venerdì 13 febbraio 2015

Gli aforismi inediti di Elias Canetti

Elias Canetti: Aforismi per Marie-Louise, Adelphi

Risvolto
Nella Premessa a La provincia dell'uomo Canetti rivela che dedicarsi ai quaderni di appunti lo salvò dalla opprimente concentrazione su un'unica opera, Massa e potere, e da «un irrigidimento fatale». Una «valvola di sfogo», dunque, che col tempo conquistò tuttavia sempre più spazio, sino a diventare uno dei pilastri della sua opera, giacché l'acutezza e l'intensità di pensiero che vi sono dispiegate annoverano Canetti fra i più grandi autori di aforismi. Si può allora capire quale meraviglia e quale sensazione abbia suscitato la scoperta di un manoscritto autografo dove sono radunati centoventinove ‘aforismi' risalenti al settembre ottobre 1942: testi non solo in gran parte sconosciuti ma che, come ha notato Jeremy Adler, «contengono già le linee fondamentali della prosa breve di Canetti». Redatto in inchiostro blu scuro, con titoli e dedica in pastello giallo, e rilegato da un cordoncino dorato, il manoscritto fu offerto come dono di compleanno alla pittrice Marie-Louise von Motesiczky, con la quale Canetti aveva avviato in Inghilterra una relazione destinata a durare oltre mezzo secolo. E fu offerto il 24 ottobre 1942, mentre i tedeschi ingaggiavano contro i russi la terribile battaglia di Stalingrado e in Inghilterra – dove Canetti e la Motesiczky erano esuli – giungevano incessanti le notizie delle violenze perpetrate nei paesi occupati. Non stupisce quindi che più esplicitamente, rispetto ad altri testi coevi e già noti, gli Aforismi per Marie-Louise ruotino intorno all'orrore della guerra: «Combattono fra le dita dei piedi, nell'ombelico, dentro le narici, combattono nel didietro, sotto le ascelle, dentro le orecchie e in bocca, non c'è luogo nascosto, non c'è palmo, non c'è poro, nelle cui profondità non combattano l'uno contro l'altro all'ultimo sangue».


Le metamorfosi esistenziali di Elias CanettiLa forza e l’attualità dello scrittore in una raccolta di aforismi ineditiFRANCO MARCOALDI Repubblica 13 2 2015
FA un certo effetto pensare a Elias Canetti — così duro, determinato, tutto preso dal titanico progetto di «afferrare il secolo alla gola» — mentre se ne sta intento a preparare con delicatezza un libretto fatto a mano per la sua amica-amante, la pittrice Marie Louise von Motesiczky, in occasione del suo compleanno: il 24 ottobre del 1942. Quel manoscritto, dalla grafia minuta e chiara, in inchiostro blu, con pagine legate insieme da un cordoncino dorato, fu ritrovato tra le carte della pittrice dopo la morte ed esce ora per Adelphi nella traduzione di Ada Vigliani: Aforismi per Marie Louise ( pagg. 101, euro 12).


IL LIBRO

È un piccolo, quanto significativo tassello da aggiungere a quello strepitoso libro parallelo di appunti e aforismi , La provincia dell’uomo , che Canetti andò scrivendo per decenni nel dichiarato intento di allontanarsi almeno un poco dal claustrofobico impegno di Massa e potere — l’indefinibile “poema scientifico” che lo consacrerà come uno dei pensatori più originali e acuti del Novecento, e che ora sta per essere ripubblicato da Adelphi. Siamo in piena guerra e Canetti vede intorno a sé soltanto orrore e distruzione, ragione in più per affondare la lama del pensiero nella «mostruosa struttura » del potere, il cui primario intento è procurare la morte e allontanarla da sé: «La confusione, che ebbe origine allora, si chiama storia». Da qui dovrebbe prendere le mosse il vero illuminismo, e da qui, anche, dovrebbe partire un’indagine sulla proliferazione della massa e la sua supina ossessione nei confronti del potere. A maggior ragione nel Novecento, secolo in cui la morte ha rivestito «una forza di contagio che non ebbe mai prima» — assurgendo a figura onnipotente, «nocciolo stesso di ogni schiavitù».
Leggendo questi Aforismi per Marie-Louise si intravede già, in filigrana, la successiva, tenace trama che intercorre tra la morte, il potere e la massa — quella dell’uomo eretto e vivo di fronte all’uomo morto, a terra.
Perché l’individuo non crede mai del tutto alla morte finché non l’ha sperimentata in quella altrui. Superata, nella scomparsa altrui. Quando poi il senso di questa dissimulata soddisfazione diventa una passione insaziabile, colui che ne sarà invaso, «non più appagato dagli sparsi momenti di sopravvivenza offertigli dall’esistenza quotidiana », conoscerà finalmente il segreto del potente — che, nell’azzardo di Canetti influenzato dalla presenza terrificante di Hitler, va strettamente apparentato allo psicopatico, al paranoico. «L’idea di essere l’unico, unico tra i cadaveri, è decisiva sia per la psicologia del paranoico sia per quella del potente, che in tal modo spinge all’estremo il suo potere». Sorge da qui una domanda bruciante, vera e propria «quadratura morale del cerchio ». Se vincere è sopravvivere, come si può continuare a vivere senza essere vincitori? Solo facendosi “custode della metamorfosi”, suggerisce lui. Ovvero immedesimandosi in tutte le creature: comprese le più picco- le, ingenue, impotenti. Ecco perché, già in questi Aforismi, assumono un peso decisivo gli animali — continuamente offesi, eppure capaci di imprevedibili, illuminanti insegnamenti.
Per questo Canetti invita a diffidare di «tutte le filosofie che cercano di ricondurre la vita a un unico principio». Perché si tratta sempre di una riduzione, un impoverimento, un raggelamento. Mentre il suo obiettivo, al contrario, è quello di intensificare la circolazione del flusso vitale. «Nei passi forti della Bibbia troviamo questo grandioso battere e pulsare, e perfino quando l’uomo dorme e sogna, il suo sangue non conosce sosta».
Chi si trova a vivere nell’inferno bellico — per quanto cerchi di rimanere ragionevole — deve per forza ricorrere al sogno, alla visione, all’immaginazione più sfrenata. A maggior ragione se, come Canetti, è impegnato anima e corpo nell’allucinato tentativo di «bandire la morte», con ogni mezzo. Ivi incluso l’ascolto attento e costante delle voci dei morti — che scuotono e incalzano e tormentano i vivi.
C’è una pagina particolarmente toccante di questi Aforismi per Marie Louise , in cui l’autore di Massa e potere suggerisce una singolare modalità per tenere in vita, il più a lungo possibile, l’anima del morto. Evitate di parlarne bene a tutti i costi, ammonisce. Piuttosto litigate con lui e la sua memoria, mettete in luce aspetti sorprendenti del suo carattere — anche quelli più maligni, se necessario. Non ricorrete alla pietà, contrassegno del malcelato desiderio di renderlo inoffensivo: «Affinché il morto, nella sua impalpabi-lità, continui a vivere, bisogna consentirgli di muoversi». Per essere anche lui passibile di trasformazione, e quindi di metamorfosi. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Nella prossima guerra non ci saranno armi potremo solo morderci
di Elias Canetti Repubblica 13.2.15
COMBATTONO tra le dita dei piedi, nell’ombelico, dentro le narici, combattono nel didietro, sotto le ascelle, dentro le orecchie e in bocca, non c’è luogo nascosto, non c’è palmo, non c’è poro, nelle cui profondità non combattano l’uno contro l’altro all’ultimo sangue.
Si aboliscono tutte le armi, e durante la prossima guerra non sarà consentito altro che mordere.
Troppo poco abbiamo studiato i cani: sono la quintessenza dell’”umano”, e quanto disumano è questo.
Chi adora il successo è comunque perduto: se lo ottiene, finisce per assomigliargli; se non lo ottiene, si strugge nel più falso degli aneliti.
La meraviglia vive del caso. Nella legge soffoca. Ormai riesce a ridere solo tra gli animali. Cercò di restare ragionevole all’inferno. La birra non ha più, per lui, il buon gusto di una volta: dal boccale sbircia la guerra.
In ciascuno di noi l’anima abita luoghi diversi: quest’uno ce l’ha nei polmoni, quell’altro nelle viscere; quest’una nel cuore e quell’altra nel sesso; in me si sente a suo agio nelle orecchie, più che da qualsiasi altra parte.
Gli attacchi di panico giungono con una regolarità che li rende sospetti: ci sono attacchi mensili, attacchi settimanali, attacchi diurni e notturni.
Si annunciano, come esistessero semplicemente per segnare il tempo.
Testi tratti da Aforismi per Marie-Louise (Adelphi)

Note dalla doppia vita di Canetti
Lo scrittore e Marie-Louise: amici e amanti per mezzo secolo. E un mazzo di aforismi in pegno Adelphi pubblica la raccolta di massime dedicate nel 1942 alla donna nella cui casa Elis lavoravadi Pietro Citati Corriere 26.2.15
Elias Canetti conobbe Marie-Louise von Motesiczky nel 1939 o nel 1940. Lei discendeva da un’illustre famiglia di ebrei viennesi assimilati: veniva considerata una grande bellezza; un veliero che scivolava sull’oceano del mondo. Lui era un ebreo di recente immigrazione dall’Europa orientale: era brutto, tozzo, goffo; e ne soffriva. Divennero amanti: la loro amicizia durò oltre mezzo secolo, e finì soltanto con la morte dello scrittore. Egli le dedicò dei bellissimi aforismi nel settembre e nell’ottobre 1942 ( Aforismi per Marie-Louise , Adelphi, nella traduzione di Ada Vigliani): i quali ricordano da vicino quelli contenuti nel suo capolavoro, La provincia dell’uomo (Adelphi, traduzione di Furio Jesi).
I due si conobbero a Londra, al tempo dei bombardamenti tedeschi; e la lasciarono per trasferirsi ad Amersham, un grazioso sobborgo della grande città. Canetti teneva i suoi libri a casa della Motesiczky, dove leggeva e scriveva. Non lasciò mai la moglie Vera: il rifiuto di Canetti di scegliere Marie-Louise fece soffrire e logorò l’amica, che lo attese invano per anni.
Canetti era duro, superbo, orgoglioso: nutriva disprezzo e una specie di gelosia per tutti gli altri; persino verso gli scrittori che amava e imitava. Nutriva lo stesso odio per gli uomini che Karl Kraus aveva provato per il mondo. «Era talmente altezzoso che avrebbe voluto regalare sempre qualcosa a Dio». Era insaziabile, in tutti i sentimenti e le idee e le sensazioni. Voleva vivere come se avesse dinanzi a sé un tempo illimitato: aveva una fame di smisuratezza; e giudicava questa fame grandiosa e magnifica. Disprezzava la storia: al contrario della Genesi , pensava che «la creazione non fosse buona».
Da molti anni dedicava la parte maggiore del proprio tempo all’elaborazione della sua opera fondamentale, Massa e potere . Avvertiva questo impegno come una specie di ossessione: sentiva in sé un’oppressione che acquistava dimensioni pericolose; e diventò indispensabile per lui crearsi una valvola di sfogo. Al principio del 1941 la trovò nei suoi quaderni di appunti, dove elaborava aforismi. La loro libertà, la loro spontaneità, la convinzione che i quaderni non servissero ad alcun scopo, l’assenza di responsabilità per cui non li rileggeva mai, lo salvarono dall’irrigidimento quotidiano. A poco a poco divennero un indispensabile esercizio. Respirava: respirava con assoluta libertà e naturalezza. Viveva senza nessuno scopo, neppure pensando all’eternità. Lasciava liberi gli altri, abbandonando qualsiasi forma e desiderio di potere.
Leggeva, leggeva insaziabilmente: sempre nuovi scrittori, sempre nuovi libri; e questa attitudine apparentemente passiva diventò il cuore e lo spunto della sua attività. Non era distante da Leopardi: solo ciò che aveva letto gli permetteva di captare la vita; e senza ciò che aveva letto non esisteva. Amava soprattutto i miti: lo scopo della sua vita era di conoscere profondamente i miti di tutti i popoli. Studiava la Bibbia: la sua terribilità lo consolava e lo liberava dall’ossessione del nazismo, che allora avvolgeva e costringeva tutte le menti.
Ciò che lo toccava sempre da vicino era la fede, di qualsiasi genere: si sentiva tranquillo in ogni fede finché sapeva di poterla abbandonare. Si legava ad ogni fede e poi giocava con essa; e non riusciva neppure a dire quanto divenisse lieto e sicuro nel farlo. Ammirava sé stesso mentre giocava col tutto e con il sacro. La sua gioia non aveva fine, e si sentiva superiore a sé stesso, superiore a qualsiasi tema e argomento.
«Io voglio andare sempre più avanti», commentava. Ma temeva che la possibilità di ampliamento del proprio spirito fosse limitata. Sopra ogni cosa, evitava lo spirito di sistema: aveva bisogno di conoscere tutti i costumi, i pensieri e le abitudini e le vicende degli uomini, recuperando la verità trascorsa perché quella ulteriore era vietata. Teneva separati i pensieri, a forza: essi formavano troppo facilmente un intrico, una capigliatura. Non si legava mai a un solo metodo: sfuggiva l’angustia delle discipline stabilite. Si guardava dalle chiusure: che ci fossero aperture, che ci fosse spazio, questo era il suo pensiero dominante.
Detestava il solido e il corposo: disprezzava la realtà, sebbene fosse fortissimo, in lui, il desiderio di descriverla e di raccontarla. Amava il vento — «l’unica cosa libera nel mondo» —: tutto ciò che si muove, si sposta, si aggiunge. Adorava il silenzio. Ma, al tempo stesso, lo spirito aforistico dominava la sua mente che cercava di fissare e fissava tutto ciò che, in lui, era mobile e agitato. La verità doveva venire fermata.
Un pensiero dominava, in lui, tutti gli altri pensieri: quello della morte. Voleva cancellare la morte: voleva che nessun uomo morisse più; non accettava la morte, mentre tutti la accettavano. «Nella vita la cosa più audace — scriveva — è odiare la morte: sono disprezzabili e disperate le religioni che attenuano questo odio». «Bisogna odiare la morte, quella di chiunque come la propria, far pace una volta con tutto, mai con la morte». Cercava di raggiungere l’immortalità per gli uomini: un obiettivo concreto, serio, riconosciuto, che inseguiva con tutte le proprie forze.
Quando, un giorno, gli uomini riusciranno a cacciare la morte dal mondo, non possiamo prevedere ciò che saranno in grado di immaginare, di credere, di essere.

Canetti tra il riso e la meraviglia
«L’unica pas­sione della mia vita è stata la paura»: salve le distin­zioni fra carat­teri tanto diversi, que­ste parole di Tho­mas Hob­bes molto amate da Bar­thes potreb­bero valere a mag­gior ragione per Elias Canetti, che per tutta la sua lunga vita – coro­nata dal Nobel nel 1981 – affiancò alle opere nar­ra­tive, sag­gi­sti­che, tea­trali e auto­bio­gra­fi­che il can­tiere insonne degli Appunti. Ne pub­blicò solo una pic­cola fra­zione (accolta in due cor­posi tomi delle sue opere com­plete) dopo avere scelto tra i testi più taglienti. Il resto delle note e dei diari rimane, tut­tora ine­dito e in parte secre­tato per dispo­si­zione testa­men­ta­ria dell’autore fino al 2024, nel lascito con­ser­vato a Zurigo.
Più che un’opera di ripiego sosti­tu­tiva della con­ti­nua­zione del suo primo romanzo Auto da fé (vale a dire il pro­get­tato ciclo di una «Comé­die humaine dei folli») l’insieme di que­ste Auf­zeich­nun­gen appare ormai come l’ombra, bru­li­cante di pos­si­bi­lità, che tor­reg­gia su un’idea irrea­liz­zata di com­pi­mento: quell’opera magna che Canetti alla fine, pur rimu­gi­nan­dovi sopra tutta la vita, si negò, o non riu­scì a por­tare a termine.
Come se il sen­tiero late­rale potesse dive­nire strada mae­stra, ogni tanto è affio­rata in alcuni bio­grafi la ten­ta­zione di con­si­de­rare pro­prio gli afo­ri­smi e gli appunti come il noc­ciolo attorno al qua­le­po­trebbe disporsi tutta la geo­gra­fia dell’opera di Canetti, domi­nata dall’esordio super­la­tivo, pro­fe­tico, irri­pe­tuto del 1935 e da un ricco e strano oggetto di pen­siero nato da una gesta­zione plu­ri­de­cen­nale: quella inda­gine mae­stosa quanto sfug­gente, quella audace ana­to­mia della paura inti­to­lata Massa e potere.
La scrit­tura desul­to­ria di note e appunti data già molto in alto nell’esistenza di Canetti, almeno dal 1925. Ma fu l’anno 1942 a rive­larsi deci­sivo: l’Europa era nel pieno della guerra, e già da quasi tre anni lo scrit­tore, nato in Bul­ga­ria da fami­glia di ascen­denza sefar­dita, dopo l’Anschluss era pas­sato da Vienna in Inghil­terra con la moglie Veza. Come lui stesso dichiarò intro­du­cendo la sua prima scelta di appunti – La pro­vin­cia dell’uomo – l’enorme lavoro di docu­men­ta­zione per Massa e potere a quel tempo lo assor­biva in maniera pres­so­ché esclu­siva, for­zan­dolo a proi­birsi qua­lun­que diver­sione in altre scrit­ture. Di que­gli anni tra­gici, Canetti dirà di essere «grato di averli vis­suti da sve­glio»; e anche per que­sto, oppresso dal dovere di con­ti­nuare quella che sarebbe dive­nuta l’opera della sua vita, non riu­scì infine a impe­dirsi la «val­vola di sfogo» rap­pre­sen­tata dalla ste­sura rego­lare degli afo­ri­smi, scin­til­lanti di quella voluta spon­ta­neità e man­canza di respon­sa­bi­lità che non poteva per­met­tersi nell’elaborazione siste­ma­tica, ben­ché sin­go­la­ris­sima, del sag­gio.
Il 24 otto­bre del 1942 con­se­gnò una scelta di pen­sieri, quale regalo di com­pleanno, alla pit­trice Marie-Louise von Mote­sic­zky, forse già allora sua amante. Il tac­cuino mano­scritto ritro­vato fra le carte dell’artista ci fa cono­scere cen­to­ven­ti­nove lampi del suo pen­siero quasi tutti ignoti finora: uscì nel 2005 a cura di Jeremy Adler e lo pub­blica ora in ita­liano Adel­phi tito­lan­dolo Afo­ri­smi per Marie-Louise (tra­du­zione di Ada Vigliani, con una inte­res­sante post­fa­zione dello stesso cura­tore, pp. 101, euro 12,00). È una testi­mo­nianza ger­mi­nale della ricerca di Canetti sulla forma breve e lam­peg­giante dell’aforisma, pro­iet­tata verso svi­luppi futuri memo­ra­bili, ma anche il docu­mento di un’amicizia amo­rosa desti­nata a durare fino alla morte dello scrit­tore, seb­bene affie­vo­lita e com­pli­cata dalle molte delu­sioni sof­ferte soprat­tutto da Marie-Louise.

Lei, alta, di non comune bel­lezza, facol­tosa e legata da stretta paren­tela a fami­glie ebrai­che molto in vista, ospitò la biblio­teca di Canetti in casa sua, strinse ami­ci­zia con sua moglie (che tol­le­rava la rela­zione) e gli mise a dispo­si­zione una stanza in cui lavo­rare tran­quillo; lui, che sof­friva il fatto di essere basso di sta­tura e si sen­tiva brutto, la inco­rag­giava a dipin­gere, por­tava l’aria del milieu let­te­ra­rio mit­te­leu­ro­peo in quel «deserto» che Lon­dra rap­pre­sentò per i due esuli e le con­fi­dava per let­tera pen­sieri e ambi­zioni, non­ché i con­flitti con altri intel­let­tuali (come Broch e Adorno) riven­di­cando di aver com­piuto con Massa e potere una ricerca per­so­nale fon­data su con­nes­sioni com­ple­ta­mente auto­nome: ben altro, insi­stete stiz­zito, che sco­del­lare un «libro di socio­lo­gia» di quelli pronti a vel­li­care ambi­zioni acca­de­mi­che invece di rispon­dere a una pura neces­sità di conoscenza.
Di fronte all’aforisma Canetti si dispone come uno che pre­tenda di avan­zare a ten­toni nel buio sor­ri­dendo. Affran­ca­tosi dalla dit­ta­tura spi­ri­tuale fatta di col­lere e con­danne del suo mae­stro Karl Kraus, che lo aveva esal­tato negli anni della gio­vi­nezza vien­nese (e la cui «scuola di resi­stenza» aveva sot­to­po­sto a una prova inces­sante il suo spi­rito di vene­ra­zione), Canetti in que­sti testi ritro­vati dia­loga con Pascal e Lich­ten­berg, mae­stri del pen­sare breve in cui la ric­chezza dell’annotazione scritta vince ogni aspet­ta­tiva siste­ma­tica; guarda a Con­fu­cio e al Tal­mud; ripo­si­ziona i con­fini della sapienza greca («L’uomo è la misura di tutti gli ani­mali»); costrui­sce alcuni afo­ri­smi secondo la logica del para­dosso arguto tipica dei mora­li­sti clas­sici («Cercò di restare ragio­ne­vole all’inferno», o ancora: «Sen­ti­men­ta­li­smo è quando la bontà diventa cor­rut­ti­bile»); capo­volge con sar­ca­smo pro­verbi e modi di dire, ma coglie e pre­fi­gura i pro­pri risul­tati più ori­gi­nali quando si allon­tana da una chia­rezza con­cet­tuale in cui tutto torna e tenta invece di sfrut­tare la pie­nezza ambi­va­lente della meta­fora, con­vinto com’è che spie­gare non è cono­scere, se «il con­qui­sta­tore non trova più la via d’uscita dalla carta geo­gra­fica» e «il sagace lo rosic­chiano le tarme».
Già è sin­to­ma­tico che alla allure clas­sica delle parole «afo­ri­sma» o «mas­sima» pre­fe­ri­sca opporre lo sta­tuto fluido, dispo­ni­bile e poli­morfo dell’«appunto». Que­sto gli con­cede l’illusione pre­li­mi­nare di non sor­ve­gliarsi, di non essere costretto a rileg­gersi salvo a distanza di anni, e di potere dav­vero get­tare sui qua­derni, in una sua per­so­nale ste­no­gra­fia, il minimo guizzo che gli attra­versa la mente, per­ché «tutto sta nel rap­porto tra il riso e la mera­vi­glia». La potenza fan­ta­stica, il biz­zarro con­nu­bio dell’elementare con l’inaudito, la fre­schezza nell’escogitare imma­gini nuove, a rischio del grot­te­sco, ani­mano le punte più vitali di que­sto libretto: Canetti inventa forme di vita imma­gi­na­rie, pen­sando al con­tra­rio fino a sfio­rare il mito («Ogni due o tre anni ha una nuova madre, a cia­scuna delle quali vuole un bene da morire. Adesso è un ottua­ge­na­rio e la sua ultima madre ha appena com­piuto vent’anni»).
Pur cosciente delle pro­prie radici ebrai­che, vor­rebbe fare un’esperienza ver­gine della Bib­bia, ex abrupto, come se non l’avesse mai letta, per «giun­gere alle con­clu­sioni più ardite». La pre­senza con­creta della sto­ria, che negli afo­ri­smi pub­bli­cati in vita è a volte masche­rata sotto lo smalto fan­ta­stico o il tono di una for­mu­la­zione più gene­rale, qui è invece urgente: il Canetti del 1942 sta tarando lo stru­mento sti­li­stico dei suoi appunti, è ancora curioso del comu­ni­smo, allude alla guerra come chi abbia avuto nell’orecchio il rumore delle esplo­sioni. E quando scrive «l’uomo non ha diritto a una vita pri­vata», die­tro il morso sati­rico si intra­ve­dono le gior­nate dell’esule sbal­zato in camere d’affitto, diviso tra le lin­gue, sem­pre a corto di soldi. Il filo rosso sono le osses­sioni di un’intera esi­stenza: la morte (il pro­getto a un tempo più audace e natu­rale di Canetti è stato farsi «nemico della morte»), la soprav­vi­venza e il suo legame per­verso e inscin­di­bile con il potere. Poi gli idoli del tempo, da abbat­tere: il fasti­dio per Nie­tzsche, cui dedica un’ora di let­tura «estorta» e piena di osti­lità, l’opposizione irre­vo­ca­bile a Freud. Se pure c’è una qual­che ten­sione alla «verità», essa è feb­brile, non paci­fi­cata («una verità si pianta sem­pre nel tal­lone dell’altra»); la rifles­sione si lega imme­dia­ta­mente all’immagine ma dimora in quell’ambivalenza radi­cata nella dop­pia fac­cia del lin­guag­gio: «Non mente, sorride».
Per Canetti lo scrit­tore è il «custode della meta­mor­fosi» e dei miti dell’umanità che deve essere in grado di «diven­tare chiun­que» e incar­nare le molte figure di cui è com­po­sto. Un Io fran­tu­mato ma ten­dente a una coe­renza segreta ed estrema, sin­to­niz­zato non solo sulle voci della pro­pria epoca, per coglierne l’essenziale e oppor­visi, come Kraus, ma in grado anche di par­lare dei morti, per i morti, la cui pre­senza invade ogni spazio.
E però, vol­gendo Canetti con­tro sé stesso, si direbbe che ogni appello pre­ven­tivo alla spon­ta­neità sia sospetto, sia un modo di nascon­dersi. Nella orgo­gliosa mol­te­pli­cità delle sue meta­mor­fosi, nel suo sor­pren­dersi (nella sua volontà di sor­pren­dersi) di fronte a quell’altro sé che è la frase, sono in agguato sia l’autofustigatore asse­tato di auto­de­ni­gra­zione (infatti il pro­nome «egli» non è mai neu­tro nei suoi appunti) sia il vene­ra­tore di idoli bra­moso di glo­ria, ma pronto a pro­vo­carli, a rove­sciarli, ad assol­versi solo per poi pre­sen­tarsi più raf­fi­na­ta­mente ferito.
«La prima cosa che biso­gna com­pren­dere nella vita di un grande scrit­tore è il genere e il grado di soli­tu­dine che è riu­scito a con­qui­stare per sé stesso», dirà nel ’48 nella con­fe­renza su Proust, Kafka, Joyce, scrit­tori che hanno intrec­ciato rifiuto, reclu­sione, esi­lio e meta­mor­fosi, e ai quali si sfor­zava di guar­dare da pari. Da qual­che parte nell’incompiuto, nel pol­ve­rìo di voci delle Auf­zeich­nun­gen, tra­spare il segreto di un Canetti col­le­zio­ni­sta di imma­gini riflesse nell’acqua, segreto tanto pul­sante quanto più nasco­sto. «Di stelle ce ne sono molte, e potreb­bero esser­cene ancora di più. Ci inviano una luce, e noi sap­piamo di non poter­gliene resti­tuire nes­suna». Forse mai Canetti è stato più vicino alla sua epoca come quando è sem­brato che volesse disto­glier­sene: stava allon­ta­nan­do­sene, in realtà, per pren­dere le misure.

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