La musulmana Commedia
Maometto è all’«Inferno», ma sempre più indizi suggeriscono che il poema abbia fonti arabe
di Paolo Di Stefano Corriere La Lettura 15.2.15
Nel
750° della nascita di Dante, una cospicua serie di occasioni editoriali
riporta sulla scena — in una fase storica peraltro tragicamente
sensibile a questi temi — il discusso rapporto tra l’Alighieri e il
mondo arabo. Intanto, la riproposta dell’autentico classico
sull’argomento: lo studio del gesuita spagnolo Miguel Asín Palacios,
L’escatologia islamica nella Divina Commedia (in libreria per Luni
editore con introduzione di Carlo Ossola), che al suo apparire, nel
1919, fu tanto pionieristico da scatenare accese polemiche tra i
dantisti italiani, scandalizzati dall’ipotesi di un influsso dei modelli
arabo-islamici sul poema dantesco. Si sarebbe poi scoperto che tra
questi testi agì certamente il cosiddetto Libro della Scala di Maometto ,
che narra il viaggio notturno del profeta e la sua ascesi al cielo:
un’opera (il cui originale arabo, dell’VIII secolo, è andato perduto)
diffusa in Europa attraverso due versioni, in latino e in francese. Fu
sicuramente il notaio toscano Bonaventura da Signa, esule alla corte
toledana di Alfonso il Savio dopo il 1260, l’autore della traduzione
latina, edita nel 1949 da Enrico Cerulli e riproposta lo scorso anno per
le attente cure di Anna Longoni (Bur).
Maria Corti ebbe il merito
di riprendere la questione dei contatti tra cultura arabo-islamica e
letteratura cristiana in epoca medievale (in primo luogo studiando il
canto di Ulisse e il passaggio delle Colonne d’Ercole), e di
approfondire in particolare l’ipotesi di un rapporto intertestuale tra
il Libro e la Commedia . Si trattava poi di capire come Dante ne fosse
venuto a conoscenza, tenendo presente che l’ipotesi ricorrente
accreditava come chiave di volta la mediazione di Brunetto Latini, il
maestro dell’Alighieri che frequentò la corte di Toledo; probabilmente
l’opera era più diffusa di quel che si pensa. Di recente il filologo
Luciano Gargan ha trovato il Libro citato nell’inventario di una piccola
biblioteca raccolta da un frate domenicano, Ugolino, e donata nel 1312
al convento bolognese di San Domenico: e Gargan ( Dante, la sua
biblioteca e lo studio di Bologna , Antenore) suppone che Dante abbia
potuto avvicinarsi alla leggenda islamica durante i suoi soggiorni
bolognesi.
A tutto ciò si aggiunge ora uno studio che uscirà nel
prossimo numero dei «Quaderni di filologia romanza», diretti da Andrea
Fassò (maggio-giugno 2015, Patron editore). Si tratta di una Lettura
(faziosa) dell’episodio di Muhammad proposta dal filologo di origine
egiziana Mahmaoud Salem Elsheikh, allievo di Gianfranco Contini,
curatore di diversi testi italiani delle origini e fino al 2007
responsabile dell’Ufficio Filologico dell’Opera del Vocabolario
Italiano. Il saggio dedica una prima parte al trattamento riservato,
nelle varie traduzioni arabe, ai versi «offensivi» del XXVIII dell’
Inferno riguardanti il profeta dell’islam e il suo genero Alì: un canto
«splatter» di rara violenza verbale in cui i due fondatori dell’islam,
finiti nella nona bolgia come seminatori di scismi, esibiscono orrende
ferite e mutilazioni, esatto contrappasso delle divisioni di cui
sarebbero stati responsabili. Ecco Maometto squarciato dal mento «infin
dove si trulla» (cioè fino all’ano, ovvero dove si scorreggia) e Alì con
la faccia sfigurata dal mento alla fronte.
Non potendo tollerare
una tale offesa, i traduttori arabi, pur inebriati dall’ipotesi di una
influenza della loro cultura nel poema dantesco, lavorano di forbici.
Siamo nel 1930 quando Taha Fawzi pubblica al Cairo un profilo biografico
di Dante, con «una sobria e puntuale analisi delle opere minori e un
garbato riassunto delle tre cantiche». In contemporanea, fra il 1930 e
il ’33, tocca al libanese Abbud Abu Rašid, naturalizzato italiano, dare
alle stampe una versione in prosa in cui vengono cassati i nomi di
Maometto e di Alì: una «traduzione, resa quasi illeggibile dalle molte
chiose sovrapposte e intricate». Più radicale sarà l’intervento del
giordano cristiano Amin Abu Sha’ar, che nella sua traduzione in prosa
dell’ Inferno , uscita a Gerusalemme nel 1938 e basata sulla versione
inglese di Henry Francis Cary, decide di saltare non solo il canto
XXVIII ma anche il XXIX e il XXX.
Servono quarant’anni di lavoro
all’egiziano Hassan Uthman per portare a termine una «pregevole»
traduzione apparsa tra il 1955 e il ’69, condotta sull’originale e
corredata da un ampio commento didascalico. Uthman taglia però i versi
22-64, poiché «inadatti alla traduzione» e frutto di «un grossolano
errore» dovuto all’influenza di «quanto in quell’epoca era opinione
comune sul grande Profeta». Meno riuscito il tentativo di rendere la
Commedia in versi da parte dell’iracheno Kazim Jihad, il quale nel 2002
con il contributo dell’Unesco, fornì, secondo Elsheikh, «una traduzione
assolutamente incomprensibile»: i nomi di Maometto e di Alì vengono
sostituiti da puntini di sospensione tra parentesi tonde. È la decisione
che prende anche il siriano Hanna Abbud nella sua traduzione damascena
dello stesso anno, cercando di «camuffare l’identità dei personaggi fino
a rendere incomprensibile il passo dantesco».
Venendo all’immagine
di Muhammad diffusa nel Medioevo cristiano, Elsheikh si sofferma sulle
rappresentazioni offensive. Si comincia dalle cadute provocate
dall’apparizione dell’arcangelo Gabriele, che vengono interpretate come
stratagemma per mascherare l’epilessia. E si prosegue con le narrazioni
che lo vogliono monaco arrivista, impaziente di diventare patriarca di
Gerusalemme (così lo vede Ildeberto di Lavardin, arcivescovo di Tours,
all’inizio del XII secolo), oppure mago pseudo-profeta e capo dei
ladroni (secondo una leggenda tramandata anche da Jacopo da Varazze alla
fine del XIII secolo). Altri (Ricoldo da Montecroce, morto nel 1320) lo
descrivono come diavolo invidioso delle vittorie altrui.
C’è poi il
filone che lo immagina cardinale romano, addirittura della famiglia
Colonna: così nei rifacimenti toscani del Tresor di Brunetto Latini. Nel
secondo in particolare, del 1310, con il nome di Pelagio vuole farsi
eleggere papa ma non ci riesce per l’opposizione della maggioranza dei
cardinali. Diventa così Malchonmetto (ovvero Maometto, perfida
coniazione secondo etimologia popolare) e se ne va errando e predicando.
L’anonimo versificatore prosegue narrando che Maometto, aggredito da un
drappello di porci, viene morso da una scrofa che gli provoca la
fuoriuscita del cervello e quindi la morte: sarebbe per questo che i
musulmani non mangiano carne di maiale. La tradizione orale occidentale,
che si cristallizza nella scrittura, tende a dimostrare che Muhammad fu
«un cristiano o un mago ingannatore ammaestrato da un cristiano (con
l’aiuto di qualche ebreo) e che l’islam è propaggine eretica del
cristianesimo». Dunque Dante non fa che stare nel solco della leggenda
vulgata nella sua epoca.
Il canto XXVIII, secondo Elsheikh, è
strutturato su una «carica fonica irta e segmentata, che sottolinea la
brutale aggressività delle immagini», con la ricerca di vocaboli
comico-realistici, «al limite della volgarità» intenzionalmente
orientati a dipingere il personaggio con coloriture grottesche e persino
buffonesche che non hanno pressoché eguali in tutta la Commedia . Ma
c’è di più. Lo studioso segnala vistose affinità tra il poema dantesco e
l’archetipo del Libro della Scala , cioè la più antica versione
dell’ascensione ( mi’raj ), attribuita ad Anas ibn Malik, discepolo del
Profeta, morto nel 712: un testo a lungo tramandato per via orale fino
ad arrivare, variamente elaborato, in opere latine antimusulmane diffuse
in Europa.
È un racconto scabro del viaggio di Maometto, ma
guarnito di elementi che non verranno ripresi dai testi latini e che
rimangono dunque unici. Tra questi, l’immagine di Gabriele che, prima
dell’ascensione, apre il ventre e il torace del Profeta, lo svuota e lo
purifica riempiendolo di fede e di sapienza. Il taglio «dalla cavità
della gola fino al basso ventre» è l’equivalente quasi letterale del
dantesco «rotto dal mento infin dove si trulla». A ciò si aggiunge il
passo che riguarda Alì, «fesso nel volto dal mento al ciuffetto», il cui
squarcio prosegue idealmente quello del Profeta (sfregiato dalla gola
in giù), a segnalare l’ulteriore divisione dell’islam tra sunniti e
sciiti. Ebbene, di quella lesione, che avvenne nei fatti, Dante poté
aver saputo solo attraverso la cronaca araba dello storico ibn al-Athir o
da qualche suo ignoto derivato. Per quali vie l’Alighieri si appropriò
delle immagini di ibn Malik e di ibn al-Athir? Non lo sappiamo, perché,
secondo Elsheikh, il «mosaico che compone la conoscenza arabo-islamica
di Dante» va ancora adeguatamente ricostruito.
Ed eccoci giunti a
quella che lo stesso Elsheikh definisce una «mera ipotesi provocatoria».
Si tratta di una congettura psicologica, la «sindrome del debitore».
Dante si accanirebbe con particolare ferocia contro i suoi antichi
modelli culturali in seguito ripudiati: tra questi il sodomita Brunetto
con il suo carico di colpe panarabistiche; ma anche il poeta provenzale
Bertran de Born, segnalato nel De vulgari eloquentia come il maggior
cantore delle armi, che compare nello stesso XXVIII con il capo mozzo
tenuto in mano «a guisa di lanterna», a saldare la simmetria strutturale
del canto, nella bolgia dei «creditori colpevoli». Come furono Maometto
e la sua cultura? Forse. Il crudele «contrappasso» (parola citata qui
per l’unica volta in tutto il poema) sarebbe dunque, tutto sommato e per
paradosso, un riconoscimento di cui i fratelli di Elsheikh dovrebbero
andare fieri. Altro che censura...
Che figura, la Commedia!
Il facsimile dell’esemplare custodito nella casa del poeta a Roma ricco di miniature in una sfarzosa edizionedi Lina Bolzoni Il Sole Domenica 15.2.15
La
scoperta della scrittura, e poi della stampa, furono grandi
rivoluzioni: non si trattava di semplici strumenti, ma di realtà, di
esperienze nuove che avrebbero profondamente trasformato la mente stessa
di chi li usava. Ce lo hanno insegnato, in anni ormai molto lontani,
studiosi come Marshall McLuhan e Walter Ong; oggi noi siamo in grado di
valutare con chiarezza i limiti dei loro studi ma anche la prontezza
dell’intuizione e la loro sostanziale capacità profetica. I nuovi
strumenti di comunicazione non segnarono tuttavia una cesura netta: il
fascino del manoscritto, e del manoscritto miniato in primo luogo, dura a
lungo, anche nell’età della stampa, fino a interagire con il libro
stampato: note di lettura si dispongono per secoli ai margini della
pagina stampata, turbando e arricchendo il suo carattere ordinato e
riproducibile, e dandoci nello stesso tempo la possibilità di spiare dal
vivo la ricezione individuale del testo. Ma, soprattutto nei primi
secoli, sono i capilettera miniati e le immagini dipinte a intervenire
negli spazi della pagina stampata, così da importare nel mondo della
nuova tecnologia il fascino unico e raro del manoscritto prezioso,
quello che aveva costituito il tesoro delle biblioteche principesche e
delle grandi biblioteche private.
Uno splendido esempio ce lo
fornisce un incunabolo della Commedia, stampato a Venezia il 18 novembre
1491, insieme con il fortunato commento di Cristoforo Landino;
l’esemplare oggi custodito presso la casa di Dante in Roma presenta
numerose postille manoscritte, in volgare e in latino, ed è arricchito
da più di 400 miniature a colori. Lo si può ora ammirare nell’elegante
facsimile pubblicato dalla Salerno Editrice, nell’ambito della Edizione
nazionale dei commenti danteschi. Le postille dialogano con il commento
di Cristoforo Landino, in un rapporto molto libero, che prevede il
consenso e la lode, ma anche la critica aperta: «gran coionaria è questa
di lo comentator – leggiamo a un certo punto – a reprender il poeta che
dica mal di la sua patria tegnosa». Ma chi era l’autore di questa nota
irriverente, così polemica contro la partigianeria fiorentina del
Landino? Mettere a fuoco la sua identità ha comportato risolvere un vero
e proprio giallo filologico e, insieme, arricchire la nostra conoscenza
della «geografia e storia» della fortuna di Dante tra Quattro e
Cinquecento. Il commento del Landino, si legge nel colophon
dell’incunabolo, è «emendato per maestro Piero da Fighino dell’ordine de
frati minori». Le ipotesi su questo sconosciuto francescano si sono
susseguite, e la questione era tanto più rilevante perché gli venivano
attribuite sia le postille che le miniature. Una svolta, con uno
spettacolare colpo di scena, si è avuta con le ricerche di Giuseppe
Frasso e Giordana Mariani Canova. Ne risultava del tutto ridimensionato
l’apporto di “maestro Piero”, che si era limitato a rivedere il testo a
stampa, mentre compariva sulla scena, da protagonista, un nuovo,
interessante personaggio: Antonio Grifo, esule da Venezia, poeta ben
inserito nelle corti settentrionali, che fra il 1494 e il ’96 leggeva e
commentava Dante, con grande successo, alla corte di Ludovico il Moro. A
lui sono ora attribuite le annotazioni e le miniature dell’incunabolo
dantesco, sulla linea di un’altra simile impresa da lui compiuta, e cioè
appunto le postille e le illustrazioni con cui decora l’incunabolo
petrarchesco del 1470 conservato nella Biblioteca civica Queriniana di
Brescia. Si capisce allora la coloritura settentrionale della lingua, e
anche il rapporto a volte polemico con Cristoforo Landino, toscano come
toscano era il misterioso revisore, quel «maestro Piero da Fighino» al
quale Celestino Piana ha dato un volto e un’identità: si tratta con ogni
probabilità del francescano Pietro Mazzanti, un teologo legato a
Lorenzo de’ Medici. Ora che i diversi protagonisti dell’operazione hanno
un nome e una precisa collocazione geografica, possiamo goderci ancor
meglio questo splendido incunabolo miniato, in cui parole e immagini
costruiscono, sul testo dantesco, una molteplicità di prospettive. Come
abbiamo già notato, le postille dialogano, a volte polemicamente, con
l’imponente commento del Landino, che inseriva Dante nel cuore della
tradizione culturale fiorentina e ne suggeriva una lettura in chiave
neoplatonica.
Ma ancora più complesso è il rapporto che le miniature
intrattengono con il testo a stampa, in particolare con le immagini -
100 incisioni in legno- di cui l’incunabolo era dotato. Sembra di
assistere a una specie di corpo a corpo fra il miniatore e
l’illustrazione stampata: non soltanto la xilografia viene dipinta, ma a
volte nuove immagini vengono applicate sopra le xilografie, quasi a
sottolineare il trionfo dell’apporto individuale, della mano del
miniatore. Il quale del resto si firma, a c.236r, in corrispondenza con
la prima pagina del Paradiso, attraverso l’immagine del grifone: un
autoritratto allusivo e emblematico, che colloca il postillatore poeta
accanto a Dante e Beatrice sulla soglia dell’empireo. E crea un segreto
legame con la spettacolare scenografia delle immagini che, nei canti
XXIX e XXXII del Purgatorio, celebrano il trionfo del grifone, simbolo
della duplice natura del Cristo. È uno splendido, vivace commento
figurato, quello che si dispiega sotto i nostri occhi, ricco di eleganti
capilettera, di fregi floreali e faunistici, di figurine ornamentali, e
soprattutto rivolto a parlare al cuore e alla mente del pubblico
cortigiano cui è indirizzato. Prevale il gusto per le armi, gli amori,
le audaci imprese, per le fantasie mostruose ispirate dalle creature che
popolano l’Inferno. La corte si rispecchia, attraverso le immagini,
nelle eroine e negli eroi antichi, nei guerrieri che hanno combattuto
per la fede, e tale rispecchiamento è agevolato da una particolare
attenzione alla moda: nel cielo di Marte i paladini di Francia appaiono
vestiti alla «fogia franzosa», come sottolinea una scritta, e anche
Tristano, nel V canto dell’Inferno, indossa un «habito novo».
L’eleganza, il culto degli ideali cavallereschi, la rêverie erotica, si
nutrono dell’esperienza contemporanea e convivono con l’omaggio politico
alla famiglia Sanseverino, protettrice del Grifo.
Ma la di là delle
infinite suggestioni legate al gusto e alla cultura delle corti nordiche
fra la fine del Quattrocento e l’inizio del nuovo secolo, possiamo
semplicemente ripercorrere i fogli abbandonandoci al fascino delle
immagini, al sofisticato gioco illusionistico che esse creano nei
confronti stessi della pagina stampata: a cominciare dalla carta 11r,
dove inizia il poema e la pagina stampata viene ridisegnata così da
apparire come un foglio un po’ stracciato, dai margini smangiati e
arrotolati; in basso Orfeo che incanta le fiere rievoca l’antichissima
origine della poesia ricordata dal Landino nel suo commento, ma
suggerisce forse anche la capacità che la poesia ha di vincere, o almeno
di incantare le fiere che ostacolano il cammino del pellegrino.
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