venerdì 13 febbraio 2015

Nel postmodernismo l'architetto diviene decoratore



LA DECORAZIONE È DIVENTATA SOLO FETICCIO 
V. Gregotti Venerdì 13 Febbraio, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA

La «decorazione» ha assunto, nei nostri anni con grande fortuna mercantile, un nuovo assetto in architettura. Dopo avere praticato nella storia una serie di diversi assetti: come evidenza formale degli elementi strutturali nell’antichità greco-romana, come esaltazione della narrazione religiosa nell’architettura gotica, come torsione degli elementi strutturali dell’organismo nel barocco e poi come ornamentazione rococò, sino al razionalismo della «forma delle funzioni». 
Oggi l’ornamento in architettura si attua cioè attraverso ad un netto distacco tra le parti funzionalmente utilizzate che sono proposte utilizzando geometrie professionalmente consolidate (pur con qualche eccesso tradizionalmente decorativo) concentrando in quelle che un tempo si definivano facciate l’immagine della diversità della figura architettonica, e della sua pretesa singolarità di grande oggetto, per mezzo dell’aggiunta di schermi esteriori del tutto indipendenti dal resto dell’organismo architettonico. Tutto questo ha prodotto molte pessime imitazioni (come quella per esempio del padiglione Italia dell’Expo di Milano) a partire dal modello dall’elegante inutilità della parete-intreccio proposta da Ay Wey-Wey che chiude lo stadio di Pechino. Ma gli esempi possono esser molti e non solo nel mondo globale in ascesa economica che vuole mostrarsi globale. Tutto questo coerentemente (e forse inconsciamente) con l’idea di aprirsi così alle possibilità di mutazione sia a causa del passare delle mode sia per le necessità mercantili dell’oggetto architettonico, cioè tanto per quanto riguarda la sua mutazione di uso che quella del rapido mutamento dei gusti. 
Così la «decorazione» si è oggi trasformata in una palese separazione tra la funzionalità dell’edificio e calligrafia degli schermi esterni che ne comunicano il messaggio formale. Non è solo lo stato evolutivo (o piuttosto di manierismo di se stesso come quello rappresentato dall’ultima opera di Frank Gehry a Parigi, pur sempre di grande capacità plastica) ma molti altri esempi che possono essere citati. 
Come ultimo il teatro, terminato di costruire di recente da Dominique Perrault ad Albi, città con una delle più belle cattedrali gotiche di Francia, in cui l’architetto gioca la de-materializzazione dell’edificio principale con doppi ed a volte tripli schermi indipendenti, un gioco attuato con sapienza ma che sembra voler essere disponibile ad una rinuncia volontaria all’idea di durata della figura dell’edificio pubblico, anche come protagonista del disegno urbano dalla parte della città. 
Tutto questo è anche una rinuncia all’idea dell’edificio organico in tutte le sue parti perseguita da secoli, una rinuncia assai più radicale da quella rappresentata dalle diverse interpretazioni nel tempo della idea stessa di decorazione, che sembra più vicina ai monumenti provvisori costruiti un tempo in occasione di feste regali o religiose. 
Sappiamo bene che i tentativi di sottrarsi ad un’idea di coerenza organica dell’opera è stata inseguita in molti modi negli ultimi trent’anni con il ricorso all’eclettismo storicistico postmoderno o ricorrendo al mito della tecnica come contenuto formale oppure nella falsa idea della libera espressione soggettiva che, senza riflessione critica sulle contraddizioni del presente, si offre come rispecchiamento positivo dello stato delle cose in cui l’unico valore sembra essere la visibilità telematica dell’autore ancor prima dell’opera. 
Si tratta certamente di un mutamento strutturale del ruolo dell’architetto che diviene decoratore, nella negazione della tradizione dell’internazionalismo critico del Movimento Moderno, e nella piena accettazione di un’architettura del globalismo come forma di neocolonizzazione che nega ogni aspetto positivo delle differenze offerte dalla cultura dei luoghi e della loro storia. È l’uniformità dei consumi, dei denari e del tecno-capitalismo finanziario l’unico valore a cui anche l’architettura dovrà guardare?

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