venerdì 6 febbraio 2015

Crisi e guerra: Christian Marazzi


Christian Marazzi e il petrolio fatale 

Intervista. L'economista svizzero Christian Marazzi spiega lo scenario esplosivo che la crisi è andata delineando. Dall'Arabia Saudita, unico potente sul mercato, al terrorismo che pesca affiliati nella disperazione delle periferie del mondo
Gigi Roggero, il Manifesto 5.2.2015

In un semi­na­rio su crisi e com­po­si­zione di classe orga­niz­zato al Can­tiere di Milano lo scorso novem­bre dai pro­getti Effi­mera e Com­mo­n­ware, Chri­stian Marazzi aveva ipo­tiz­zato l’intensificarsi di uno sce­na­rio di guerra dif­fusa, legato innan­zi­tutto all’esplosione della bolla del petro­lio e alla rivolta dell’Opec con­tro i nuovi pro­dut­tori. I fatti di Parigi, pur con le loro forti spe­ci­fi­cità, pos­sono forse essere inse­riti in que­sto qua­dro.
La nuova inter­vi­sta con Marazzi comin­cia dalla ricon­fi­gu­ra­zione di una geo­po­li­tica impe­riale su cui spi­rano forti i venti di guerra. «Per ragio­nare su que­sto sce­na­rio di guerra dif­fusa ho preso spunto dal dimez­za­mento del prezzo del petro­lio, con­se­guenza di una pre­cisa scelta, in par­ti­co­lare dell’Arabia Sau­dita — spiega l’economista sviz­zero -. Viene for­zato il prezzo non dimi­nuendo la pro­du­zione, met­tendo in dif­fi­coltà paesi come Iran, Nige­ria e Vene­zuela che hanno biso­gno di un prezzo supe­riore ai 100–120 dol­lari al barile. La deci­sione dell’Arabia Sau­dita, e quindi dell’Opec, ha effetti desta­bi­liz­zanti per tutta la pro­du­zione del petro­lio e del gas attra­verso la tec­nica della fratturazione». 

Può offrirci ulte­riori det­ta­gli riguardo alle dina­mi­che dei con­flitti in campo? 

Dal punto di vista geo­po­li­tico, gira l’ipotesi di un asse tra Ara­bia Sau­dita e Stati Uniti per fare la festa alla Rus­sia: non ci ho mai cre­duto. In primo luogo, il petro­lio, a que­sto prezzo, mette in forte crisi le cor­po­ra­tion nate sul frac­king, che hanno bloc­cato tutti i piani di inve­sti­mento e licen­ziano per­so­nale qua­li­fi­cato. L’Arabia Sau­dita mira a domi­nare nuo­va­mente il mer­cato facendo sal­tare i com­pe­ti­tor spun­tati negli ultimi dieci anni e che hanno por­tato gli Stati Uniti all’autosufficienza petro­li­fera. In secondo luogo, gra­zie alle poli­ti­che di riav­vi­ci­na­mento con gli Stati Uniti, l’Iran può diven­tare un sog­getto deci­sivo in Medio Oriente, cosa vista male dall’Arabia Sau­dita, figu­ria­moci dagli israe­liani. Certo, l’operazione sta com­por­tando seri pro­blemi all’economia russa, con il crollo del rublo e il fal­li­mento di ban­che. Penso però che sia un effetto col­la­te­rale, per­ché per gli ame­ri­cani non sarebbe una mossa intel­li­gente. La sva­lu­ta­zione del rublo, infatti, è stata con­te­nuta gra­zie agli inter­venti della banca popo­lare cinese e della banca cen­trale indiana: in una sorta di ete­ro­ge­nesi dei fini, si potrebbe così con­so­li­dare il polo Rus­sia, Cina e India. Par­tendo da qui, ho par­lato di uno sce­na­rio di forte ten­sione. L’Arabia Sau­dita sta die­tro al ter­ro­ri­smo isla­mico, che è stato forag­giato anche dagli Stati Uniti. Non voglio dire che ci sia un rap­porto di causa-effetto tra que­sta evo­lu­zione geo­po­li­tica e i fatti di Parigi, che riman­dano anche a logi­che interne alla Fran­cia. Sta di fatto che le cose vanno in tale direzione. 

Pos­sono quindi essere inqua­drati nel con­te­sto di guerra diffusa… 

Esatto. Que­sta forma di ter­ro­ri­smo è figlia del degrado delle ban­lieue, penso in ter­mini mar­xi­sti che ci sia un rap­porto di causa-effetto tra la crisi ende­mica delle peri­fe­rie metro­po­li­tane e i com­por­ta­menti di insu­bor­di­na­zione. Il fat­tore reli­gioso è un bel pro­blema, però mi sem­bra che rien­tri in que­sti ultimi anni di attacco da parte dell’Occidente: che uno degli atten­ta­tori di Parigi si sia con­ver­tito all’islam dopo aver visto le imma­gini di Abu Ghraib la dice lunga sul clima di guerra dif­fusa, inscritta nella crisi eco­no­mica e finanziaria. 

In que­sto qua­dro geo­po­li­tico, si inse­ri­sce la que­stione di un’eurozona in defla­zione. Vi sono due recenti ele­menti da ana­liz­zare: da un lato le poli­ti­che mone­ta­rie di «quan­ti­ta­tive easing» annun­ciate dalla Bce, dall’altro la vit­to­ria di Syriza in Gre­cia. A ini­zio gen­naio lo «Spie­gel» soste­neva che la Ger­ma­nia potrebbe aval­lare un’uscita dall’euro della Gre­cia, in quanto non teme più l’effetto con­ta­gio. E se, oltre che stru­mento di pres­sione, facesse parte del pro­cesso di fram­men­ta­zione dell’eurozona da te già ipotizzato? 

La svolta mone­ta­ria del quan­ti­ta­tive easing, pre­vi­sta da tempo, ha sor­preso per la quan­tità di denaro. Credo che i 60 miliardi men­sili siano il frutto di un com­pro­messo tra Dra­ghi e la Bun­de­sbank; però, secondo i desi­de­rata tede­schi, si attri­bui­sce l’80% dei rischi alle ban­che cen­trali dei paesi mem­bri. Se l’Italia o la Spa­gna doves­sero fal­lire, le loro ban­che cen­trali dovreb­bero assu­mersi l’80% dell’onere del default. Ciò pre­fi­gura uno sce­na­rio di fram­men­ta­zione dell’Europa, nel senso che ven­gono meno le poli­ti­che di mutua­liz­za­zione dei rischi dell’unione ban­ca­ria. Il quan­ti­ta­tive easing euro­peo è per­ciò un ten­ta­tivo piut­to­sto dispe­rato di bloc­care la spi­rale defla­zio­ni­stica e di uscire da una reces­sione che si sta pro­traendo da troppo tempo per la stessa Ger­ma­nia. I mer­cati non hanno rea­gito in ter­mini straor­di­nari: sono dimi­nuiti i ren­di­menti dei bund, men­tre negli Stati Uniti è acca­duto quasi sem­pre il con­tra­rio quando c’è stata un’ingente inie­zione di liquidità. 

Su que­sto sfondo i com­por­ta­menti verso la Gre­cia di Ger­ma­nia e Fran­cia, o di Junc­ker, sono una forma di ter­ro­ri­smo. L’aver insi­nuato che un’uscita della Gre­cia potrebbe non avere con­se­guenze nega­tive la dice lunga sulla deter­mi­na­zione della Troika e non solo di agire pesan­te­mente sulla vit­to­ria di Syriza. Pic­chie­ranno duro, anche se nelle dichia­ra­zioni di Tsi­pras c’è una dispo­ni­bi­lità a nego­ziare — dimez­za­mento del debito, di rilan­cio di poli­ti­che di wel­fare, di inve­sti­menti pub­blici. Le posi­zioni di Syriza sono quelle di una social­de­mo­cra­zia avan­zata, vogliono ridurre il peso del debito sovrano e ridare un po’ di ossi­geno al paese, all’economia e alla società, per uscire da una situa­zione di cata­strofe umana. 

Del resto, molti eco­no­mi­sti non par­ti­co­lar­mente radi­cali hanno espresso soste­gno al pro­gramma di Syriza… 

Sullo stesso Finan­cial Times si sostiene che par­titi come Syriza e Pode­mos sono la spe­ranza per l’Europa e per l’euro. La vit­to­ria di Syriza avrà pro­ba­bil­mente effetti di sva­lu­ta­zione dell’euro: anche in que­sta pro­spet­tiva, insieme al quan­ti­ta­tive easing (fina­liz­zato a un inde­bo­li­mento dell’euro per favo­rire una ripresa delle espor­ta­zioni), la banca nazio­nale sviz­zera ha abban­do­nato la parità tra euro e franco.
Anche per l’entità, que­sta poli­tica mone­ta­ria in ver­sione euro­pea – già pra­ti­cata negli Stati Uniti, in Inghil­terra e in Giap­pone – dimo­stra che siamo in una situa­zione di crisi molto più grave di quella che ci viene rac­con­tata. Altri­menti non si capi­rebbe come ci si sia potuti met­tere d’accordo sui 60 miliardi men­sili. Però, le poli­ti­che mone­ta­rie non con­ven­zio­nali come il quan­ti­ta­tive easing danno poco con­tri­buto alla cre­scita del Pil, negli Stati Uniti si cal­cola che sia dello 0,26%. 

Nel terzo tri­me­stre del 2014 si è regi­strato un aumento del 5% del Pil ame­ri­cano: è una ripresa strut­tu­rale o drogata? 

L’economia ame­ri­cana cre­sce nor­mal­mente più di quella euro­pea, per que­stioni demo­gra­fi­che, per il con­tri­buto dell’immigrazione e per il debito pub­blico più grande del mondo (il 106% del Pil). C’è stato un forte aumento del debito degli stu­denti ed è tor­nato l’indebitamento ipo­te­ca­rio. È dun­que il key­ne­si­smo finan­zia­rio che ha per­messo la cre­scita. Non c’è stato l’abbattimento della spesa pub­blica auspi­cato dalla destra, ma nem­meno un miglio­ra­mento delle pre­sta­zioni sociali. 

Inol­tre, è dimi­nuita sì la disoc­cu­pa­zione, ma per­ché è dimi­nuita la par­te­ci­pa­zione della forza lavoro al mer­cato. C’è quindi cre­scita di una povertà rela­tiva e asso­luta, l’aumento delle dise­gua­glianze è l’altra fac­cia di quella che Obama ha chia­mato uscita dalla crisi. Le poli­ti­che di quan­ti­ta­tive easing raf­for­zano le atti­vità di tipo finan­zia­rio e bor­si­stico, però tale ric­chezza non sgoc­ciola nella società. Que­sta liqui­dità ali­menta un cir­colo vir­tuoso sul piano finan­zia­rio che però non si col­lega alla cosid­detta eco­no­mia reale. 

Potrebbe essere que­sto l’effetto in Europa delle poli­ti­che annun­ciate dalla Bce? 

Penso di sì. Da una parte, poli­ti­che di quan­ti­ta­tive easing sono meglio del mone­ta­ri­smo alla tede­sca degli ultimi anni. Dall’altra, però, sono estre­ma­mente scet­tico sulla pos­si­bi­lità di uscire dalla crisi con que­ste poli­ti­che: vedo il rischio di un forte aumento delle dise­gua­glianze, che già sono a livelli stra­to­sfe­rici. Il quan­ti­ta­tive easing è anche un ten­ta­tivo poli­tico di con­te­nere la cre­scita dell’estrema destra, che cavalca il disa­gio con una posi­zione di rot­tura di tutto ciò che è Europa. La spac­ca­tura dell’euro è stata in un certo momento addi­rit­tura pro­ba­bile, poi alla fine del 2011 Dra­ghi ha deciso di det­tare i famosi mille miliardi. Siamo stati di nuovo in una situa­zione simile, si è per­ciò deciso per una svolta di grande por­tata. Certo è che se non si appli­cano delle poli­ti­che di redi­stri­bu­zione del red­dito e non si rilan­cia un wel­fare post-liberista, la destra è desti­nata ad avan­zare. Per que­sto con­si­dero la Gre­cia il paese da cui può rina­scere un’ipotesi di Europa diversa, dovremo quindi pre­pa­rarci a soste­nere que­sta svolta, appro­fon­dendo la rot­tura della fatale e dia­bo­lica poli­tica di stabilità. 

In uno sce­na­rio in cui i con­flitti pos­sono assu­mere dire­zioni molto dif­fe­renti, lei ha più volte par­lato del nodo dell’organizzazione, e dello sce­na­rio bel­lico come occa­sione per pra­ti­che transnazionali… 

L’islamismo estremo ci inter­pella sulle que­stioni del wel­fare, della povertà, della peri­fe­ria. Non dimen­ti­chiamo che l’Isis paga un red­dito di cit­ta­di­nanza di 400 dol­lari ai suoi affi­liati. In ter­mini mate­ria­li­stici ne vedo la potenza. 

Molte orga­niz­za­zioni isla­mi­che hanno costruito la pro­pria forza innan­zi­tutto sulla que­stione del welfare. 

È una lunga sto­ria. Sta a noi indi­vi­duare nel con­creto, dove viviamo, que­ste forme di costru­zione e pra­tica di un comune fatto di dif­fe­renze mol­te­plici. La crisi del wel­fare, voluta e pro­gram­mata dalle poli­ti­che neo­li­be­rali e dell’austerità, deve essere colta come occa­sione per spe­ri­men­tare pro­cessi di con­di­vi­sione dal basso. Per­ché non ripro­porre den­tro l’espansionismo mone­ta­rio l’idea di una redi­stri­bu­zione di que­sta ric­chezza? Pro­viamo a tra­sfor­mare il con­cetto stesso di liqui­dità in moneta del comune, a par­tire dal rilan­cio di cri­teri di ugua­glianza. Non c’è uscita dalla crisi senza redi­stri­bu­zione della ricchezza. 

I fatti di Parigi segna­lano anche un rischio con­creto all’interno della com­po­si­zione sociale, ovvero una spac­ca­tura tra un ceto medio bianco che si ricom­pone attorno ai valori della Répu­bli­que e le peri­fe­rie che si ricom­pon­gono attorno a un con­flitto che veste appa­ren­te­mente i panni della reli­gione. Se leg­giamo le bio­gra­fie di chi ha com­piuto l’azione a «Char­lie Hebdo» o di chi parte da Lon­dra o Parigi per com­bat­tere con l’Isis, tro­viamo pro­le­tari, rap­per e gio­vani impo­ve­riti delle metro­poli. Tutto ciò ci parla innan­zi­tutto delle nostre man­canze e incapacità… 

Lì la reli­gione è un dispo­si­tivo di ricom­po­si­zione, ed è pro­prio un dispo­si­tivo di ricom­po­si­zione che noi dob­biamo rein­ven­tare. Le lotte ine­vi­ta­bil­mente ci saranno in que­sta bolla di ipo­cri­sia che i ceti poli­tici domi­nanti con­ti­nuano a gon­fiare con la reto­rica dell’essere fuori dalla crisi. In que­ste lotte, spu­rie ed ete­ro­ge­nee, ci sarà una for­tis­sima ten­sione sul piano della pro­get­tua­lità e delle forme di orga­niz­za­zione. Sarà un per­corso molto duro, che dob­biamo pre­ve­dere e affron­tare con corag­gio. Come si fa a tro­vare un lin­guag­gio comune tra una mol­te­pli­cità di sog­getti che, pur avendo deter­mi­nati biso­gni, hanno refe­renti e per­corsi bio­gra­fici così fra­sta­gliati, tra chi è stato licen­ziato da un’impresa o da una fab­brica e chi è cre­sciuto di assi­stenza? Forse la nostra più grande sfida è coniu­gare odio e pace, o la pace come una forma di odio, che sia il ter­reno sul quale pos­siamo par­larci e pen­sare assieme, per quanto con imma­gi­nari, vis­suti e ferite sul nostro corpo così diverse. 

L’intervista inte­grale è stata pub­bli­cata anche dai siti dei pro­getti Com­mo­n­ware (www​.com​mo​n​ware​.org) e Effi­mera (qua​derni​.san​pre​ca​rio​.info/​c​a​t​e​g​o​r​y​/​e​f​f​i​m​e​ra/). 

Il testo farà parte di un ebook in cui saranno rac­colti i mate­riali del semi­na­rio sulla crisi che si è tenuto a Milano, lo scorso novembre

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