giovedì 12 febbraio 2015
Defoe cronista di nera
Daniel Defoe: I peggiori criminali del nostro tempo, a cura di Fabrizio Bigatti, Clichy
Risvolto
Una raccolta imperdibile e misconosciuta
dell'autore di Robinson Crusoe e Moll Flanders. Cinque racconti scritti
tra il 1724 e il 1729, tre ormai introvabili in italiano e due del tutto
inediti nella nostra lingua. Tutti documentano le drammatiche e
rocambolesche vicende dei più famosi criminali inglesi dell'epoca di
Defoe, che a partire dai documenti originali dell'epoca e basandosi
persino su una personale diretta conoscenza di quei delinquenti, ne
ricostruisce la storia dagli inizi fino alla loro esecuzione sul
patibolo. Con una prosa diretta e piena di realismo, storie criminali
avvincenti e ricche di colpi di scena. Il suo intento era quello di
offrire un insegnamento morale grazie a storie esemplari di delitti
puniti ma, al tempo stesso Defoe ricostruisce il panorama della malavita
nella Londra del XVIII secolo.
Viaggio al termine di Londra Defoe reporter del Male
Gli
articoli dell’autore di Robinson Crusoe sul sottobosco criminale nella
capitale inglese d’inizio 700. Dove i cattivi si mascheravano da buoni
di Mario Baudino La Stampa 12.2.15
Nel prologo alla sua «Storia universale dell’infamia», Jorge Luis Borges
evoca come ispiratori i nomi di Stevenson e di Chesterton, ma si guarda
bene dal citare l’idea dell’assassinio come opera d’arte di Thomas De
Quincey. Paradossale e metafisica, è troppo vicina alla sua idea del
«delittuoso» che può innalzarsi «fino alla redenzione e alla storia».
Allo stesso modo non cita il precursore di tutti questi scrittori, e
cioè Daniel Defoe, che nella Londra del primo Settecento indagò,
affascinato e orrificato, l’infamia universale e particolare, insomma i
criminali e le loro gesta.
Pubblicava resoconti accuratissimi sull’Applebee’s Journal, la sua
rivista e soprattutto li rielaborava in pamphlet di enorme successo.
L’autore di Robinson Crusoe (e di Moll Flanders, una storia assai
criminale) riuscì a precorrere di qualche secolo un «new journalism» che
ricorda A sangue freddo di Truman Capote, con l’immersione totale
nell’ambiente indagato, i rapporti stretti, persino amichevoli, con i
suoi protagonisti. Uno dei più famosi, soprattutto per le sue
rocambolesche evasioni, lasciava fuggendo dal carcere lettere di
ossequio a lui rivolte. E prima di salire sul patibolo, gli consegnò
davanti a centinaia di persone assiepate per assistere al supplizio, il
proprio memoriale.
I più importami di quegli scritti vengono ora tradotti - in parte per la
prima volta - dall’editore Clichy. I peggiori criminali del nostro
tempo (a cura di Fabrizio Bigatti) narra le vite disperate di John
Sheppard, il re delle evasioni, l’ascesa irresistibile e l’improvvisa
caduta di un certo Jonathan Wild, insieme ricettatore e cacciatore di
banditi, e le avventure di sei «famigerati ladri di strada», punte di
diamante di un banda che terrorizzò Londra per molti anni.
Non c’è perfezione né tantomeno opera d’arte nella gesta di costoro,
culminate immancabilmente con la forca. Defoe, puritano e uomo rigoroso
che pure aveva subito egli stesso la carcerazione per debiti, e persino
la gogna, racconta il crimine come fatto sociale e non come avventura.
Ha qualche forma di simpatia per Sheppard, l’uomo che riesce a liberarsi
di qualsiasi catena e far saltare le sbarre o le serrature di qualsiasi
prigione, ma certo non lo considera un Robin Hood. Non discute le
punizioni feroci (deportazione o impiccagione, e non solo per reati di
sangue) e neppure la tortura: ce ne racconta un episodio con neutrale
distacco. Non è Cesare Beccaria; gli è chiaro però che il sistema
repressivo non riesce a risolvere il problema di una criminalità
crescente e dal volto per molti aspetti nuovo, moderno; che la prigione è
solo una scuola di crimine, e che il destino di chi si mette su questa
strada è segnato fin dall’inizio.
Non è più questione di banditi vecchio stile. Furti e rapine sono ormai
un problema gravissimo, la città è terrorizzata, le carrozze vengono
assalite per strada, le case svaligiate e soprattutto i nuovi criminali
hanno cominciato a uccidere. Non Sheppard, che è ancora una sorta di
ladro «galantuomo», rocambolesco e forse meno minaccioso di quanto
possano pensare i lettori dell’epoca. Ma gli altri sì. Wild, per
esempio, emerge come figura di un male inafferrabile: non ruba
direttamente, di persona, ma domina col ricatto e con la minaccia di
consegnarli alla polizia su quasi tutti i ladri della città: e dato che è
ancora difficile guadagnare bene rivendendo la refurtiva, si incarica
lui di farla restituire dietro congruo pagamento ai derubati, intascando
una percentuale.
Nella Londra del primo Settecento c’è già un capomafia: gentile,
elegante, autorevole. La gente si rivolge a lui per riavere i propri
beni (lo fece anche Defoe, una volta, senza successo però), i furfanti
lo temono perché se qualcuno non sta alle sue regole viene denunciato e
fatto catturare dall’esigua forza di polizia. Wild è nello stesso tempo
il capo di tutti i ladri, e il più importante cacciatore. Una delle sue
vittime, in attesa del processo, «beve un bicchierino con lui» (le norme
di sicurezza erano quel che erano), si divincola dalle guardie e tenta,
senza successo, di tagliargli la gola. Ma lo ferisce gravemente,
mettendolo fuori combattimento per un bel po’. Wild è considerato un
benefattore, ha un potere immenso. Per fermarlo ci vorrà una legge «ad
personam», che vieta questo genere di riscatti, comminando a chi li
compie una pena eguale a quella del ladro o del rapinatore. Finirà sul
patibolo - e dove, se no? - tra due ali di folla inferocita che lo
prende a sassate.
Era dura, caotica e violenta la Londra di Defoe. E si rubava di tutto,
non solo oro e denaro, ma pezze di stoffa, merci d’ogni genere, persino
parrucche. Uno dei personaggi qui descritti si era specializzato nel
tagliare il cuoio sul retro delle carrozze, e strappare con un rapido
gesto la parrucca al passeggero. Altri, eccellevano in un furto con
destrezza ancora più particolare: sfilare ai soliti gentiluomini, quando
appiedati, l’immancabile spada, e nei casi più fortunati anche il
fodero. Va da sé che il derubato non s’accorgeva di nulla, se non quando
il borseggiatore aveva già fatto perdere le tracce.
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