Mi sembra un libro veramente interessante. Tra l'altro l'autore ha tradotto Rembrandt als Erzieher di Julius Langbehn... [SGA].
Vincenzo Pinto:
In nome della Patria. Ebrei e cultura di destra nel Novecento, Le Lettere, pagine 200, e 16,50
Risvolto
La Destra politica
del Novecento è stata anche un fenomeno ebraico. Malgrado le
persecuzioni etnico-razziali del nazi-fascismo o quelle etnico-classiste
del socialismo reale, vi sono stati non pochi ebrei che hanno scelto di
sposare una posizione politica di destra: chi su posizioni sionistiche
(come Jabotinsky o Klausner), chi su posizioni diasporiche (come Ovazza o
Schoeps). Se il profilo biografico è quello maggiormente in grado di
ritrarre le peculiarità della “Destra ebraica”, è anche vero che le
comunità ebraiche europee sono state lungo tutto il Novecento
culturalmente più vicine alla Destra che alla Sinistra politica,
malgrado le persecuzioni subite. Si tratta di calcoli opportunistici di
una minoranza integrata? Siamo di fronte a un discorso di natura
spirituale o religiosa? Oppure è stata la conformazione stessa della
Destra moderna a favorire la vittoria della Destra ebraica? Questo
saggio tenta di svelare i perché di uno schieramento tanto ovvio quanto
scabroso.
Ebrei a Destra un labirintoNessi impensabili a livello ideologico ci fu chi ipotizzò un patto con Hitler
di Paolo Mieli Corriere 17.2.15
Da
qualche anno il rapporto tra il mondo ebraico e la destra politica
europea è finito all’attenzione degli storici. Nei decenni successivi
alla Seconda guerra mondiale, eccezion fatta per qualche studioso
americano, in pochi avevano approfondito questa relazione, soprattutto
perché, indagando su di essa, si sarebbe dovuto indagare su nessi che
coinvolgevano il fascismo e, perfino, il nazismo. Di destra ed ebrei si
era cominciato a parlare nella seconda metà degli anni Settanta, ai
tempi della vittoria in Israele di Menachem Begin con il Likud. Fu in
quel momento (1977) che venne «riscoperta» la figura del leader del
revisionismo sionista Vladimir Ze’ev Jabotinsky. Ed è alle personalità,
peraltro tra loro assai diverse, di questa particolarissima sensibilità
per la destra del mondo israelitico che è dedicato l’interessante libro
di Vincenzo Pinto, In nome della Patria. Ebrei e cultura di destra nel
Novecento , di imminente pubblicazione per Le Lettere. Fin qui, scrive
Pinto, la cultura di sinistra ha finito per rileggere la storia degli
ebrei sotto la categoria della persecuzione antisemita («geneticamente»
di destra). Le figure conservatrici del mondo ebraico «sono state
relegate ai margini della storia», come ingenui rappresentanti di
un’utopia, «quella di essere parte integrante del proprio Paese
ospitante, di poter realizzare il sogno della diversità senza
l’assimilazione».
C’è stato, però, dell’altro. L’ebreo di destra,
scrive Pinto, è culturalmente «figlio legittimo della tradizione ma
figlio “adottivo” della modernità tecnologica e spirituale». La «destra
ebraica», ha osservato lo studioso israeliano Ezra Mendelsohn, è molto
più difficile da definire rispetto alla sinistra; se i partiti ebraici
progressisti erano orgogliosi di affermare la loro «simpatia ideologica
per la sinistra generale europea», i loro oppositori «erano alquanto
restii ad ammettere qualsiasi affinità con la “destra generale europea”
che, nel periodo interbellico, era spesso sinonimo di fascismo (e,
naturalmente, di antisemitismo)». Ciò nonostante, prosegue Mendelsohn,
se definiamo la destra come «la formazione di un campo politico
fieramente opposto al socialismo» nonché «conservatore nella sua idea di
come dovrebbe organizzarsi la società ebraica», allora diventa
possibile identificare una destra israelitica già nella stagione tra le
due guerre mondiali.
La caratteristica unificante, nel corso degli
anni Venti e Trenta, era «l’enfasi tenace sull’assoluta necessità
dell’unità ebraica e, di conseguenza, la profonda ostilità verso tutti i
movimenti politici che predicavano l’idea di guerra di classe o persino
la divisione di classe nel mondo ebraico». Uno dei termini preferiti
nel dizionario politico della destra secolare, ricorda Mendelsohn, era
quello di monismo ( hadnes in ebraico; una bandiera), «che implicava la
supremazia dell’unità nazionale, valore tradizionale ebraico, sulla
divisione sociale». La sinistra definì assai pericolosa questa enfasi
sull’«unicità» ebraica. Così la destra israelitica fu subito criticata
per aver «importato nel mondo israelitico pericolose idee “straniere”
che ponevano falsamente un ebreo contro l’altro e perciò facevano il
gioco del nemico comune: l’antisemitismo».
Pinto bolla come
«discutibili» queste tesi. Ma riconosce a Mendelsohn il merito di aver
impostato correttamente la questione. Rimproverandogli, però, di aver
teso a «liquidare la destra ebraica moderna (non sionista) come
irrilevante nella diatriba tra secolarismi e religiosi», e di aver
dimenticato «che, lungo tutto il Novecento, vi furono non pochi ebrei di
destra sostenitori di altre forme di nazionalismo conservatore». Grande
protagonista di questo libro è il già citato Jabotinsky, definito da
Pinto «il re senza corona». Nato a Odessa nel 1880, giornalista,
agitatore politico, scrittore, ufficiale dell’esercito, e perfino
assicuratore, ha segnato «in maniera indelebile il discorso politico
sionista e israeliano nei primi decenni del Novecento» ed è considerato
«una delle personalità ebraiche più affascinanti ma, al contempo,
contraddittorie del secolo passato». Fu il primo a teorizzare, durante
un pogrom nel 1903, l’autodifesa ebraica. Autodifesa che Jabotinsky
avrebbe esportato a Gerusalemme all’inizio degli anni Venti. È stato il
padre, si è detto, del «revisionismo sionista», ma morì di un attacco
cardiaco a New York nell’agosto del 1940 prima di conoscere il volto
atroce della Shoah, ma anche prima di aver potuto vedere realizzato il
sogno di uno Stato di Israele .
Figura ben diversa è quella del
banchiere ebreo torinese Ettore Ovazza, considerato da Pinto «un
personaggio quasi romanzesco per la sua ingenua e fideistica adesione al
fascismo» o, piuttosto, «un personaggio tragico, accecato dal proprio
amor patrio a tal punto da non scorgere il nodo del destino sempre più
stretto intorno al collo proprio e dei propri cari». Ovazza — al quale
si è già dedicato Alexander Stille nel libro Uno su mille (Mondadori) —
rimarrà fascista fino alla fine, accettando la legislazione antiebraica,
respingendo l’opportunità di emigrare e trovando una tragica morte, per
mano delle SS il 9 ottobre del 1943, nei pressi del confine svizzero.
Il suo amore per il fascismo mussoliniano può anche essere letto,
secondo Pinto, «come un tentativo di trovare una dimensione estetica
nuova e alternativa al sentimentalismo borghese, chiuso in se stesso,
incapace di riunire armonicamente spirito e materia». Anche se la
visione spirituale dell’ebraismo e del fascismo di Ovazza «si è
scontrata con una visione e una realtà materiali che avevano preso il
sopravvento»; dappertutto ormai in Europa «si considerava l’ebreo come
il materialista per eccellenza, come il distruttore dell’idillio e di
tutte le barriere, non come il difensore di un ideale di giustizia
messianica o come parte integrante della civiltà occidentale» .
Un
caso più complicato è quello di Isaac Kadmi-Cohen (1892-1944) , ebreo
polacco, che mise radici in Francia. «Ebreo di sinistra nello scacchiere
politico francese, ma di destra in quello sionista internazionale»,
scrive di lui Pinto, Kadmi-Cohen «ha cercato disperatamente di mutare le
sorti del suo popolo e di salvarlo dalla tempesta antisemita»
battendosi per la nascita di uno Stato mediorientale che fosse «la casa
di tutti i popoli semiti». Kadmi-Cohen concepisce un semitismo come modo
di essere alternativo all’arianesimo, e il suo progetto pansemita è
alternativo allo «spirito del ghetto». Di più. Per lui «la vera minaccia
dell’Occidente non è la barbarie comunista oppure l’Oriente vicino ed
estremo… e non è nemmeno più una questione di contrapposizione interna
al continente». Il vero nemico è rappresentato dall’America (cioè gli
Stati Uniti) e, più in particolare, da quel materialismo di cui è
emblema una semplice banconota: il dollaro». L’identificazione del
«nemico americano» produce un ambizioso progetto di federazione degli
Stati europei, la cui prima tappa dovrebbe essere nella costituzione di
un asse politico tra Parigi e Berlino, «che ponga fine ai vecchi
conflitti».
Tale progetto va in frantumi tra il 1939 e il 1940 con
l’invasione nazista della Polonia e lo scoppio della Seconda guerra
mondiale. E, quando le croci uncinate invadono la Francia, Kadmi-Cohen
punta addirittura ad una trattativa con il governo di Vichy per una
«espulsione di massa» che favorisca la creazione di uno Stato ebraico e
che salvi gli ebrei dal genocidio hitleriano. Ai suoi occhi il nazismo
non rappresentava una maledizione politica o religiosa, bensì «una
possibilità per porre fine all’apolidismo diasporico». Teorie che non
gli eviteranno una morte atroce nel campo di sterminio di Gleiwitz. Ma
che gli varranno l’imbarazzante stima di antisemiti come il visconte
Léon de Poncins o di negazionisti come Paul Rassinier. Ma la sua storia
in un certo senso non finisce con la morte a Gleiwitz.
Suo figlio
Jean-François Steiner (dal cognome del patrigno, anche lui ebreo)
pubblica nel 1966 un romanzo a tesi intitolato Treblinka (pubblicato in
Italia da Mondadori). Treblinka narra la storia della rivolta ebraica
nel Lager nazista «cercando da un lato di mettere in evidenza i
meccanismi psicologici, tecnologici e morali utilizzati dai carnefici (i
“tecnici”) per piegare la volontà delle vittime e dall’altro lato
mostrando le profonde contraddizioni insite nel popolo ebraico e, in
particolare, il dilemma tra salvezza fisica e salvezza morale». Secondo
Pinto, all’autore premeva «dimostrare che la retorica martirologica
della resistenza non rappresentava che una prosecuzione del vecchio
“spirito del ghetto” tanto criticato dal padre». Voleva altresì porre
domande assai scomode sulla «scarsa resistenza ebraica alla
deportazione» e persino sulla «collaborazione delle classi dirigenti»
israelitiche con i persecutori del loro popolo.
Una storia a sé è
quella del lituano Joseph G. Klausner (1874-1958), prozio di Amos Oz,
che di lui ha scritto in Una storia di amore e di tenebra (Feltrinelli).
La sua opera «ha rappresentato la realizzazione di una particolare
sintesi fra la cultura umanistica occidentale e la tradizione ebraica
orientale», là dove Klausner provò a recuperare «le migliori aspirazioni
libertarie dei suoi correligionari illuministi occidentali (tedeschi,
in particolar modo)», per innestarle sull’albero «sano» della tradizione
religiosa orientale.
Più imbarazzante il caso di Abba Achimeir o
Gaissinovic (1897-1962), «lettore e interprete» di Oswald Spengler,
ammiratore di Benito Mussolini che definì come l’autentico erede di
Mazzini e di Garibaldi, oltreché estimatore del generale polacco Józef
Pilsudski. Restano celebri le sue «cronache di un fascista» scritte nel
1928 sul giornale revisionista «Doar Hayom». Nel ’29 fonda, con il poeta
Uri Zvi Greenberg e lo scrittore Yehoshua Yevin, l’associazione segreta
«Brit Ha’Birionim» (Patto dei briganti), ispirata agli zeloti d’epoca
romana nell’intento di combattere gli inglesi, gli arabi, ma anche gli
«ebrei moderati o disfattisti». Nel 1933 Achimeir fu arrestato con
l’accusa di istigazione all’assassinio di Chaim Arlosoroff, esponente di
punta del sionismo in Palestina, ritenuto uno dei principali artefici
di un accordo commerciale con la Germania nazista.
Ancora più
complicato il caso del tedesco Hans-Joachim Schoeps (1909-1980), che nel
1930, in uno scritto dal titolo «Gioventù e nazionalsocialismo», fu in
grado di prefigurare la vittoria nazista e nel 1932 venne all’attenzione
— in parte benevola — del celeberrimo studioso di misticismo ebraico
Gershom Scholem. Negli anni tra il 1933 e il 1934, Schoeps diede vita ad
un bollettino, «Der Vortrupp», sorretto da un’omonima casa editrice,
vagheggiò un incontro tra ebraismo e nazismo e cercò di costituire un
fronte ebraico in grado di ottenere il riconoscimento da parte del
governo hitleriano. Tutto era basato su un progetto di «epurazione»
interna dell’ebraismo tedesco. Tale progetto, ricorda Pinto, «fu
espresso in un memoriale che conteneva l’idea di creare una corporazione
ebraica che separasse gli elementi ebraici insani (i sionisti e gli
ebrei orientali) da quelli sani (gli ebrei coscienziosamente tedeschi)».
I
nazisti non lo seguirono su questa strada, già nel ’35 esclusero gli
ebrei dall’esercito e dalla marina e sciolsero tutte le associazioni
ebraiche. Nel ’38 Schoeps riparò in Svezia, i suoi morirono nei campi di
concentramento e lui poté tornare solo nel 1946 in Germania, dove
insegnò all’università e approfondì il nesso tra ebraismo e
prussianesimo che gli stava a cuore fin dai tempi della gioventù.
Schoeps, scrive Pinto, non rinnegò mai il proprio passato politico (le
proprie simpatie per la «rivoluzione conservatrice»), tanto da
pubblicare nel 1970 la raccolta di scritti Bereit für Deutschland
(Pronti per la Germania) come risposta alle accuse di esser stato un
«nazista ebreo». Tenne sempre a distinguere, prosegue Pinto, il suo
particolare conservatorismo prussiano dal nazismo, esito di una
«rivoluzione popolare» e razziale dettata dall’ hybris umana moderna. Il
legame fra prussianesimo ed ebraismo «aveva radici storico-religiose,
non razziali, l’eroica ostinazione prussiana contro l’auto-disgregazione
aveva sconfitto l’infinità del paesaggio pianeggiante (a differenza
della melanconia russa), come gli ebrei avevano fatto verso il deserto
attraverso la parola del loro Signore sovrano».
Jabotinsky è stato il
leader della destra sionista negli anni che precedettero la
costituzione dello Stato di Israele. Ovazza è stato uno dei maggiori
rappresentanti della destra ebraica antisionista nell’Italia fascista.
Kadmi-Cohen è stato il paladino di un semitismo ultra-rivoluzionario
nella Francia della Seconda Repubblica. Klausner ha alimentato una
visione organicistica della nazione ebraica tra la Russia tardo-zarista e
la Palestina mandataria. Gaissinovic ha sostenuto una visione
rivoluzionaria del sionismo. Schoeps ha pensato fosse possibile una
rifondazione dialettica dell’ebreo tedesco durante il nazismo. Tutti
questi personaggi, scrive Pinto, hanno creduto in una visione militante
della cultura: lo spirito non deve «emancipare» gli ebrei dal giogo del
capitalismo, ma renderli «partecipi consapevoli della modernità» .
Il
loro comune avversario avrebbe dovuto essere l’Illuminismo, l’idea che
l’ebraismo fosse semplicemente una «morale» universalizzabile e non più
una religione nazionale, che gli ebrei fossero uomini come tutti gli
altri. Liberalismo e comunismo erano ritenuti due facce della stessa
medaglia: la distruzione dei legami spirituali e comunitari degli
individui e la loro sottomissione ad una presunta etica universalistica e
utilitaristica. L’antisemitismo era visto come l’altra faccia della
modernità, come l’esito di logiche puramente materiali e della (fallita)
assimilazione degli ebrei ai popoli ospitanti. Le loro furono
esperienze tra loro molto diverse, ma che testimoniano una complessità
di nessi in qualche caso imprevedibili. Addirittura insospettabili.
Quei personaggi che lottarono per il risveglio del loro popolo
Corriere 17.2.15
Esce
domani in libreria il volume di Vincenzo Pinto In nome della Patria.
Ebrei e cultura di destra nel Novecento , edito da Le Lettere (pagine
200, e 16,50) nella collana Biblioteca di «Nuova Storia Contemporanea»
diretta da Francesco Perfetti. Uno su mille (Mondadori, 1991) è il
titolo del saggio in cui Alexander Stille si è occupato anche del
banchiere ebreo italiano Ettore Ovazza, un fervente fascista che venne
ucciso dalle SS nell’ottobre del 1943. S’intitola Treblinka (traduzione
di Luisa d’Alessandro e Giovanni Mariotti, Mondadori, 1967) il libro
dedicato da Jean-François Steiner alla rivolta avvenuta nell’omonimo
campo di sterminio. Lo scrittore israeliano Amos Oz parla del suo prozio
Joseph G. Klausner, esponente della destra ebraica, nel romanzo Una
storia di amore e di tenebra (traduzione di Elena Loewenthal,
Feltrinelli, 2003)
Ebraismo magico
Sangiuliano Domenicale 13 9 2015
Un contributo fondamentale in termini di elaborazione filosofica e morale, è quello che la cultura ebraica ha dato all’Occidente e alla definizione delle sue peculiarità storiche. Ma se sul terreno della filosofia politica sono arcinoti gli apporti che la cultura ebraica ha dato al marxismo e al socialismo, meno note sono le figure conservatrici del mondo ebraico, che pure hanno elaborato un’antropologia storico-filosofica comunitaria basata su valori tradizionali. Se si pensa a Vladimir Ze’ev Jabotinsky, una delle personalità ebraiche più affascinanti, riconosciuto nello Stato di Israele come uno dei padri al pari di Theodor Herlz. Così Abba Gaissinovic, interprete da una prospettiva ebraica del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler o Hans-Joachim Schoeps, teorico del pensiero «inattuale» e della «rivoluzione conservatrice».
In nome della Patria è il saggio di Vincenzo Pinto, storico del nazionalismo ebraico, che disegna il singolare rapporto tra «Ebrei e cultura di destra». Un viaggio fra autori accomunati dalla matrice antilluminista, che al positivismo oppongono un forte richiamo comunitario, consapevoli che «la trasformazione dell’ebreo in semplice homo oeconomicus» è da considerare «uno degli esiti più deleteri del materialismo contemporaneo».
Lo studioso israeliano Ezra Mendelssohn ha scritto: «La destra ebraica è molto più difficile da definire rispetto alla sinistra. Se, però, la definiamo come conservatrice nella sua idea di come dovrebbe organizzarsi la società ebraica, allora diventa comprensibile una destra ebraica».
La figura chiave di questa linea di pensiero è quella di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, riconosciuto come padre spirituale del movimento liberal-conservatore di Heruth (Libertà) di Begin, riscoperto con vigore dal Likud, come giornalista uomo di lettere ed originale interprete del sionismo. Nel 1964, dopo averne riscoperto il pensiero, vi sarà la monumentale sepoltura, riconoscimento postumo di questo intellettuale, nato ad Odessa, di formazione mitteleuropea, vissuto per tre anni in Italia, morto nel 1940. Jabotinsky è il paladino di un sionismo borghese che afferma la «centralità d’Israele», di fronte ai pogrom, iniziati a partire dal 1871, che avevano posto alla borghesia ebraica interrogativi angosciosi. Alcuni intellettuali ebrei, di cui Jabotinsky si fa interprete di peso, cominciano a ritenere che, forse, ai valori dell’illuminismo e dell’internazionalismo vadano anteposti quelli della salvaguardia dell’identità culturale ebraica e dell’integrità fisica. Nel 1903, attorno al giornale liberalconservatore «Odesskij Listok» si fa strada l’idea dell’autodifesa ebraica, di ispirazione antisocialista e conservatrice. Alla teorizzazione di un nuovo modo di intendere la questione ebraica, Jabotinsky unisce un attivismo concreto, nell’autunno del 1915 rompendo la neutralità affermata dall’Organizzazione sionistica mondiale, di stanza a Berlino, si reca a Londra a perorare la costituzione di una legione ebraica che partecipasse alla liberazione della Palestina dall’occupazione turca. Qui lega con il chimico Chaim Weizmann, leader liberale e futuro primo presidente dello Stato d’Israele.
Jabotinsky non fu solo un fine polemista e un saggista ma anche un romanziere di successo e sempre nelle sue opere testimonia una concezione politico-filosofica che ruota attorno al problema dello Stato, unica entità capace di proteggere, anche in termini culturali, la propria comunità ma che deve essere libero nei rapporti economici e sociali. «La questione ebraica», scrive Pinto, in lui «è assai più importante dell’identità ebraica in quanto tale: l’ebreo è anzitutto il membro di una comunità di destino».
Un felice sintesi fra cultura umanistica occidentale e tradizione religiosa ebraica è quella in Joseph Klausner, lituano di origine, vissuto ad Odessa e poi diventato esponente di punta del nazionalismo sionista. Autore della Storia del Secondo Tempio si candidò per Herut alle elezioni per la presidenza dello Stato d’Israele ma fu sconfitto da Weizmann. Al centro dei suoi studi il legame storico e religioso fra ebraismo e cristianesimo e soprattutto il rapporto fra giudaismo ed umanesimo, che significa riconoscimento dell’identità comunitaria forte dei popoli, nel legame fra terra e cultura, in opposizione all’universalismo. Un famoso nipote di Klausner è lo scrittore israeliano Amos Oz che ha rievocato nella sua autobiografia Sippur al ahava vehoshekn (Storia d’amore e di tenebra) la figura dello zio.
La riflessione sull’identità occidentale ebraica e il tema forte anche di un altro degli autori scelti da Pinto è Abba Gaissinovic, lettore e interprete di Oswald Spengler, russo di origine, formatosi a Vienna, laureatosi proprio con una tesi sull’autore del Tramonto dell’Occidente. Emigrato in Palestina nel 1924 assume il nome di Abba Achimeir e collabora a lungo con il quotidiano Do’ar Hayom (Posta quotidiana. Aderisce alla tesi di Spengler sull’esistenza di «un’anima magica» dei popoli, capace di reinterpretare la tradizione e trasmetterla ai posteri. Ebraismo ed occidente devono individuare costantemente il nucleo della loro civiltà magica in quel processo che si chiama «pseudomorfosi».
Hans Joachim Schoeps chiude la galleria dei personaggi di questo saggio, tedesco di nascita e di lingua, amava autodefinirsi ebreo-prussiano, importante storico delle religioni, nonché curatore delle opere di Kafka. Durante il nazismo riparò in Svezia mentre perse i genitori nei campi di concentramento dell’Olocausto, tornato in Germania dopo la guerra rifiutò, per motivi politici, la cattedra all’Università Humboldt di Berlino Est ma accettò quella di storia delle religioni all’ateneo di Erlangen in Baviera. Qui elabora la sua teoria dello spirito che ruota attorno al riconoscimento del valore del prussianesimo conservatore antitetico al nazismo che ebbe forti venature di sinistra. Difensore dei diritti e dell’uguaglianza delle minoranze sessuali, si opporrà, però, con vigore al movimento del sessantotto che indica come esempio di auto-disgregazione di una società. Nel 1951 tenne un famoso discorso in occasione dei duecentocinquanta anni del Regno di Prussia, testamento politico contro il nichilismo.
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