po­nente Ari­stero Revma, si è schie­rato con­tro «qual­siasi col­la­bo­ra­zione con le forze e le per­sone con­si­de­rati respon­sa­bili degli accordi con la troika». L’«alleanzista» Tsi­pras, insomma, si pre­senta più aperto nei con­fronti di chi ha cam­biato rotta nei con­fronti della troika, men­tre l’«incoalizzabile» Lafa­za­nis non vor­rebbe avere alcun rap­porto con i socia­li­sti pentiti.
Alla fine la que­relle si è risolta con un com­pro­messo, pure que­sto non ben chiaro per una parte dell’elettorato: sì a una col­la­bo­ra­zione con ex par­la­men­tari pro­ve­nienti dal Pasok che ave­vano votato a favore dei primi accordi con i cre­di­tori inter­na­zio­nali; no a un dia­logo e a un even­tuale accordo pro­gram­ma­tico con le forze a destra di Syriza e quindi con il centrosinistra.
Indi­ca­tiva a que­sto pro­po­sito è stata la con­clu­sione degli incon­tri tra Ale­xis Tsi­pras e Fotis Kou­ve­lis, lea­der della Sini­stra demo­cra­tica (Dimo­kra­tiki ari­stera, Dimar). Com­po­nente fino al 2010 di Syriza, di cui espri­meva l’ala mode­rata e rifor­mi­sta, erede della cul­tura euro­co­mu­ni­sta, la Sini­stra demo­cra­tica prima si è allon­ta­nata dalla coa­li­zione della sini­stra radi­cale, poi ha deciso di far parte del governo di lar­ghe intese gui­dato da Sama­ras, ma ha abban­do­nato i suoi part­ner con­ser­va­tori e socia­li­sti subito dopo la chiusura-choc della radio-televisione pub­blica nel giu­gno del 2013. Kou­ve­lis, vec­chio espo­nente della sini­stra greca, anche come part­ner del governo di coa­li­zione non ha smesso di cri­ti­care l’operato gover­na­tivo. Negli ultimi mesi Tsi­pras e Kou­ve­lis sta­vano lavo­rando insieme per una col­la­bo­ra­zione in base a un accordo pro­gram­ma­tico tra Syriza e Dimar.
Ma la mag­gio­ranza degli espo­nenti dei due par­titi erano con­trari a que­sta pro­spet­tiva e nella sua ultima riu­nione il comi­tato cen­trale di Syriza ha con­cluso che la Sini­stra demo­cra­tica «sta dall’altra parte della bar­ri­cata». Ana­loga posi­zione di rifiuto Syriza ha, ovvia­mente, nei con­fronti del Pasok e del Movi­mento dei socia­li­sti demo­cra­tici dell’ex pre­mier Yor­gos Papan­dreou — «sono forze poli­ti­che che hanno distrutto la Gre­cia» ha detto Tsi­pras — e di Potami (Il Fiume), visto che «è una forza dello sta­tus quo».
Tsi­pras ha invece lan­ciato un invito per una col­la­bo­ra­zione post-elettorale alle altre forze della sini­stra, il Par­tito comu­ni­sta di Gre­cia (Kke) e i trotz­ki­sti di Antar­sya. Ma la rispo­sta dei comu­ni­sti del Kke è sem­pre la stessa: un cate­go­rico «no». «Dicono che vor­reb­bero fare la rivo­lu­zione, ma discu­tono con i rap­pre­sen­tanti della City e del Bil­der­berg Group», sot­to­li­nea il segre­ta­rio del Kke, Dimi­tris Kou­tsum­bas, descri­vendo Syriza come «una forza filo­bor­ghese che accetta il memorandum».
In realtà il dibat­tito interno a Syriza sulle alleanze rispec­chia i dif­fe­renti modi in cui le undici com­po­nenti di cui è com­po­sta la coa­li­zione vor­reb­bero gover­nare la Gre­cia. C’è chi crede che il Paese potrebbe essere gover­nato senza trat­tare con nessuno e chi sostiene che il dia­logo è comun­que neces­sa­rio anche con gli avver­sari. C’è chi vor­rebbe essere a tutti i costi radi­cale e chi vede la sua mode­ra­zione come «un male neces­sa­rio» per affron­tare la crisi uma­ni­ta­ria del Paese.
Di fatto, il van­tag­gio di un plu­ra­li­smo, di tante voci diverse che con­vi­ve­vano sotto lo stesso tetto rischia ora di inde­bo­lire la capa­cità di trat­tare e la forza di governo di Syriza. «In que­sto momento l’unica forza alter­na­tiva nel paese siamo noi. Una volta al governo) pren­de­remo delle deci­sioni uni­la­te­rali», dice Lafa­za­nis sull’annullamento del memo­ran­dum. «No agli atti uni­la­te­rali», risponde invece il par­la­men­tare di Syriza Yor­gos Sta­tha­kis, pro­fes­sore di economia.
«Dob­biamo farla finita con Il poli­glot­ti­smo», ha sot­to­li­neato pochi giorni fa Ale­xis Tsi­pras, ma dif­fi­cil­mente verrà ascol­tato. È que­sto plu­ra­li­smo di idee e di posi­zioni su come affron­tare gli avver­sari che rischia di diven­tare il tal­lone d’Achille per Ale­xis Tsi­pras, il giorno dopo il voto del 25 gennaio.


Le cinquanta sfumature della sinistra italianaLa campagna. Cambiare la Grecia, cambiare l’Europa
Daniela Preziosi, il Manifesto 16.1.2015
Riu­nione di fami­glia della sini­stra anti-renzista ieri a Mon­te­ci­to­rio. Ci sono tutti, nuovi amici ex com­pa­gni, vec­chi com­pa­gni ex amici: da Nichi Ven­dola a Pippo Civati a Ste­fano Fas­sina, ma c’è anche Paolo Fer­rero, Anto­nio Ingroia, Luca Casa­rini, l’attore Ivano Mare­scotti, il costi­tu­zio­na­li­sta Gianni Ferrara.
Chi non poteva, ha inviato un mes­sag­gio, come il socio­logo Marco Revelli.
A pochi passi, nel Tran­sa­tlan­tico, infu­ria la bat­ta­glia sul pros­simo pre­si­dente della repubblica.
Qui, nell’auletta delle con­fe­renze stampa, le cin­quanta sfu­ma­ture della sini­stra sono d’accordo su un nome. Però è Ale­xis Tsi­pras, e non stiamo par­lando dell’Italia ma della repub­blica greca che il pros­simo 25 gen­naio andrà al voto. Tsi­pras e la sua Syriza, la coa­li­zione della sini­stra radi­cale, sono favo­riti e da ieri pun­tano per­sino a un governo monocolore.
L’occasione della rim­pa­triata è la pre­sen­ta­zione ai media della cam­pa­gna di soli­da­rietà “Cam­bia la Gre­cia, cam­bia l’Europa”. C’è un appello fir­mato da mille e cin­que­cento per­sone e c’è una spe­di­zione della auto­no­mi­nata (e autoi­ro­nica) “Bri­gata Kali­mera”, due­cento ita­liani che andranno ad Atene, spiega Raf­faella Bolini (dell’Altra Europa, già dell’Arci), «a por­tare a Syriza la nostra vici­nanza e ammi­ra­zione, a chie­dere a loro di vin­cere anche per noi».
La cam­pa­gna di soli­da­rietà infatti «va rove­sciata», spiega Luciana Castel­lina, gior­na­li­sta e fon­da­trice del mani­fe­sto ma anche poli­tica di lungo corso, «in realtà non è Syriza a rice­vere la nostra soli­da­rietà, ma noi la loro».
Non è una bat­tuta: in Gre­cia la sini­stra sta per vin­cere le ele­zioni, in Ita­lia fin qui ha mira­co­lo­sa­mente messo insieme un 4 per cento alle euro­pee, un milione di voti. Ma la spe­ranza c’è: «Non avrei mai pen­sato — dice Castel­lina — che la sini­stra greca, liti­giosa come e più di quella ita­liana, sarebbe riu­scita a stare unita».
Ma il punto non è (per ora) l’Italia, o solo l’Italia, ma il cata­cli­sma poli­tico che può por­tare su tutta Europa l’eventuale vit­to­ria di Ale­xis Tsipras.
«Tsi­pras è l’alternativa alla povertà e alla paura», attacca Ven­dola, al con­tra­rio di Renzi che ha vis­suto il «fal­li­men­tare» seme­stre di pre­si­denza della Ue «come una cri­tica di costume alle poli­ti­che dell’austerità, non come una cri­tica poli­tica all’impianto libe­ri­sta dell’Europa».
Per Pippo Civati le ele­zioni in Gre­cia «rap­pre­sen­tano una sfida che inve­ste anche il Pd. C’è una con­ti­nuità che dob­biamo ritro­vare», dice, all’indirizzo degli ex alleati di Sel, quelli della ‘sini­stra di governo’.
Sta­volta con Civati è d’accordo anche Paolo Fer­rero, segre­ta­rio di Rifon­da­zione comu­ni­sta, che riven­dica la pri­ma­zia dei rap­porti con la sini­stra radi­cale greca, quando da noi Tsi­pras era un nome sco­no­sciuto. Oggi in Gre­cia si può pun­tare, dice, a «un’alternativa che non sia solo pra­tica di oppo­si­zione e di con­flitto ma anche di governo. E’ il segnale che dovremmo dare anche noi in Italia».
Insomma, la morale è che per vin­cere le scom­messe ita­liane serve innan­zi­tutto che i greci vin­cano le loro.
Per Ste­fano Fas­sina, Pd, sono «inac­cet­ta­bili le inge­renze che tanti governi e isti­tu­zioni euro­pee hanno fatto pesare sulla Gre­cia» (Più tardi, alla dire­zione del suo par­tito pro­pone una mozione che dice esat­ta­mente così: e sarà appro­vata, anche Renzi dirà sì). Quelle di Tsi­pras, con­clude Fas­sina, non sono ricette estre­mi­sti­che: «E’ pro­prio il con­tra­rio: la pro­po­sta di Syriza è rea­li­stica e mette in evi­denza che un’alternativa è pos­si­bile e neces­sa­ria. La sini­stra rie­sce a unirsi e a vin­cere, quando costrui­sce un pro­gramma auto­nomo rispetto al para­digma dominante».
E anche qui si parla di Gre­cia, ma il discorso sem­bra per­fetto anche per l’Italia.



La tradizione ex Pci e la corsa al Colle
La direzione del Pd di ieri non ha toccato uno dei punti dirimenti nella scelta per il Colle: le tradizioni politiche del partito. E in particolare dell’ex Pci. di Lina Palmerini 
Il Sole 17.11.15E invece la riflessione che spesso circola tra la minoranza è il rischio che tra i vertici delle istituzioni potrebbe non esserci più alcun rappresentante di quella storia.
Ieri Matteo Renzi ha illustrato un metodo per il coinvolgimento di tutto il partito nella scelta delle candidature per il Colle ma poi il dibattito ha visto gli esponenti della minoranza concentrarsi su due aspetti che apparentemente nulla avevano a che fare con il capo dello Stato: le primarie in Ligura e il decreto fiscale con l’errore del Governo sulla depenalizzazione delle frodi. Su quest’ultimo punto la polemica c’era già stata ma a colpire di più è stato lo strascico di divisioni ancora vive sulle primarie liguri che hanno segnalato tutto il malumore della minoranza Pd. Un malumore che è soprattutto la preoccupazione nel vedere lentamente ritirarsi - fino al rischio di “estinzione” - un’area politica, quella che ha visto la sconfitta di Sergio Cofferati contro Raffaella Paita, con 4mila voti di scarto. Dunque la storia nuova renziana che fagocita la tradizione, la marginalizza, attraverso le primarie ma anche attraverso una legge elettorale con i capilista bloccati.
Quei malumori usciti allo scoperto ieri sono sembrati il primo vero segno di tensione sul Quirinale: la preoccupazione, appunto, di non avere più nessuno tra i vertici del potere politico-istituzionale che appartenga a quella storia di sinistra che va dal Pci e arriva al Pd. Oggi al Senato c’è Pietro Grasso, alla Camera Laura Boldrini, a Palazzo Chigi Matteo Renzi e a capo del partito di nuovo Renzi, che non è di quella storia. Finora Giorgio Napolitano ha dato la rappresentanza più alta, primo presidente a provenire dal partito comunista, ma ora? C’è il rischio che questa area non abbia più una sponda politico-istituzionale e si assottigli fino a sparire. Questa è la domanda che tormenta le correnti di sinistra alla vigilia dello scontro sul Quirinale.
“Figli di un dio minore”, definì Massimo D’Alema gli ex comunisti nel ’98, proprio prima di entrare a Palazzo Chigi. E adesso si torna a quel malessere con l’aggravante che si è rimasti alle divisioni del passato se perfino la minoranza è divisa in due o tre parti. E quindi se da un lato c’è la preoccupazione legittima che al Colle salga una personalità vicina a Renzi - popolare e cattolica - è anche vero che quel mondo ex comunista è ancora dilaniato dalle lotte dei decenni scorsi. Non si riconoscono nell’area che esprime Renzi ma non si riconoscono neppure - in modo unitario - nella figura di uno degli ex leader di quella tradizione fino al Pd. Con un paradosso ora perfettamente visibile: che la sinistra ha sempre rivendicato l’avversione per l’uomo forte ma è poi vissuta di forti personalità sempre in guerra tra loro. È questa l’impasse che vive la minoranza Pd e anche quella parte che è confluita nella maggioranza renziana: voler esprimere un “proprio” candidato ma non essere nelle condizioni di farlo. Non riuscire - almeno finora - a trovare una figura di riconciliazione dopo una lunga storia di scontri e vendette.
Ed è con questa frustrazione che potrebbe fare i conti Renzi. Una frustrazione che facilmente può trasformarsi nella manovra puramente distruttiva di franchi tiratori che non potendo imporre il proprio candidato impallinano gli altri. Alla fine tutto l’ex Pci, minoranza e maggioranza Pd, si trova dinanzi al suo dilemma di sempre. Quello delle sue divisioni.

Matteo incassa l’ok di Bersani “Faremo quel che dirà lui”
L’ex segretario pronto a votare anche Amato o Mattarella
di Carlo Bertini 
La Stampa 17.11.15
Matteo Renzi rassicura la minoranza interna con due mosse: in pubblico chiama tutti alla battaglia promettendo una cogestione della scelta passo dopo passo; e in privato lascia che i suoi facciano trapelare che in pole position vi siano i nomi di Giuliano Amato e Sergio Mattarella: che per motivi diversi potrebbero compattare gran parte del Pd, dai democristiani ai bersanian-dalemiani. Mattarella poi, stando ai rumors di Palazzo, sarebbe in grado pure di strappare il consenso di una sinistra (anche tra i 5stelle) che vedrebbe in lui una sorta di argine al patto del Nazareno, visto i suoi trascorsi di ministro Dc dimissionario contro la legge Mammì sulle Tv. Insomma, la prima mossa del leader di coinvolgere tutti fino alla fine del percorso piace ai «compagni», che vogliono contare in questa partita. E che per questo apprezzano pure l’avvertimento tra le righe lanciato da Renzi a Berlusconi: tradotto da un renziano doc è «facci capire chi comanda in Forza Italia, se tu o Brunetta, che altrimenti saremo in grado di eleggercelo da soli, il capo dello Stato, noi del Pd insieme ai centristi della maggioranza».
Lo dimostra il fatto che Pierluigi Bersani è pronto a votare sia Mattarella che Amato, due nomi che erano nella prima terna (il terzo era Marini) che due anni fa propose a Silvio Berlusconi. «Io sono coerente e non cambio mica idea», ammette l’ex segretario seduto su un divano alla Camera. «Certo io ci sono caduto l’altra volta su Prodi e mi è difficile non votarlo alla prima, alla terza o alla settima votazione che sia».
Ma quando gli si chiede se davvero sia disposto a tradire l’indicazione del partito con l’operazione di votare Prodi e non scheda bianca ai primi tre scrutini, l’ex leader si fa serio. «No alla fine si farà quel che dice Renzi, e io non la vedo così drammatica come si pensa, stavolta è diverso da due anni fa. E inoltre i candidati che girano non sono così divisivi...».
Bersani è ben informato, se non altro per averne parlato con Renzi due giorni fa. Accanto a lui siede Davide Zoggia, che in Direzione tende la mano, «ora partiamo dal Pd e offriamo un profilo in cui tutti noi ci riconosciamo e che possa fare da sintesi». Dopo la Direzione, a microfoni spenti i colonnelli di Bersani dicono che «Amato però rischia di spaccare il Pd, Mattarella meno». E non credono che Renzi abbia già chiuso un accordo con Berlusconi, «lo si vede dall’atteggiamento dei gruppi parlamentari di Forza Italia che frenano le riforme». Il premier infatti ancora deve capire che intenzioni abbia il Cavaliere. «Vedremo che succede la prossima settimana alla Camera, tutti i gruppi hanno chiesto di sospendere i lavori e il più accanito è Brunetta», fanno notare i renziani.
Berlusconi non ha ancora detto sì al nome di Mattarella, mentre Amato, che a Renzi non dispiace, «presenta qualche criticità in più perché sarebbe poco compreso dall’opinione pubblica, per via del suo passato troppo vicino a Craxi», ammettono gli uomini del premier. Il quale, a sentir cosa dicono quelli a lui più vicini, vedrebbe bene pure Fassino, gradito agli ex Ds e pare non sgradito neanche a Berlusconi. Ma che la partita sia solo all’inizio, lo prova tutto questo inseguirsi di voci, comprese quelle che danno i centristi di Alfano in gran fermento insieme ai fittiani sul nome di Pierferdinando Casini.

La tattica del dialogo
di Marcello Sorgi 
La Stampa 17.1.15Alla prima direzione del Pd convocata dopo le dimissioni di Napolitano, per discutere la successione al Quirinale, Renzi s’è presentato con un insolito (per lui) atteggiamento dialogante con la minoranza, proteso verso un accordo unitario. Nella consapevolezza che l’elezione del Presidente dipende in gran parte dal suo partito, e il peso di un nuovo fallimento, come quello del 2013, lo riguarderebbe in pieno.
Renzi ha proposto una sorta di convocazione permanente della direzione, la formazione di una delegazione composta da vicesegretari, capigruppo e presidente del Pd, chiamata a trattare con tutti gli altri partiti e a concludere accordi con chi ci sta, M5s incluso, e senza privilegi per nessuno, Berlusconi compreso. Massimo di informazioni condivise per tutto il percorso e poi, alla vigilia della convocazione delle Camere riunite, assemblea dei grandi elettori per scegliere il nome da proporre e la tattica per farlo eleggere, se alla prima votazione o dalla quarta in poi. Di fronte a un’impostazione così aperta, la minoranza non ha potuto che consentire, anche se controllerà che le promesse siano mantenute.
La sensazione, dopo l’irrigidimento dì giovedì e dopo la richiesta di posticipare a dopo le votazioni per il Capo dello Stato l’approvazione della legge elettorale e il voto sulla riforma del Senato (che il premier, al contrario, intende ottenere anche con sedute parlamentari notturne), è che Renzi voglia capire cosa sta succedendo al centrodestra. Senza escludere, patto del Nazareno o no, che Berlusconi alla fine non voti il candidato Presidente proposto dal centrosinistra, né più né meno come fece nel 2006, quando, dopo molte indecisioni, ritirò l’appoggio promesso a D’Alema e si rifiutò di sostenere Napolitano, che la prima volta fu eletto con i soli voti del centrosinistra e qualche aiuto di singoli.
L’ex-Cavaliere in realtà deciderà solo all’ultimo, valutando il nome o i nomi che gli saranno proposti. Ma chi pensava che avrebbe votato qualsiasi nome, pur di non restare isolato, comincia a ricredersi. Perché Berlusconi avrebbe indubbie convenienze a non rispettare il patto con Renzi: con un’unica mossa riunificherebbe il suo partito e tutto o quasi il centrodestra: c’è da vedere infatti cosa farebbero Alfano e Area Popolare se Forza Italia e Lega si schierassero per il no al candidato del Pd. Alla vigilia del voto per le regionali (e chissà se solo di quello) non sarebbe facile per i centristi votare per un candidato del centrosinistra, mentre il resto della destra si ricompatta all’opposizione. Meglio, per ora, stare alla finestra, in attesa di vedere cosa la corsa al Colle smuoverà nel Pd e fino a che punto Berlusconi resisterà sul suo Aventino.

La prima sfida è arrivare al 29 gennaio con il Pd unito
di Massimo Franco 
Corriere 17.11.15L’ applauso che ieri Matteo Renzi ha sollecitato alla direzione del Pd per un «minorenne» per il Quirinale, Nico Stumpo, è significativo. «Almeno tu non hai cinquant’anni», lo ha benedetto scherzosamente. È evidente che il segretario-premier sente la pressione della filiera dei candidati interni. E per quanto sostenga che il loro numero «non è un problema», si rende conto di doverne scontentare la quasi totalità. Anche per questo ribadisce che la questione del capo dello Stato sarà discussa col partito e gli alleati di governo. E annuncia che la designazione avverrà solo ventiquattro ore prima dell’inizio delle votazioni a Camere riunite, il 29 gennaio.Dire che se si ripeterà la situazione del 2013, quando non si riuscì ad eleggere un nuovo capo dello Stato, il Pd sarà additato come colpevole, è un appello-monito all’unità. E tradisce il timore che prevalga la voglia di sabotare la strategia renziana. Non a caso, l’intervento che il presidente del Consiglio ha fatto ieri è stato rivolto all’interno. Per definire il Pd «forza tranquilla»; per rivendicare soluzioni che dovrebbero avere tacitato la minoranza, soprattutto sulla legge elettorale; insomma, per far capire che riterrebbe incomprensibile una fronda sull’Italicum, «difficilmente migliorabile», nel Pd.È sempre più evidente che la priorità di Renzi nei prossimi giorni sarà di garantirsi la compattezza del proprio partito. Senza quella, risulterà più difficile piegare le resistenze di una Forza Italia in ebollizione; ed eleggere il presidente della Repubblica che vuole. E infatti, alcuni dei nomi emersi nelle ultime ore in mezzo a molti altri segnalano questo: l’intenzione di rassicurare gli avversari interni. Sono alcuni esponenti storici del Pd quelli da convincere: molto più dei Civati, dei Cuperlo e dei Fassina. Il «via libera» all’accordo con Fi non può non passare per il «placet» di quanti, dentro e fuori dal Parlamento, possono influire sui gruppi parlamentari.D’altronde, prima ancora della presidenza della Repubblica, nei prossimi dieci giorni sarà necessaria una marcia a tappe forzate per approvare legge elettorale e riforma del Senato. L’ostruzionismo strisciante minacciato da Fi, dalla Lega e dal M5S di Beppe Grillo può saldarsi con i malumori della minoranza del Pd. «Sarebbe allucinante bloccare il percorso di riforme per l’elezione del capo dello Stato. Abbiamo scelto il metodo del dialogo e sono convinto che il Pd non fallirà», ammonisce il premier. Ma occorreranno sedute notturne e una presenza senza distrazioni. L’incastro risulta complicato dall’ombra persistente del patto del Nazareno tra Renzi e Silvio Berlusconi. È riemersa anche ieri in alcuni interventi in direzione. Il pasticcio del decreto fiscale presentato e ritirato dal governo perché depenalizzerebbe uno dei reati per i quali è stato condannato il capo di FI, aleggia. Renzi ha ribadito la volontà di correggerlo solo dopo il 20 febbraio. Questo ripropone le domande sul perché voglia aspettare tanto. Gli oppositori del Movimento 5 Stelle continuano ad accusarlo di voler scambiare i voti berlusconiani sul capo dello Stato con una sorta di «grazia» surrettizia concessa da palazzo Chigi. Ma l’ombra del nulla di fatto della primavera del 2013, per Renzi, è più imbarazzante, per il Pd. Evocandola, Renzi confida di far passare in secondo piano il resto .

La mossa di Migliore e quei gazebo appesi al groviglio campanoCorriere 17.1.15Primarie - La serie. Chi volesse far concorrenza a Gomorra in tv con un giallo d’autore ha già il copione scritto. Invece di recidere il nodo gordiano di quelle Campane, infatti, il Pd è finito in uno «gliommero» gaddiano, in un groviglio inestricabile, in un pasticcio assoluto. L’ultimo atto? Gennaro Migliore, ex delfino di Vendola passato dal pessimismocosmico di Sel all’ottimismo strategicodi Renzi, è pronto a candidarsi per le Regionali. E se per fare questo deve sottoporsi al rito delle primarie, che si facciano! «Io non ho paura» dice, pur sapendo di dover fare i conti con due campioni del consenso: l’ex bassoliniano Andrea Cozzolino, più volte assessore regionale e ora deputato europeo e Vincenzo De Luca, sindaco di Salernoda una vita e, nel frattempo, anche viceministro nel governo Letta. Marinviate già due volte, e ora fissate peril primo giorno di febbraio, non è dettoche le primarie campane si facciano davvero. Lo scontro è bipolare: da unaparte i renziani, che non le vogliono; dall’altro gli eterni rivali: Cozzolino e De Luca, divisi su tutto, ma uniti dalla vogliadi vedere di quante truppe sia capace Migliore. Guarda caso, però, proprioora i microalleati del Pd chiedono altro tempo per nuove candidature; e poici sono da considerare le elezioni per il presidente della Repubblica: impossibile sovrapporle alle primarie. Dunque? Che dubbio c’è: nuovo rinvio e lo spettacolo continua.
Ma lo «gliommero» è logico prima ancora che politico. Se Cozzolino è «indigesto», perché il Pd lo ha presentato alle Europee?
E se De Luca è un ostacolo all’innovazione, come mai è sempre in prima fila? Eppoi: i renziani di Migliore fanno sapere che mai e poi mai accetteranno voti di destra: il riferimento è a Vincenzo D’Anna, vicino a Cosentino, l’ex berlusconiano ora sotto processo, che ha raccontato di essersi incontrato sia con Cozzolino sia con De Luca. Eppure, i renziani sono quelli che in Liguria hanno invece accettato i voti degli scajoliani a Raffaella Paita. La cui vittoria, dopo le accuse di brogli lanciate da Cofferati, è stata decretata annullando solo 13 seggi. A Napoli, nel 2011, quando ad accusare fu invece Umberto Ranieri, l’annullamento non fu parziale ma totale. Trovare un bandolo?
È una parola.

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