domenica 22 febbraio 2015
Franco Andreucci colpisce ancora: l'"ipoteca stalinista" sul Pci da Gramsci a Berlinguer. Bum!
Franco Andreucci: Da Gramsci a Occhetto. Nobiltà e miseria del Pci, 1921-1991, Della Porta editori, Pisa, pagg. 468, € 20,00
Risvolto
La parabola del
Partito comunista italiano raccontata da un suo ex funzionario e
testimone d’eccezione. Franco Andreucci traccia la storia affascinante
del partito più popolare del dopoguerra, passando attraverso i suoi
momenti più importanti: la scissione di Livorno, l’antifascismo, la
guerra partigiana e gli anni di Togliatti, toccando temi come il
controverso rapporto con l’Unione Sovietica e il fascino esercitato dal
Pci sugli intellettuali italiani.
Dna della politica Stalin nell’identità del Pci
Franco
Andreucci ripercorre i 70 anni di vita del partito, soffermandosi su un
aspetto spesso dimenticato a favore della «via italiana al socialismo»:
lo stalinismo di dirigenti e militanti
di Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 22.2.15
«La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei
ladri, dei corrotti, dei concussori nelle alte sfere della politica e
dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna
metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, [...] fa
tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e
delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno
con la concezione della politica e con i metodi di costoro, che vanno
semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione
morale è il centro del problema italiano».
A fronte delle cronache odierne – da Mafia Capitale in giù – è fin
troppo facile considerare profetiche le parole affidate da Enrico
Berlinguer a Eugenio Scalfari in una celebre intervista del 28 luglio
1981: profetiche non solo rispetto alla Tangentopoli del 1992 ma anche,
per l’appunto, rispetto all’attualità giudiziaria d’oggidì.
Frettolosamente cacciata dalla finestra della storia italiana, la
questione morale è rientrata dalla porta. In generale è rientrata dalla
porta la figura storica di Berlinguer, in particolare dell’ultimo
Berlinguer. L’alfiere di una politica dell’austerità che si declina oggi
come inaggirabile sostenibilità dello sviluppo. L’interprete di una
contestazione del capitalismo che appare oggi critica ragionevole del
consumismo.
Aveva sessant’anni di vita il Partito comunista italiano, al momento
dell’intervista di Berlinguer sulla questione morale. E nessuno
immaginava che gliene restassero da vivere soltanto dieci. Nessuno
prevedeva allora la formidabile e catastrofica accelerazione di quel
decennio, l’Urss di Gorba?ëv, il crollo del Muro, la fine del comunismo.
Adesso – un terzo di secolo dopo – la distanza incomincia a essere
quella giusta per guardare con profondità di campo ai settant’anni di
storia del Pci. Come nel libro, insieme appassionato e pacato, di Franco
Andreucci, Da Gramsci a Occhetto. Nobiltà e miseria del Pci, 1921-1991.
Cercando risposte a un paio di domande fondamentali. Perché il Pci è
stato, per diversi decenni dopo il 1945, il partito comunista più forte
d’Occidente? E perché, alla fine, non soltanto non ha vinto, ma si è
estinto?
La forza del Pci ha storicamente riposato sopra una molteplicità di
fattori. La solidità dell’organizzazione, e tanto più dopo la nascita
del «partito nuovo», non più di quadri ma di massa. La capacità di
gestione politica dei conflitti sociali, negli anni della grande
modernizzazione italiana. La presa culturale sugli intellettuali, e
l’esercizio di una gramsciana «egemonia». Ancora: il prestigio derivato
al Pci dalle lotte dell’antifascismo e della Resistenza; il radicamento
identitario nelle regioni «rosse»; la mancanza in Italia di un partito
socialdemocratico forte e moderno. Altrettante dimensioni – non
necessariamente originali – della ricostruzione di Andreucci. Là dove la
sua ricostruzione riesce illuminante, è nell’analisi di una componente
di lungo periodo che più di altre vale a spiegare il fallimento storico
del Pci: l’ipoteca sul Partito del leninismo prima, dello stalinismo
poi.
Scoperta dell’acqua calda, questa di Andreucci? Meno di quanto possa
sembrare, se è vero che la storiografia italiana risulta dominata a
tutt’oggi da una favola buonista secondo cui il Pci sarebbe stato, fin
dalla formazione del suo gruppo dirigente nel 1923-24, un partito non
settario né dogmatico, un’isola felice nel panorama del comunismo
internazionale. Certo, giocoforza, un partito del Comintern: il partito
di Togliatti, stretto collaboratore di Stalin. Ma sottotraccia, già nei
terribili anni Trenta, anche il partito della «via italiana al
socialismo»: il partito di Gramsci, così aperto e libero seppure in
catene. Favola buonista abilmente forgiata da Togliatti in persona tra
anni Quaranta e anni Cinquanta, e ripresa più o meno pedissequamente da
svariate generazioni di storici del Pci. Dapprima storici ufficiali, da
Comitato centrale; successivamente storici ufficiosi, “di area”.
Lui stesso ex storico ufficiale o quasi, Franco Andreucci ha adesso
un’altra storia da raccontare. È la storia di un comunismo italiano
concepito nella febbre postbellica del «biennio rosso», e indelebilmente
marcato dalle lezioni di Lenin sulla necessità della guerra civile e
della dittatura del proletariato: per cui anche le strade e le piazze
d’Italia, come in Russia, andavano liberate «col ferro e col fuoco» da
un’«invasione di locuste putride e voraci», le locuste della borghesia
(scripsit Antonio Gramsci, dicembre 1919). È la storia di un partito
nato a Livorno, nel 1921, in opposizione e quasi in odio all’ala
riformista del socialismo italiano, nel «sibilo delle vipere» denunciato
allora da Giacinto Menotti Serrati: un velenoso sibilo antisocialista
destinato a prolungarsi negli anni, o piuttosto nei decenni.
Senza entrare nel merito dell’affaire di Gramsci in carcere e di
Togliatti a Mosca, Andreucci sottolinea come la continuità sovietica del
rapporto tra leninismo e stalinismo sia stata tale anche nella sua
ricaduta sulla storia del Pci. Quanto Stalin durò ai vertici del Pcus,
altrettanto durò lo stalinismo dei comunisti italiani, dirigenti o
militanti che fossero. E anzitutto lo stalinismo indefettibile e
interessato del «Migliore». Quello che, negli anni Trenta, spinse
Togliatti a non aprire bocca davanti alle purghe di Stalin. A imitare
tali e quali gli altri capi del comunismo internazionale, che vivevano a
Mosca – lo testimonierà per esperienza diretta una bella figura di
comunista piemontese, Felicita Ferrero – «rannicchiati come lumache nel
proprio guscio, in attesa che la bufera finisse».
Locuste, vipere, lumache... la storia del comunismo è anche un
bestiario, bestiario dell’anatema, della delazione, della scomunica.
Così, all’immaginosa metafora da letterato di Osip Mandel’stam, secondo
cui i baffi di Stalin erano «insolenti come scarafaggi» (e Mandel’stam
muore in un gulag nel 1938), può corrispondere la formula maramalda del
segretario Togliatti contro alcuni dissidenti interni del 1951,
«pidocchi nella criniera di un nobile cavallo da corsa». Dopodiché, alla
fine del 1956, è proprio il segretario del Pci che sollecita il Pcus – a
babbo morto: mesi dopo il XX Congresso e la denuncia di Chruš?ëv dei
crimini di Stalin – affinché l’Urss intervenga militarmente in Ungheria,
perché si proceda senza pietà contro il traditore Nagy.
Lo stalinismo postumo di Togliatti nel 1956 ha contribuito non poco alla
maledizione del «fattore K», cioè alla pluridecennale emarginazione del
Pci dallo spazio politico dell’Italia democratica. L’autentica via
italiana al socialismo – nota persuasivamente Andreucci – sarebbe stata
quella dei suoi avversari del ’56: sarebbe stata la via di Antonio
Giolitti, cui Togliatti pensò bene di riservare la qualifica sempreverde
di «rinnegato». E anche per questo (forse, soprattutto per questo) il
comunismo italiano era votato, a lungo andare, alla sconfitta e
all’estinzione: per non avere saputo né voluto impostare il rapporto con
il socialismo riformista in termini nuovi rispetto a quelli
ossessivamente antagonistici della Terza Internazionale.
Berlinguer stesso, in tutta la sua «diversità», si sarebbe rivelato
eccezionalmente lento nel ripensare il rapporto storico fra un comunismo
di matrice leninista e un socialismo di ispirazione democratica. Anche
se – bisogna pur ricordarlo – il maggiore interprete anni
Settanta-Ottanta di quel socialismo si chiamava, in Italia, Bettino
Craxi. Non esattamente una garanzia, almeno dal punto di vista della
«questione morale».
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