martedì 17 febbraio 2015

L'ebraismo e la destra politica e culturale nel Ventesimo secolo

Mi sembra un libro veramente interessante. Tra l'altro l'autore ha tradotto Rembrandt als Erzieher di Julius Langbehn... [SGA].

Vincenzo Pinto: In nome della Patria. Ebrei e cultura di destra nel Novecento, Le Lettere, pagine 200, e 16,50

Risvolto
La Destra politica del Novecento è stata anche un fenomeno ebraico. Malgrado le persecuzioni etnico-razziali del nazi-fascismo o quelle etnico-classiste del socialismo reale, vi sono stati non pochi ebrei che hanno scelto di sposare una posizione politica di destra: chi su posizioni sionistiche (come Jabotinsky o Klausner), chi su posizioni diasporiche (come Ovazza o Schoeps). Se il profilo biografico è quello maggiormente in grado di ritrarre le peculiarità della “Destra ebraica”, è anche vero che le comunità ebraiche europee sono state lungo tutto il Novecento culturalmente più vicine alla Destra che alla Sinistra politica, malgrado le persecuzioni subite. Si tratta di calcoli opportunistici di una minoranza integrata? Siamo di fronte a un discorso di natura spirituale o religiosa? Oppure è stata la conformazione stessa della Destra moderna a favorire la vittoria della Destra ebraica? Questo saggio tenta di svelare i perché di uno schieramento tanto ovvio quanto scabroso.

Ebrei a Destra un labirintoNessi impensabili a livello ideologico ci fu chi ipotizzò un patto con Hitler

di Paolo Mieli Corriere 17.2.15
Da qualche anno il rapporto tra il mondo ebraico e la destra politica europea è finito all’attenzione degli storici. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, eccezion fatta per qualche studioso americano, in pochi avevano approfondito questa relazione, soprattutto perché, indagando su di essa, si sarebbe dovuto indagare su nessi che coinvolgevano il fascismo e, perfino, il nazismo. Di destra ed ebrei si era cominciato a parlare nella seconda metà degli anni Settanta, ai tempi della vittoria in Israele di Menachem Begin con il Likud. Fu in quel momento (1977) che venne «riscoperta» la figura del leader del revisionismo sionista Vladimir Ze’ev Jabotinsky. Ed è alle personalità, peraltro tra loro assai diverse, di questa particolarissima sensibilità per la destra del mondo israelitico che è dedicato l’interessante libro di Vincenzo Pinto, In nome della Patria. Ebrei e cultura di destra nel Novecento , di imminente pubblicazione per Le Lettere. Fin qui, scrive Pinto, la cultura di sinistra ha finito per rileggere la storia degli ebrei sotto la categoria della persecuzione antisemita («geneticamente» di destra). Le figure conservatrici del mondo ebraico «sono state relegate ai margini della storia», come ingenui rappresentanti di un’utopia, «quella di essere parte integrante del proprio Paese ospitante, di poter realizzare il sogno della diversità senza l’assimilazione».
C’è stato, però, dell’altro. L’ebreo di destra, scrive Pinto, è culturalmente «figlio legittimo della tradizione ma figlio “adottivo” della modernità tecnologica e spirituale». La «destra ebraica», ha osservato lo studioso israeliano Ezra Mendelsohn, è molto più difficile da definire rispetto alla sinistra; se i partiti ebraici progressisti erano orgogliosi di affermare la loro «simpatia ideologica per la sinistra generale europea», i loro oppositori «erano alquanto restii ad ammettere qualsiasi affinità con la “destra generale europea” che, nel periodo interbellico, era spesso sinonimo di fascismo (e, naturalmente, di antisemitismo)». Ciò nonostante, prosegue Mendelsohn, se definiamo la destra come «la formazione di un campo politico fieramente opposto al socialismo» nonché «conservatore nella sua idea di come dovrebbe organizzarsi la società ebraica», allora diventa possibile identificare una destra israelitica già nella stagione tra le due guerre mondiali.
La caratteristica unificante, nel corso degli anni Venti e Trenta, era «l’enfasi tenace sull’assoluta necessità dell’unità ebraica e, di conseguenza, la profonda ostilità verso tutti i movimenti politici che predicavano l’idea di guerra di classe o persino la divisione di classe nel mondo ebraico». Uno dei termini preferiti nel dizionario politico della destra secolare, ricorda Mendelsohn, era quello di monismo ( hadnes in ebraico; una bandiera), «che implicava la supremazia dell’unità nazionale, valore tradizionale ebraico, sulla divisione sociale». La sinistra definì assai pericolosa questa enfasi sull’«unicità» ebraica. Così la destra israelitica fu subito criticata per aver «importato nel mondo israelitico pericolose idee “straniere” che ponevano falsamente un ebreo contro l’altro e perciò facevano il gioco del nemico comune: l’antisemitismo».
Pinto bolla come «discutibili» queste tesi. Ma riconosce a Mendelsohn il merito di aver impostato correttamente la questione. Rimproverandogli, però, di aver teso a «liquidare la destra ebraica moderna (non sionista) come irrilevante nella diatriba tra secolarismi e religiosi», e di aver dimenticato «che, lungo tutto il Novecento, vi furono non pochi ebrei di destra sostenitori di altre forme di nazionalismo conservatore». Grande protagonista di questo libro è il già citato Jabotinsky, definito da Pinto «il re senza corona». Nato a Odessa nel 1880, giornalista, agitatore politico, scrittore, ufficiale dell’esercito, e perfino assicuratore, ha segnato «in maniera indelebile il discorso politico sionista e israeliano nei primi decenni del Novecento» ed è considerato «una delle personalità ebraiche più affascinanti ma, al contempo, contraddittorie del secolo passato». Fu il primo a teorizzare, durante un pogrom nel 1903, l’autodifesa ebraica. Autodifesa che Jabotinsky avrebbe esportato a Gerusalemme all’inizio degli anni Venti. È stato il padre, si è detto, del «revisionismo sionista», ma morì di un attacco cardiaco a New York nell’agosto del 1940 prima di conoscere il volto atroce della Shoah, ma anche prima di aver potuto vedere realizzato il sogno di uno Stato di Israele .
Figura ben diversa è quella del banchiere ebreo torinese Ettore Ovazza, considerato da Pinto «un personaggio quasi romanzesco per la sua ingenua e fideistica adesione al fascismo» o, piuttosto, «un personaggio tragico, accecato dal proprio amor patrio a tal punto da non scorgere il nodo del destino sempre più stretto intorno al collo proprio e dei propri cari». Ovazza — al quale si è già dedicato Alexander Stille nel libro Uno su mille (Mondadori) — rimarrà fascista fino alla fine, accettando la legislazione antiebraica, respingendo l’opportunità di emigrare e trovando una tragica morte, per mano delle SS il 9 ottobre del 1943, nei pressi del confine svizzero. Il suo amore per il fascismo mussoliniano può anche essere letto, secondo Pinto, «come un tentativo di trovare una dimensione estetica nuova e alternativa al sentimentalismo borghese, chiuso in se stesso, incapace di riunire armonicamente spirito e materia». Anche se la visione spirituale dell’ebraismo e del fascismo di Ovazza «si è scontrata con una visione e una realtà materiali che avevano preso il sopravvento»; dappertutto ormai in Europa «si considerava l’ebreo come il materialista per eccellenza, come il distruttore dell’idillio e di tutte le barriere, non come il difensore di un ideale di giustizia messianica o come parte integrante della civiltà occidentale» .
Un caso più complicato è quello di Isaac Kadmi-Cohen (1892-1944) , ebreo polacco, che mise radici in Francia. «Ebreo di sinistra nello scacchiere politico francese, ma di destra in quello sionista internazionale», scrive di lui Pinto, Kadmi-Cohen «ha cercato disperatamente di mutare le sorti del suo popolo e di salvarlo dalla tempesta antisemita» battendosi per la nascita di uno Stato mediorientale che fosse «la casa di tutti i popoli semiti». Kadmi-Cohen concepisce un semitismo come modo di essere alternativo all’arianesimo, e il suo progetto pansemita è alternativo allo «spirito del ghetto». Di più. Per lui «la vera minaccia dell’Occidente non è la barbarie comunista oppure l’Oriente vicino ed estremo… e non è nemmeno più una questione di contrapposizione interna al continente». Il vero nemico è rappresentato dall’America (cioè gli Stati Uniti) e, più in particolare, da quel materialismo di cui è emblema una semplice banconota: il dollaro». L’identificazione del «nemico americano» produce un ambizioso progetto di federazione degli Stati europei, la cui prima tappa dovrebbe essere nella costituzione di un asse politico tra Parigi e Berlino, «che ponga fine ai vecchi conflitti».
Tale progetto va in frantumi tra il 1939 e il 1940 con l’invasione nazista della Polonia e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. E, quando le croci uncinate invadono la Francia, Kadmi-Cohen punta addirittura ad una trattativa con il governo di Vichy per una «espulsione di massa» che favorisca la creazione di uno Stato ebraico e che salvi gli ebrei dal genocidio hitleriano. Ai suoi occhi il nazismo non rappresentava una maledizione politica o religiosa, bensì «una possibilità per porre fine all’apolidismo diasporico». Teorie che non gli eviteranno una morte atroce nel campo di sterminio di Gleiwitz. Ma che gli varranno l’imbarazzante stima di antisemiti come il visconte Léon de Poncins o di negazionisti come Paul Rassinier. Ma la sua storia in un certo senso non finisce con la morte a Gleiwitz.
Suo figlio Jean-François Steiner (dal cognome del patrigno, anche lui ebreo) pubblica nel 1966 un romanzo a tesi intitolato Treblinka (pubblicato in Italia da Mondadori). Treblinka narra la storia della rivolta ebraica nel Lager nazista «cercando da un lato di mettere in evidenza i meccanismi psicologici, tecnologici e morali utilizzati dai carnefici (i “tecnici”) per piegare la volontà delle vittime e dall’altro lato mostrando le profonde contraddizioni insite nel popolo ebraico e, in particolare, il dilemma tra salvezza fisica e salvezza morale». Secondo Pinto, all’autore premeva «dimostrare che la retorica martirologica della resistenza non rappresentava che una prosecuzione del vecchio “spirito del ghetto” tanto criticato dal padre». Voleva altresì porre domande assai scomode sulla «scarsa resistenza ebraica alla deportazione» e persino sulla «collaborazione delle classi dirigenti» israelitiche con i persecutori del loro popolo.
 Una storia a sé è quella del lituano Joseph G. Klausner (1874-1958), prozio di Amos Oz, che di lui ha scritto in Una storia di amore e di tenebra (Feltrinelli). La sua opera «ha rappresentato la realizzazione di una particolare sintesi fra la cultura umanistica occidentale e la tradizione ebraica orientale», là dove Klausner provò a recuperare «le migliori aspirazioni libertarie dei suoi correligionari illuministi occidentali (tedeschi, in particolar modo)», per innestarle sull’albero «sano» della tradizione religiosa orientale.
Più imbarazzante il caso di Abba Achimeir o Gaissinovic (1897-1962), «lettore e interprete» di Oswald Spengler, ammiratore di Benito Mussolini che definì come l’autentico erede di Mazzini e di Garibaldi, oltreché estimatore del generale polacco Józef Pilsudski. Restano celebri le sue «cronache di un fascista» scritte nel 1928 sul giornale revisionista «Doar Hayom». Nel ’29 fonda, con il poeta Uri Zvi Greenberg e lo scrittore Yehoshua Yevin, l’associazione segreta «Brit Ha’Birionim» (Patto dei briganti), ispirata agli zeloti d’epoca romana nell’intento di combattere gli inglesi, gli arabi, ma anche gli «ebrei moderati o disfattisti». Nel 1933 Achimeir fu arrestato con l’accusa di istigazione all’assassinio di Chaim Arlosoroff, esponente di punta del sionismo in Palestina, ritenuto uno dei principali artefici di un accordo commerciale con la Germania nazista.
Ancora più complicato il caso del tedesco Hans-Joachim Schoeps (1909-1980), che nel 1930, in uno scritto dal titolo «Gioventù e nazionalsocialismo», fu in grado di prefigurare la vittoria nazista e nel 1932 venne all’attenzione — in parte benevola — del celeberrimo studioso di misticismo ebraico Gershom Scholem. Negli anni tra il 1933 e il 1934, Schoeps diede vita ad un bollettino, «Der Vortrupp», sorretto da un’omonima casa editrice, vagheggiò un incontro tra ebraismo e nazismo e cercò di costituire un fronte ebraico in grado di ottenere il riconoscimento da parte del governo hitleriano. Tutto era basato su un progetto di «epurazione» interna dell’ebraismo tedesco. Tale progetto, ricorda Pinto, «fu espresso in un memoriale che conteneva l’idea di creare una corporazione ebraica che separasse gli elementi ebraici insani (i sionisti e gli ebrei orientali) da quelli sani (gli ebrei coscienziosamente tedeschi)».
I nazisti non lo seguirono su questa strada, già nel ’35 esclusero gli ebrei dall’esercito e dalla marina e sciolsero tutte le associazioni ebraiche. Nel ’38 Schoeps riparò in Svezia, i suoi morirono nei campi di concentramento e lui poté tornare solo nel 1946 in Germania, dove insegnò all’università e approfondì il nesso tra ebraismo e prussianesimo che gli stava a cuore fin dai tempi della gioventù. Schoeps, scrive Pinto, non rinnegò mai il proprio passato politico (le proprie simpatie per la «rivoluzione conservatrice»), tanto da pubblicare nel 1970 la raccolta di scritti Bereit für Deutschland (Pronti per la Germania) come risposta alle accuse di esser stato un «nazista ebreo». Tenne sempre a distinguere, prosegue Pinto, il suo particolare conservatorismo prussiano dal nazismo, esito di una «rivoluzione popolare» e razziale dettata dall’ hybris umana moderna. Il legame fra prussianesimo ed ebraismo «aveva radici storico-religiose, non razziali, l’eroica ostinazione prussiana contro l’auto-disgregazione aveva sconfitto l’infinità del paesaggio pianeggiante (a differenza della melanconia russa), come gli ebrei avevano fatto verso il deserto attraverso la parola del loro Signore sovrano».
Jabotinsky è stato il leader della destra sionista negli anni che precedettero la costituzione dello Stato di Israele. Ovazza è stato uno dei maggiori rappresentanti della destra ebraica antisionista nell’Italia fascista. Kadmi-Cohen è stato il paladino di un semitismo ultra-rivoluzionario nella Francia della Seconda Repubblica. Klausner ha alimentato una visione organicistica della nazione ebraica tra la Russia tardo-zarista e la Palestina mandataria. Gaissinovic ha sostenuto una visione rivoluzionaria del sionismo. Schoeps ha pensato fosse possibile una rifondazione dialettica dell’ebreo tedesco durante il nazismo. Tutti questi personaggi, scrive Pinto, hanno creduto in una visione militante della cultura: lo spirito non deve «emancipare» gli ebrei dal giogo del capitalismo, ma renderli «partecipi consapevoli della modernità» .
Il loro comune avversario avrebbe dovuto essere l’Illuminismo, l’idea che l’ebraismo fosse semplicemente una «morale» universalizzabile e non più una religione nazionale, che gli ebrei fossero uomini come tutti gli altri. Liberalismo e comunismo erano ritenuti due facce della stessa medaglia: la distruzione dei legami spirituali e comunitari degli individui e la loro sottomissione ad una presunta etica universalistica e utilitaristica. L’antisemitismo era visto come l’altra faccia della modernità, come l’esito di logiche puramente materiali e della (fallita) assimilazione degli ebrei ai popoli ospitanti. Le loro furono esperienze tra loro molto diverse, ma che testimoniano una complessità di nessi in qualche caso imprevedibili. Addirittura insospettabili.


Quei personaggi che lottarono per il risveglio del loro popolo
Corriere 17.2.15
Esce domani in libreria il volume di Vincenzo Pinto In nome della Patria. Ebrei e cultura di destra nel Novecento , edito da Le Lettere (pagine 200, e 16,50) nella collana Biblioteca di «Nuova Storia Contemporanea» diretta da Francesco Perfetti. Uno su mille (Mondadori, 1991) è il titolo del saggio in cui Alexander Stille si è occupato anche del banchiere ebreo italiano Ettore Ovazza, un fervente fascista che venne ucciso dalle SS nell’ottobre del 1943. S’intitola Treblinka (traduzione di Luisa d’Alessandro e Giovanni Mariotti, Mondadori, 1967) il libro dedicato da Jean-François Steiner alla rivolta avvenuta nell’omonimo campo di sterminio. Lo scrittore israeliano Amos Oz parla del suo prozio Joseph G. Klausner, esponente della destra ebraica, nel romanzo Una storia di amore e di tenebra (traduzione di Elena Loewenthal, Feltrinelli, 2003) 



Ebraismo magico
Sangiuliano Domenicale 13 9 2015
Un contributo fondamentale in termini di elaborazione filosofica e morale, è quello che la cultura ebraica ha dato all’Occidente e alla definizione delle sue peculiarità storiche. Ma se sul terreno della filosofia politica sono arcinoti gli apporti che la cultura ebraica ha dato al marxismo e al socialismo, meno note sono le figure conservatrici del mondo ebraico, che pure hanno elaborato un’antropologia storico-filosofica comunitaria basata su valori tradizionali. Se si pensa a Vladimir Ze’ev Jabotinsky, una delle personalità ebraiche più affascinanti, riconosciuto nello Stato di Israele come uno dei padri al pari di Theodor Herlz. Così Abba Gaissinovic, interprete da una prospettiva ebraica del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler o Hans-Joachim Schoeps, teorico del pensiero «inattuale» e della «rivoluzione conservatrice».
In nome della Patria è il saggio di Vincenzo Pinto, storico del nazionalismo ebraico, che disegna il singolare rapporto tra «Ebrei e cultura di destra». Un viaggio fra autori accomunati dalla matrice antilluminista, che al positivismo oppongono un forte richiamo comunitario, consapevoli che «la trasformazione dell’ebreo in semplice homo oeconomicus» è da considerare «uno degli esiti più deleteri del materialismo contemporaneo». 
Lo studioso israeliano Ezra Mendelssohn ha scritto: «La destra ebraica è molto più difficile da definire rispetto alla sinistra. Se, però, la definiamo come conservatrice nella sua idea di come dovrebbe organizzarsi la società ebraica, allora diventa comprensibile una destra ebraica».
La figura chiave di questa linea di pensiero è quella di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, riconosciuto come padre spirituale del movimento liberal-conservatore di Heruth (Libertà) di Begin, riscoperto con vigore dal Likud, come giornalista uomo di lettere ed originale interprete del sionismo. Nel 1964, dopo averne riscoperto il pensiero, vi sarà la monumentale sepoltura, riconoscimento postumo di questo intellettuale, nato ad Odessa, di formazione mitteleuropea, vissuto per tre anni in Italia, morto nel 1940. Jabotinsky è il paladino di un sionismo borghese che afferma la «centralità d’Israele», di fronte ai pogrom, iniziati a partire dal 1871, che avevano posto alla borghesia ebraica interrogativi angosciosi. Alcuni intellettuali ebrei, di cui Jabotinsky si fa interprete di peso, cominciano a ritenere che, forse, ai valori dell’illuminismo e dell’internazionalismo vadano anteposti quelli della salvaguardia dell’identità culturale ebraica e dell’integrità fisica. Nel 1903, attorno al giornale liberalconservatore «Odesskij Listok» si fa strada l’idea dell’autodifesa ebraica, di ispirazione antisocialista e conservatrice. Alla teorizzazione di un nuovo modo di intendere la questione ebraica, Jabotinsky unisce un attivismo concreto, nell’autunno del 1915 rompendo la neutralità affermata dall’Organizzazione sionistica mondiale, di stanza a Berlino, si reca a Londra a perorare la costituzione di una legione ebraica che partecipasse alla liberazione della Palestina dall’occupazione turca. Qui lega con il chimico Chaim Weizmann, leader liberale e futuro primo presidente dello Stato d’Israele. 
Jabotinsky non fu solo un fine polemista e un saggista ma anche un romanziere di successo e sempre nelle sue opere testimonia una concezione politico-filosofica che ruota attorno al problema dello Stato, unica entità capace di proteggere, anche in termini culturali, la propria comunità ma che deve essere libero nei rapporti economici e sociali. «La questione ebraica», scrive Pinto, in lui «è assai più importante dell’identità ebraica in quanto tale: l’ebreo è anzitutto il membro di una comunità di destino». 
Un felice sintesi fra cultura umanistica occidentale e tradizione religiosa ebraica è quella in Joseph Klausner, lituano di origine, vissuto ad Odessa e poi diventato esponente di punta del nazionalismo sionista. Autore della Storia del Secondo Tempio si candidò per Herut alle elezioni per la presidenza dello Stato d’Israele ma fu sconfitto da Weizmann. Al centro dei suoi studi il legame storico e religioso fra ebraismo e cristianesimo e soprattutto il rapporto fra giudaismo ed umanesimo, che significa riconoscimento dell’identità comunitaria forte dei popoli, nel legame fra terra e cultura, in opposizione all’universalismo. Un famoso nipote di Klausner è lo scrittore israeliano Amos Oz che ha rievocato nella sua autobiografia Sippur al ahava vehoshekn (Storia d’amore e di tenebra) la figura dello zio. 
La riflessione sull’identità occidentale ebraica e il tema forte anche di un altro degli autori scelti da Pinto è Abba Gaissinovic, lettore e interprete di Oswald Spengler, russo di origine, formatosi a Vienna, laureatosi proprio con una tesi sull’autore del Tramonto dell’Occidente. Emigrato in Palestina nel 1924 assume il nome di Abba Achimeir e collabora a lungo con il quotidiano Do’ar Hayom (Posta quotidiana. Aderisce alla tesi di Spengler sull’esistenza di «un’anima magica» dei popoli, capace di reinterpretare la tradizione e trasmetterla ai posteri. Ebraismo ed occidente devono individuare costantemente il nucleo della loro civiltà magica in quel processo che si chiama «pseudomorfosi». 
Hans Joachim Schoeps chiude la galleria dei personaggi di questo saggio, tedesco di nascita e di lingua, amava autodefinirsi ebreo-prussiano, importante storico delle religioni, nonché curatore delle opere di Kafka. Durante il nazismo riparò in Svezia mentre perse i genitori nei campi di concentramento dell’Olocausto, tornato in Germania dopo la guerra rifiutò, per motivi politici, la cattedra all’Università Humboldt di Berlino Est ma accettò quella di storia delle religioni all’ateneo di Erlangen in Baviera. Qui elabora la sua teoria dello spirito che ruota attorno al riconoscimento del valore del prussianesimo conservatore antitetico al nazismo che ebbe forti venature di sinistra. Difensore dei diritti e dell’uguaglianza delle minoranze sessuali, si opporrà, però, con vigore al movimento del sessantotto che indica come esempio di auto-disgregazione di una società. Nel 1951 tenne un famoso discorso in occasione dei duecentocinquanta anni del Regno di Prussia, testamento politico contro il nichilismo.

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