La «crisi di regime»
Per l’autore il terreno dell’azione comunicativa è decisivo: «I disobbedienti scoprirono un meccanismo politico di produzione di senso adeguato a un tempo dominato dalle tecnologie della comunicazione. Furono capaci di creare simboli che, nel bene e nel male, si sono dimostrati storicamente imprescindibili per l’esito dell’azione collettiva». Qui egli individua tra le Tute bianche uno degli elementi di anticipazione del ciclo dei movimenti «occupy» nelle piazze di dieci anni dopo: «Non solo posero la necessità di costruire scenari di comunicazione politica a partire dal conflitto, riconfigurando la disobbedienza civile e adattandola a le nuove tendenze culturali e militanti proprie dello sviluppo postfordista in Europa. Ma segnalarono anche una possibilità strategica per i settori della sinistra radicale europea che non vedevano ancora chiaramente la possibilità di scommettere sulla forma partito, né intendevano accomodarsi nella marginalità o nella fuga verso “il sociale” e “il solidale”. I disobbedienti dimostrarono invece che era possibile fare politica sullo scenario globale senza essere un partito, e che si può stare al centro del confronto senza farsi cooptare dal sistema rappresentativo».
È in sostanza la fortunata coniugazione di «conflitto e consenso», come si diceva in quegli anni, che consente a Iglesias di affermare come, nella ricostruzione di un ideale fil rouge, «il 15M abbia fatto sì che tutti questi eventi non appartengano al passato ma, in ogni caso, a un futuro anteriore».
Il secondo testo di Pablo Iglesias è molto più recente: Disputar la democracia. Politica para tiempos de crisis è stato pubblicato negli ultimi mesi del 2014 da Ediciones Akal, a poche settimane dalla prima sorprendente affermazione di Podemos nelle elezioni europee del maggio scorso. Qui, a rendere evidente un legame forte, costituente, l’introduzione è affidata ad Alexis Tsipras. E lo scenario è ben differente: Pablo ammette che, se l’obiettivo iniziale (estate 2013) del libro era dar conto delle riflessioni di un giovane professore universitario divenuto famoso prima in rete, poi nei media mainstream, per i commenti politici che offriva dal piccolo schermo, ora si tratta invece di discutere del punto di vista del portavoce di una forza politica, che gli ultimi sondaggi accreditano come maggioranza relativa tra l’elettorato spagnolo. Il testo, pensato e scritto diversamente da certi nostri (tribali e gergali) incunaboli per essere letto e compreso da un pubblico vastissimo, è diviso in tre parti. Quella centrale offre un’interessante ricostruzione dell’ultimo secolo di storia dello Stato spagnolo, individuando quelle invarianti di lunga durata che marcano indelebilmente la cosidetta «Transición», dalla dittatura franchista al nuovo regime democratico sotto la tutela della monarchia. Sono le parole di un altro protagonista di Podemos, Juan Carlos Monedero, a sugellare il giudizio su questa fase storica: l’ampio consenso partitico «si sarebbe incaricato di incanalare queste istanze (di resistenza sociale) in maniera funzionale a un sistema che aveva come obiettivo principale una nuova restaurazione borbonica, tale da garantire l’inserimento della Spagna in ambito europeo al minor costo possibile per l’impresa e la finanza». Qui si collocano del resto, secondo Iglesias, le responsabilità delle sinistre storiche iberiche, al pari di quelle italiane guidate da «un istinto strategico per la conservazione».
La democrazia contesa
Anche per queste ragioni, cinque anni di gestione capitalistica della crisi, su scala europea, sono tra i fattori che determinano nello Stato spagnolo una vera e propria «crisi di regime», il progressivo collasso del regime della Transizione post-franchista. E l’emergere, nel cuore di questa crisi, di una «grande coalizione» di fatto che lega gli interessi dominanti, ai vertici delle imprese capitaliste, nei maggiori partiti (Popolari e Socialisti), nel sistema dei media, negli apparati di sicurezza. Una struttura di potere, tenuta assieme dalla «corruzione come forma di governo» e impegnata ad assicurare livelli di diseguaglianza mai raggiunti prima nella ripartizione della ricchezza sociale. È questa che Pablo chiama la «casta», identificandola con la sezione nazionale del «Partito di Wall Street», cioè attribuendole una valenza ben diversa da quelle che echeggiano alle nostre longitudini.
Del resto è a una concezione della politica, erede della migliore tradizione materialista del «realismo», che la prima parte del libro di Iglesias invita a guardare. «Il potere nascerà sempre dalla canna del fucile» è convinto il portavoce di Podemos, ma nel nostro tempo bisogna essere capaci di vedere la politica come una «partita a scacchi, cominciata da lungo tempo nella quale, a partire da alcune regole date e nonostante i pezzi non siano stati distibuiti sulla scacchiera in modo equo, è necessario dimostrare abilità e astuzia per giocare con i mezzi di cui si dispone». Oggi in Europa del Sud sarebbe ben complicato intendere in altro modo la politica, «senza perdere mai di vista il fatto che i potenti non rinunceranno a tutti i loro privilegi quand’anche fossero sconfitti al tavolo degli scacchi», ma dovranno un giorno «cadere sul ring della boxe». Questo è anche il senso dell’approccio alle istituzioni politiche realmente esistenti, che non vanno concepite come organismi monolitici, esclusivamente rappresentative dei poteri costituiti. «Al contrario – insiste Iglesias – possono risultare decisive per nuove conquiste democratiche e sociali». Lo si è visto nell’esperienza del Welfare state europeo, così come oggi in molti paesi dell’America Latina dove «gli spostamenti verificatisi nei rapporti di forza all’interno delle istituzioni statali sono una delle chiavi dell’azione politica trasformatrice».
Curiosamente, in questi due volumi, il contributo del filosofo Ernesto Laclau non viene mai esplicitamente citato. Per l’importanza che questo pensatore ha per tutto il gruppo dirigente di Podemos, potremmo parlare a ragione di una lacaniana «casella vuota». Non manca invece l’insistenza sul concetto gramsciano di «egemonia»: proprio a partire dalla propria personale esperienza di personaggio televisivo di rottura, Pablo Iglesias sottolinea come egemonia significhi l’esatto contrario di dominio, ma la conquista di un potere culturale capace di sovvertire lo stesso linguaggio performativo dei dominanti, agendo sul «grande dispositivo mediatico della contemporaneità, il più importante per determinare che cosa pensi la gente», che al di là di tanta chiacchiera sull’uso sociale della rete (decisiva invece per l’organizzazione di movimento e forza politica), è e resterà a lungo la televisione. La coppia dicotomica «pro-sistema / antisistema» si presta bene a questo punto ad argomentare questo intervento contro-egemonico sul linguaggio: seguendo la lezione di Immanuel Wallerstein, «le caratteristiche positive unanimemente attribuite oggi alla democrazia sono state il frutto esclusivo dell’azione storica dei movimenti antisistemici», così come chi si qualifica «pro-sistema» sono «i difensori di un sistema che persegue fondandosi nella protezione dei privilegi di una minoranza di fronte ai diritti della maggioranza».
Genealogie convergenti
Se, come Iglesias ci ricorda, il cuore di qualsiasi discorso realista sulla «lotta democratica» non sta nel formalismo dello Stato di diritto, ma nella permanente contesa intorno al «processo di socializzazione del potere», cioè alla sua distribuzione sociale, tra il voto della Grecia del 25 gennaio scorso e le prossime consultazioni spagnole, ci giochiamo tutti la possibilità democratica in Europa.
Syriza e Podemos hanno genealogie differenti, come noto. Nel caso spagnolo, l’intuizione soggettiva di un gruppo di attivisti di impiantare una proposta politica verticale sull’orizzontalità dei movimenti, senza minarne l’autonomia. Non «rappresentando» le Plazas e le Mareas, ma assumendone fino in fondo i contenuti, trasposti in un maturo programma politico. Interpretando con spregiudicatezza la crisi della democrazia spagnola, il rifiuto massificato della corruzione, la diffusa delegittimazione della «casta» non come deriva rancorosa, moralista e giustizialista (e perciò funzione di blocco di ogni possibile cambiamento), ma come terreno di costruzione di un consenso maggioritario per la giustizia sociale. Piegando a questo obiettivo linguaggio e forme del «populismo»; assumendo in tutta la sua problematicità la parola d’ordine «né di destra, né di sinistra», come premessa necessaria per riattribuire dignità sostanziale a una politica di sinistra, che si saturasse programmaticamente dei contenuti delle lotte sociali.
Vi è tuttavia più di elemento di convergenza, al di là della comune speranza che sono in grado di evocare: Syriza e Podemos sollevano con indispensabile forza la questione del «governo», cioè dell’esercizio del potere necessario per mettere in discussione le politiche neoliberiste e scardinare la dominante gabbia dell’austerity. Con la consapevolezza che «vincere le elezioni – ricorda a se stesso prima che a tutti noi Pablo Iglesias – non significa affatto conquistare il potere». Che la dimensione globale e assoluta, fluida e onnipervasiva del capitalismo finanziario, la complessità multifattoriale di ogni processo di decisione politica, tanto più se orientato al cambiamento, non consentono illusioni.
Una produttiva dialettica
Le chances di tali prospettive sono in larga misura affidate proprio al loro grado di apertura, cioè se prevarrà la volontà politica di sfuggire a quella legge dei «vasi comunicanti» per cui a un pieno dell’azione governativa debba per forza corrispondere il vuoto dei conflitti, il loro addomesticamento e neutralizzazione, o vice versa. Per la prima volta, nella stagione che si sta aprendo in Europa, potrebbe essere giocata la scommessa sulla relazione virtuosa, di reciproco volano tra istituzioni costituite e nuovi istituti del comune: la sperimentazione di che cosa potrebbe significare, sul serio, un movimento costituente.
Il punto che pare unificante e cruciale per questi due solidi «spettri che si aggirano per l’Europa» sta proprio nel salto di paradigma che ci propongono, abbandonando lo stantio dibattito, datato primi anni Duemila, sulla relazione tra movimenti sociali e partiti, sulle «alleanze» e, in ultima analisi, sul rapporto dei primi con la rappresentanza politica. Al centro della scena si mostra invece distintamente una ben più aperta e produttiva dialettica, intrinsecamente politica, tra dinamiche sociali reali e funzioni di governo. Se infatti assumiamo quest’ultimo paradigma, siamo su un terreno del tutto altro rispetto a quello che, per via rappresentativa, riconduce forzatamente al nesso con la sovranità e tutti i vizi della moderna forma Stato. Diversamente da questa le funzioni di governo esprimono una permanente, e irresolubile tensione tra «governanti» e «governati», il rinvio a un’originaria pluralità di soggetti e d’interessi, irriducibili all’Uno del Popolo sovrano. Prima di ripetere qualche formuletta, che si pretenderebbe salvifica per le nostre anime, o cercare di riprodurre qualche modellino per risollevare i destini della «sinistra italiana», varrebbe forse la pena interrogarsi a fondo su questo nucleo incandescente di verità e novità, che proprio i dispositivi Syriza e Podemos mettono sotto il nostro naso.
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