Pierre Hadot: Studi di filosofia antica, a cura di Arnold I.Davidson, traduzione Laura Cremonesi, ETS, Pisa, pagg. 338, € 28,00
Risvolto
Questo libro raccoglie una serie di testi, in gran parte tradotti qui
per la prima volta, dello storico della filosofia e filosofo Pierre
Hadot. Scelti e raggruppati in cinque sezioni da Hadot stesso, questi
testi offrono una visione d’insieme del lavoro dello storico francese,
permettendo di coglierne i principali snodi tematici e metodologici.
Da quelli più filologici, che indagano importanti concetti come quelli
di pragma o di physis, a quelli storici, che mettono in luce i modi di
procedere del pensiero antico, fino a quelli esplicitamente filosofici,
che propongono nuove modalità interpretative della filosofia greca,
ellenistica e romana, intesa come pratica e maniera di vivere, i testi
si basano tutti su quella che era stata una delle maggiori
preoccupazioni di Hadot: interpretare il mondo antico, le sue pratiche e
il suo pensiero a partire dal contesto storico originale che li ha
generati, senza però mai dimenticare le possibili connessioni tra la
riflessione antica e i problemi e le questioni che segnano anche la
nostra attualità.
Pierre Hadot (1922-2010) Il sublime dentro di me
Una
rilettura dei testi antichi ci fa capire il valore dell’attività
filosofica che non si limita alla teoria ma diventa pratica di vita
di Pierre Hadot e Arnold I. Davidson Il Sole Domenica 8.2.15
Anticipiamo
in questa pagina la prefazione di Arnold Davidson e un brano tratto dal
libro Studi di Filosofia antica , che sarà in libreria nei prossimi
giorni e che raccoglie una serie di testi, in gran parte tradotti per la
prima volta, dello studioso francese Pierre Hadot
di Arnold I. Davidson
Pierre
Hadot ha trasformato la nostra idea non solo della filosofia antica, ma
della filosofia in quanto tale. Dai suoi primi studi sulla filosofia
neoplatonica, fino al suo ultimo libro su Goethe e la tradizione degli
esercizi spirituali, Hadot ci ha fatto vedere e capire il valore della
filosofia antica per tutta la storia della filosofia. Secondo Hadot
nella filosofia antica tutti i discorsi, le teorie, le astrazioni
filosofiche sono al servizio della vita filosofica, della pratica
concreta della filosofia. La filosofia senza carne e animo, senza i
filosofi, non è che un passatempo intellettuale, cioè manca la
dimensione di una scelta esistenziale di vivere in un certo modo. Hadot
sintetizza la sua idea fondamentale così: «[...] tutte le scuole
dell’antichità rifiutavano di considerare l’attività filosofica come
puramente intellettuale, ma la consideravano come una scelta, che
impegnava tutta la vita e tutta l’anima. L’esercizio della filosofia non
era, quindi, solo intellettuale, ma poteva anche essere spirituale. Il
filosofo non forma solo allora a un saper parlare, a un saper discutere,
ma a un saper vivere nel senso più forte e nobile del termine. Invita i
suoi discepoli a un’arte di vivere, a un modo di vita».
Questa forza
spirituale della filosofia non si localizza semplicemente nella parte
etica della filosofia. La pratica della filosofia si trova all’interno
di ciascuna disciplina tradizionale della filosofia: etica,logica,
fisica. La filosofia è allo stesso tempo un’etica praticata, una logica
praticata e una fisica praticata. Ogni parte della filosofia implica un
discorso teorico e una pratica vissuta. Allora, «la filosofia vissuta
non si limita alla pratica dei doveri morali, ma comporta un controllo
dell’attività di pensiero e una coscienza cosmica. La filosofia vissuta è
quindi una pratica, un modo di vita che abbraccia tutta l’attività
umana e non solo un’etica nel senso più ristretto del termine».
Vivere
la filosofia richiede un appello alla guida di una figura esemplare,
chiamata, nella filosofia antica, il saggio: «il filosofo si chiederà in
ogni circostanza: Cosa farebbe il saggio in questo caso?». Se in alcune
scuole antiche il saggio può essere «un ideale quasi inaccessibile, più
una norma trascendente che una figura concreta», non dobbiamo
dimenticare che «la figura ideale del saggio non è stata proiettata
nell’assoluto, non è una costruzione teorica». Hadot conclude: «[...] la
figura del saggio perfetto corrisponde all’idealizzazione, alla
trasfigurazione, alla canonizzazione, per così dire, di figure ben
concrete, che sono questi uomini retti, questi saggi che vivono tra gli
uomini».
Nell’antichità, possiamo distinguere due tipi di
paesaggio: il paesaggio piacevole (locus amoenus) e il paesaggio
grandioso o sublime. [...] Se, nell’antichità, il «luogo piacevole» è
indiscutibilmente un oggetto di contemplazione estetica, lo sono anche
gli spettacoli grandiosi, selvaggi o terrificanti che la natura può
offrire all’uomo? [...]
L’ammirazione per gli spettacoli grandiosi
della natura è ben attestata in tutta l’antichità, da Omero (Iliade,
VIII, 555 o IV, 442) ad Agostino: «Gli uomini ammirano le vette delle
montagne, le onde gigantesche del mare, l’ampiezza dei corsi dei fiumi,
l’immensità dell’oceano, le rivoluzioni degli astri».
Anche questi
spettacoli sublimi, come la vista dei luoghi piacevoli, fanno presagire
una presenza divina. Nella Lettera 41, volendo mostrare come il saggio
faccia intravedere qualcosa di sacro, Seneca compara il sublime della
virtù al sublime della natura, ed evoca il sentimento di stupore e di
ammirazione, l’emozione sacra provocata dallo spettacolo delle foreste
profonde e solitarie, delle grotte, degli antri inesplorabili, dei
laghi, delle sorgenti dei grandi fiumi. In Orazio, questo sentimento del
sublime sembra avere una tonalità dionisiaca: «Dove mi conduci, Bacco,
pieno di te? In quali boschi, in quali grotte mi trasporta l’improvvisa
ispirazione? [...] Come, sulle vette, la Baccante insonne cade in estasi
[...], così io amo, lontano dai sentieri, ammirare le rive e i boschi
solitari».
Questo paese dionisiaco è quello delle Baccanti di Euripide: le montagne, i boschi fitti, le gole scoscese, la natura selvaggia.
Come
già accennato, il sentimento del sublime può essere ispirato sia dallo
spettacolo della natura, sia da quello dell’anima del saggio. Questo
tema è particolarmente caro a Seneca, ad esempio nella Lettera 89: «Se
solo, come il volto dell’universo che si presenta al nostro sguardo
nella sua interezza, la filosofia potesse, anch’essa nella sua
interezza, presentarsi ai nostri occhi, replica dello spettacolo
dell’universo, essa susciterebbe ammirazione in tutti i mortali».
E
soprattutto, nella Lettera 64: «Non sono meno estasiato dalla
contemplazione della saggezza di quanto io non lo sia, in altri momenti,
dalla contemplazione del mondo che, di frequente, guardo come farebbe
uno spettatore che lo vede per la prima volta».
Il sublime è quindi
percepito al tempo stesso nel mondo esterno e all’interno della
coscienza. Possiamo immaginare che queste due fonti stoiche del sublime
costituiscano il modello antico della celebre frase di Kant, che apre la
conclusione della Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono
l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto
più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo
stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho
bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte
nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori dal mio orizzonte; io
le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della
mia esistenza».
Torniamo alla frase della Lettera 64: il «mondo che,
di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la
prima volta». Si tratta di un’osservazione straordinaria, estremamente
rivelatrice e che troviamo raramente nell’antichità. Seneca afferma di
trovarsi di fronte al mondo come uno spectator novus, che dirige cioè
sul mondo uno sguardo nuovo.
Questo sguardo nuovo non è un’intuizione
gratuita e inattesa, ma il risultato di uno sforzo interiore, di un
esercizio spirituale destinato a vincere l’abitudine che rende banale e
meccanico il nostro modo di vedere il mondo, destinato anche a
distaccarci dall’interesse, dall’egoismo, dalle preoccupazioni che ci
impediscono di vedere il mondo in quanto mondo, perché ci costringono ad
applicare la nostra attenzione sugli oggetti particolari che ci
procurano piacere o che ci sono utili. Al contrario, è grazie a uno
sforzo di concentrazione sull’istante presente, vivendo ogni momento
come se fosse allo stesso tempo il primo e l’ultimo, senza pensare al
futuro o al passato, percependo il suo carattere unico e insostituibile,
che è possibile percepire, in questo istante, la meravigliosa presenza
del mondo. Bisogna anche aggiungere che in Cicerone (De natura deorum,
III, 38, 96), Seneca (Naturales quaestiones, VII, 1), Lucrezio (De rerum
natura, II, 1023 e sg.) e Agostino (De utilitate credendi, XVI, 34)
ritroviamo l’idea per cui è solo l’abitudine, la routine della vita
quotidiana che ci impedisce di percepire il mondo come un miracolo. E,
per l’appunto, questa percezione del mondo è sublime perché, come la
figura del saggio, è un “paradosso”, qualcosa che trascende l’abituale
esperienza umana.
Quella prassi teorica che nega l’enciclopedismo Saggi. «Studi di filosofia antica» di Pierre Hadot per Edizioni Ets. Una raccolta di testi dove l’insegnamento è indicato come il superamento della distinzione tra oralità e scrittura Andrea Comincini, il Manifesto 15.4.2015
Studi di filosofia antica, di Pierre Hadot (Edizioni Ets, euro 28), raccoglie alcuni tra i più importanti saggi del filosofo francese, alcuni dei quali per la prima volta tradotti in Italia da Laura Cremonesi. La miscellanea è in sintonia con una delle massime dello stesso scrittore, riportate nel libro: «In ultima analisi, qual è la cosa più utile all’uomo in quanto uomo? discorrere sul linguaggio, o sull’essere e il non essere? Non è piuttosto imparare a vivere una vita umana?»
La dichiarazione è un manifesto della coerenza intellettuale dello studioso, il quale ha sempre sottolineato che la filosofia è esercizio spirituale per la vita quotidiana, non mero lavoro accademico o sistematico. Hadot mostra fin dalle prime pagine il proprio convincimento: la vera anomalia culturale, nello studio del pensiero antico in età contemporanea, è la sottovalutazione della dimensione interiore del filosofare. Nell’Accademia platonica o durante i lunghi discorsi di Socrate intrattenuti con i discepoli, quanto risalta è la funzione paideutica del discorrere: non si può propriamente parlare di sistema «chiuso» o concluso quando si riflette sulla tradizione classica, non perché non vi siano idee-chiave, o solide fondamenta, ma perché è nel rapporto dialettico tra oratore e uditore che si incarna la verità. Come sottolinea il curatore di collana Arnold Davidson, nella preziosa introduzione, Hadot ci parla di una filosofia che si fa anima e corpo, ben lontana da uno sterile enciclopedismo astratto nel quale il pensiero altro non è se non corpo di testi da studiare.
Il nucleo dominante del testo, conformemente all’obbiettivo dell’autore, si sofferma sui concetti di persuasione e retorica nel mondo classico. Centrale per il raggiungimento della virtù è saperla anche evocare e «tirar fuori», alla maniera di Socrate nella famosa metafora dell’ostetrica. Essenziale a proposito è ricordare la netta distinzione tra tradizione orale e scrittura. Evitare o dimenticare che tra Presocratici, Platone, Aristotele e Neoplatonici si verifichi questo passaggio epocale, vuol dire non cogliere le strategie di insegnamento dei filosofi, all’interno dei loro cenacoli e nella Polis intera. Come afferma Platone nel Fedro, il libro, appena scritto, «rotola dappertutto»: il testo in sé è incapace di difendersi, in balia di ogni interpretazione, facile da manipolare.
Hadot si sofferma, coerentemente, anche su una delle questioni centrali del dibattito filosofico, ovvero il valore dell’insegnamento orale di Platone. La questione è stata ripresa dalla scuola di Tubinga ed ha avuto in Italia un sostenitore nel filosofo Giovanni Reale: il testo scritto dell’Ateniese ha valore esortativo, ed è preludio del vero insegnamento orale, oppure conta solo l’opera cartacea? L’insegnamento comprendeva entrambe le situazioni. La scuola di Tubinga prende troppo sul serio la condanna di Platone della scrittura, così come commettono errori quanti negano la dimensione etica e dialogica della filosofia platonica.
La tesi si rafforza e trova definitiva affermazione quando lo studioso analizza i termini sophos e sophia: nella grecità tardo antica designavano una abilità tecnica, il frutto di una esperienza acquisita, persino di natura politica. Ciò indica che la distinzione tra scienza e saggezza è decisamente più tarda, e l’unità dei saperi è unità virtuosa. Filosofia, appunto.
Il principio d’autorità, in definitiva, è antitetico al retto filosofare. I danni provocati, secondo Hadot, non sono solo d’ordine filologico. Quanto viene a mancare, e pare per il francese l’offesa più grave, è l’impossibilità del progresso interiore di ognuno di noi.
Come sottolinea Wittgenstein, altro autore studiato da Hadot, «Il lavoro filosofico è propriamente… piuttosto un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (e su cosa si pretende da esse)».
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