giovedì 19 febbraio 2015
Carlo Bo, pur sempre no: l'inchiesta sul neorealismo
Risvolto
"L'inchiesta sul neorealismo condotta da Bo
tra gli intellettuali italiani andò in onda sul 'Terzo programma'
radiofonico della Rai tra l'ottobre del 1950 e il marzo del 1951, cinque
anni dopo la liberazione, e già nel pieno di una restaurazione imposta
in Italia dalla guerra fredda, dalla divisione del mondo nei due grandi
blocchi d'influenza capitalista, quello a cui noi appartenevamo dopo
Yalta e a cui si riferiva la Democrazia cristiana che con le elezioni
del 1948 era il cardine del nuovo potere politico ("l'America"), e
quello a cui si riferiva il maggior partito dell'opposizione, il Partito
comunista ("la Russia"). In mezzo, un variegato arcipelago "laico", di
sinistra, di centro, di destra. Di queste distinzioni Carlo Bo tiene il
dovuto conto, non le esplicita ma sembra conoscere molto bene le
propensioni, le simpatie di ciascuno degli intervistati. Cerca, nei
limiti del possibile, di tenere il discorso lontano dalle loro opzioni
politiche, e riconduce la questione nell'ambito di un discorso più
stretto - le opere letterarie, il dibattito letterario - o di un
discorso più vasto - la reazione alle passate strettoie, il bisogno di
una nuova narrazione del paese e delle sue diversità e contraddizioni, i
modi in cui gli scrittori hanno creduto di interpretare questa novità,
un obbligo che è avvertito come anzitutto morale, a cui anche la
letteratura è chiamata a rispondere..." (Dalla prefazione di Goffredo
Fofi)
L’indagine di Bo sul Neorealismo Alla ricerca della corrente che non c’è
Pubblicata l’inchiesta che il critico e poeta scrisse per la Rai nel ’50-’51 Lo scetticismo di Montale e Vittorini, la difesa appassionata di Calvino
Mario Baudino La Stampa 19 2 2015
Era il 1950, e Carlo Bo, capofila dell’ermetismo fiorentino, cattolico, in una stagione che sembrava diventata improvvisamente estranea alla sua idea critica della «letteratura come vita» condusse per la Rai un’inchiesta sul neorealismo. In apparenza, niente di più lontano da quanto aveva teorizzato e discusso a partire degli Anni Trenta, dal tormento tutto interiore che aveva segnato poeti come Mario Luzi, il primo Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli o Vittorio Sereni.
Ora tutto sembrava cambiato: il cinema di Rossellini e De Sica aveva lanciato la parola magica, il neorealismo era la nuova frontiera, il verbo di una sinistra appena sconfitta alle elezioni del ‘48 ma egemone sul piano culturale. Tutta la letteratura uscita dal travaglio del fascismo e dalla resistenza, ora, sembrava anch’essa «neorealista», quasi per necessità storica. Vero è che definirne il contorno era tutt’altra cosa. Forse il neorealismo, al di là del cinema, non esisteva se non come finzione ideologica. Non mancavano i teorici (per esempio Zavattini), ma alla prova dei fatti l’oggetto del contendere pareva sfarinarsi nell’indistinto.
Questo deve aver pensato Carlo Bo quando, con pazienza infinita, si mise all’opera. Per la sua inchiesta, andata poi in onda tra l’ottobre del 1950 e il marzo del 1951, convocò moltissimi scrittori e critici italiani, da Carlo Bernari che era considerato l’alfiere della nuova poetica a Italo Calvino, da Eugenio Montale a Vittorini, niente affatto tenero con le generalizzazioni: «Se tu dici che Moravia è un neorealista, tu non dici nulla di criticamente essenziale su quel che è Moravia».
Ora l’ Inchiesta sul neorealismo viene pubblicata dall’editrice Medusa (con prefazione di Goffredo Fofi) ed è possibile rendere giustizia alla penetrazione critica di Bo. Che partì piuttosto cauto: «E’ naturale che... certi scrittori diversissimi per natura e per educazione si trovassero a un certo punto vicini, costretti dalle cose a lavorare insieme, protestando una stessa fede d’occasione». Bastava porre la questione in termini semplice: quel che si intende per neorealismo è una vera novità o solo «una moda letteraria, riportata dal di fuori, in modo particolare alla moda del romanzo americano?»
Cambiati i termini, non è che la prospettiva sia molto cambiata. Ai tempi dell’Inchiesta il romanzo americano era rappresentato da Caldwell o da Steinbeck, magari da un Cain o in generale dagli autori tradotti da Vittorini e Pavese. Bo fa molte domande, e registra le risposte con un tono a tratti perfino sornione: «Cominciamo col dire che il fenomeno del neorealismo italiano, almeno in letteratura, è nato da una suggestione polemica». E’ un esploratore cauto e fortunato, le sue scoperte non sono da poco. Per esempio quando discorre con uno scettico Montale, o quando si confronta col giovane Calvino, che coglie ragioni generazionali profonde. E ne fa quasi un manifesto.
Italo Calvino
Dopo la guerra, è tempo che la letteratura scopra la vita dell’uomo comune
«La letteratura della testimonianza interiore, della confessione individuale, di cui tu, Bo, sei un rigoroso sostenitore, assegnava all’indagine dello scrittore una zona ben delimitata della coscienza, gli prescriveva d’approfondire i propri motivi difendendosi il più possibile dalle sollecitazioni esterne. Ma il bilancio di questa letteratura, che ha pure avuto una sua logica interna e una giustificazione storica, era inevitabile che minacciasse di chiudersi in perdita.
Ad un certo punto era più quello a cui gli scrittori si vedevano costretti a rinunciare, che quello di cui si arricchivano. Penso sia stato questo sentirsi i panni stretti addosso, a spingere alcuni scrittori italiani, negli anni intorno all’ultima guerra, alla ricerca d’altri motivi d’espressione. Le loro esigenze morali, i loro interrogativi, i loro bisogni di comunicazioni umane e d’immagini fantastiche venivano a cadere al di fuori del cerchio magico di quella schiva e assorta letteratura interiore: ed erano esigenze e domande non di loro scrittori soltanto ma di migliaia di uomini che si chiedevano con ansia sempre maggiore: cos’è questa terra, cos’è questo tempo in cui siamo nati? Quale rapporto col mondo ci può sostenere nelle minacciose congiunture che ci si preparano? Era naturale che noi giovani cercassimo i nostri maestri tra coloro che pareva tendessero a una risposta a queste domande.
Pavese e Vittorini, scrittori quanto mai diversi per formazione e per temperamento, possono trovare un denominatore comune in questa loro presenza storica, in ciò che contribuirono a smuovere, a sbloccare, in ciò che la nostra generazione cercò in loro. E penso, più ancora che a determinate loro opere, alla somma delle suggestioni e dei fermenti mossi dalle attività dell’uno e dell’altro. Ma a dare corpo a quelle possibilità poetiche che covavano negli animi e nell’aria, non bastarono certe letture; ci volle un inaspettato incontro con la vita, ci volle che l’Italia di cartapesta in cui non riuscivamo a riconoscerci crollasse e ne scoprissimo un’altra, più cruda e dolorosa, ma più nostra e antica.
«Questo è stato il nostro cammino fin qui, e io credo corrisponda a una necessità della storia letteraria italiana. La nostra letteratura aveva bisogno di trovare contatto nuovo con i tempi e col paese; la sua storia, come la storia della nazione italiana, non ha avuto un corso parallelo a quello delle altre grandi letterature nazionali moderne.
Il tema dominante delle note letterarie di Antonio Gramsci: la mancanza d’una letteratura nazionale-popolare in Italia, mi sembra sia importante non solo come storia della cultura, ma come coscienza d’un limite poetico di cui bisogna tenere conto nelle nostre ricerche espressive. Nell’Ottocento, la statura solitaria e irraggiungibile di pochi nostri capolavori non basta a formare una piattaforma solida come quella che il grande romanzo borghese ha dato alle civiltà letterarie inglese, francese e russa. Abbiamo dovuto fare un lungo giro per scoprire la lezione moderna della nostra tradizione».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento