Porzûs, una memoria senza pace Il nodo resta l’ambiguità comunista
di Antonio Carioti Corriere 6.2.15
Domani saranno settant’anni dal giorno in cui, il 7 febbraio 1945,
partigiani comunisti dei Gap di Udine presero di mira altri resistenti
della formazione friulana Osoppo, di matrice cattolica e azionista,
nella località montana di Topli Uork, poi detta comunemente «malghe di
Porzûs» dal nome di un vicino centro abitato. Fu un eccidio a freddo con
una ventina di vittime, il più cruento caso di conflitto interno alla
Resistenza italiana. Tra gli uccisi, il comandante dell’unità osovana,
Francesco De Gregori, zio e omonimo del noto cantautore, e Guido
Pasolini, fratello del poeta e regista Pier Paolo.
Inevitabilmente
sulla strage sono state coltivate a lungo memorie contrapposte: i reduci
della Osoppo hanno accusato i comunisti di aver agito d’intesa con le
forze di Tito, in una prospettiva rivoluzionaria che comportava
l’annessione del Friuli orientale alla nascente Jugoslavia socialista; i
partigiani di sinistra dell’Anpi hanno cercato di derubricare la
vicenda a tragico incidente, rinfacciando agli osovani una serie di
contatti con i fascisti in funzione nazionalista e anti-slovena.
Con
il tempo la ricerca storica ha fatto diversi passi avanti e si è
registrato anche qualche gesto di riconciliazione, tra cui l’abbraccio,
nell’agosto del 2001, tra l’ex cappellano dell’Osoppo, don Redento
Bello, e l’ex commissario politico comunista Giovanni Padoan, che aveva
chiesto perdono agli eredi delle vittime. Importante anche l’omaggio
reso ai caduti, il 29 maggio 2012, dal presidente Giorgio Napolitano,
con la denuncia dei «feroci ideologismi» dai quali derivò il massacro e
l’invito a sanare «le più dolorose ferite del passato». Inoltre le
malghe di Porzûs sono state dichiarate «sito d’interesse
storico-culturale».
Tuttavia le divisioni non sono venute meno: a
tutt’oggi l’Anpi non ha mai preso parte alle commemorazioni
dell’eccidio. E in alcuni autori la volontà di attribuire genuine
credenziali democratiche al Pci di Palmiro Togliatti finisce per
riproporre schemi e pregiudizi del passato.
Per esempio sulla rivista
«Storiografia» (Fabrizio Serra editore), diretta da Massimo
Mastrogregori, è apparso di recente un saggio in cui Fabio Vander
critica aspramente gli autori del libro a più voci Porzûs , edito dal
Mulino nel 2012 a cura di Tommaso Piffer. Pur riconoscendo che gli
osovani non tradirono la causa della Resistenza, Vander li taccia a più
riprese di «intelligenza con il nemico nazifascista», fornendo così una
parziale giustificazione all’operato dei Gap. Ma soprattutto cerca di
rovesciare tutta la responsabilità dell’eccidio sugli jugoslavi e di
assegnare al Pci un ruolo di vittima, in quanto portatore di una linea
di un ità antifascista alternativa al classismo di Tito. E respinge
quasi come un’eresia la tesi che la posizione togliattiana, peraltro in
linea con le direttive di Stalin e con la condotta di altri partiti
comunisti nell’Est europeo, celasse un notevole margine di ambiguità.
D’altronde,
come lo stesso Vander ammette un po’ a denti stretti, risulta da un
documento pubblicato molti anni fa dallo storico comunista Paolo Spriano
che nell’ottobre 1944 Togliatti diede indicazione al Pci di favorire
l’occupazione della regione giuliana da parte delle forze di Tito. Ciò
non significava necessariamente approvare l’annessione di quelle terre
alla Jugoslavia, ma certo l’avrebbe agevolata, dato che ben
difficilmente la popolazione avrebbe potuto esercitare in pieno il suo
diritto all’autodeterminazione in un’area sotto il controllo delle armi
titine.
Il fatto è che il confine italo-jugoslavo fu all’epoca teatro
di molti conflitti intrecciati, ideologici, etnici e di classe. E
l’unità della Resistenza venne minata dall’influsso degli jugoslavi e
dalle loro ambizioni di rivalsa sul nazionalismo italiano, alle quali il
Pci non riuscì a opporsi per il richiamo della solidarietà
internazionalista.
Le ricerche d’archivio di Matteo Forte, esposte in
un articolo che apparirà in marzo sulla rivista «Nova Historica»,
diretta da Giuseppe Parlato, mostrano che gli autori della strage di
Porzûs avevano stilato un elenco di altri esponenti dell’Osoppo ritenuti
«pericolosi» o perfino «criminali», che fu allegato alla relazione
sull’eccidio presentata al comando jugoslavo e al Pci di Udine,
presumibilmente in preparazione di nuove azioni offensive.
Le
pulsioni rivoluzionarie del comunismo italiano, miranti a spazzare via
con la violenza ogni ostacolo sulla strada del potere, vennero sedate a
livello nazionale da Togliatti, ben consapevole che l’Italia sarebbe
finita nella sfera d’influenza occidentale. Ma Porzûs dimostra che in
condizioni ambientali diverse, sotto lo stimolo dei compagni jugoslavi,
la situazione poteva prendere un’altra piega.
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