domenica 8 febbraio 2015

Gli studi di filosofia antica di Pierre Hadot

Studi di filosofia antica
Pierre Hadot: Studi di filosofia antica, a cura di Arnold I.Davidson, traduzione Laura Cremonesi, ETS, Pisa, pagg. 338, € 28,00

Risvolto
Questo libro raccoglie una serie di testi, in gran parte tradotti qui per la prima volta, dello storico della filosofia e filosofo Pierre Hadot. Scelti e raggruppati in cinque sezioni da Hadot stesso, questi testi offrono una visione d’insieme del lavoro dello storico francese, permettendo di coglierne i principali snodi tematici e metodologici. 


Da quelli più filologici, che indagano importanti concetti come quelli di pragma o di physis, a quelli storici, che mettono in luce i modi di procedere del pensiero antico, fino a quelli esplicitamente filosofici, che propongono nuove modalità interpretative della filosofia greca, ellenistica e romana, intesa come pratica e maniera di vivere, i testi si basano tutti su quella che era stata una delle maggiori preoccupazioni di Hadot: interpretare il mondo antico, le sue pratiche e il suo pensiero a partire dal contesto storico originale che li ha generati, senza però mai dimenticare le possibili connessioni tra la riflessione antica e i problemi e le questioni che segnano anche la nostra attualità.

Pierre Hadot (1922-2010) Il sublime dentro di me
Una rilettura dei testi antichi ci fa capire il valore dell’attività filosofica che non si limita alla teoria ma diventa pratica di vita

di Pierre Hadot e Arnold I. Davidson Il Sole Domenica 8.2.15
Anticipiamo in questa pagina la prefazione di Arnold Davidson e un brano tratto dal libro Studi di Filosofia antica , che sarà in libreria nei prossimi giorni e che raccoglie una serie di testi, in gran parte tradotti per la prima volta, dello studioso francese Pierre Hadot

di Arnold I. Davidson
Pierre Hadot ha trasformato la nostra idea non solo della filosofia antica, ma della filosofia in quanto tale. Dai suoi primi studi sulla filosofia neoplatonica, fino al suo ultimo libro su Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, Hadot ci ha fatto vedere e capire il valore della filosofia antica per tutta la storia della filosofia. Secondo Hadot nella filosofia antica tutti i discorsi, le teorie, le astrazioni filosofiche sono al servizio della vita filosofica, della pratica concreta della filosofia. La filosofia senza carne e animo, senza i filosofi, non è che un passatempo intellettuale, cioè manca la dimensione di una scelta esistenziale di vivere in un certo modo. Hadot sintetizza la sua idea fondamentale così: «[...] tutte le scuole dell’antichità rifiutavano di considerare l’attività filosofica come puramente intellettuale, ma la consideravano come una scelta, che impegnava tutta la vita e tutta l’anima. L’esercizio della filosofia non era, quindi, solo intellettuale, ma poteva anche essere spirituale. Il filosofo non forma solo allora a un saper parlare, a un saper discutere, ma a un saper vivere nel senso più forte e nobile del termine. Invita i suoi discepoli a un’arte di vivere, a un modo di vita».
Questa forza spirituale della filosofia non si localizza semplicemente nella parte etica della filosofia. La pratica della filosofia si trova all’interno di ciascuna disciplina tradizionale della filosofia: etica,logica, fisica. La filosofia è allo stesso tempo un’etica praticata, una logica praticata e una fisica praticata. Ogni parte della filosofia implica un discorso teorico e una pratica vissuta. Allora, «la filosofia vissuta non si limita alla pratica dei doveri morali, ma comporta un controllo dell’attività di pensiero e una coscienza cosmica. La filosofia vissuta è quindi una pratica, un modo di vita che abbraccia tutta l’attività umana e non solo un’etica nel senso più ristretto del termine».
Vivere la filosofia richiede un appello alla guida di una figura esemplare, chiamata, nella filosofia antica, il saggio: «il filosofo si chiederà in ogni circostanza: Cosa farebbe il saggio in questo caso?». Se in alcune scuole antiche il saggio può essere «un ideale quasi inaccessibile, più una norma trascendente che una figura concreta», non dobbiamo dimenticare che «la figura ideale del saggio non è stata proiettata nell’assoluto, non è una costruzione teorica». Hadot conclude: «[...] la figura del saggio perfetto corrisponde all’idealizzazione, alla trasfigurazione, alla canonizzazione, per così dire, di figure ben concrete, che sono questi uomini retti, questi saggi che vivono tra gli uomini».

Nell’antichità, possiamo distinguere due tipi di paesaggio: il paesaggio piacevole (locus amoenus) e il paesaggio grandioso o sublime. [...] Se, nell’antichità, il «luogo piacevole» è indiscutibilmente un oggetto di contemplazione estetica, lo sono anche gli spettacoli grandiosi, selvaggi o terrificanti che la natura può offrire all’uomo? [...]
L’ammirazione per gli spettacoli grandiosi della natura è ben attestata in tutta l’antichità, da Omero (Iliade, VIII, 555 o IV, 442) ad Agostino: «Gli uomini ammirano le vette delle montagne, le onde gigantesche del mare, l’ampiezza dei corsi dei fiumi, l’immensità dell’oceano, le rivoluzioni degli astri».
Anche questi spettacoli sublimi, come la vista dei luoghi piacevoli, fanno presagire una presenza divina. Nella Lettera 41, volendo mostrare come il saggio faccia intravedere qualcosa di sacro, Seneca compara il sublime della virtù al sublime della natura, ed evoca il sentimento di stupore e di ammirazione, l’emozione sacra provocata dallo spettacolo delle foreste profonde e solitarie, delle grotte, degli antri inesplorabili, dei laghi, delle sorgenti dei grandi fiumi. In Orazio, questo sentimento del sublime sembra avere una tonalità dionisiaca: «Dove mi conduci, Bacco, pieno di te? In quali boschi, in quali grotte mi trasporta l’improvvisa ispirazione? [...] Come, sulle vette, la Baccante insonne cade in estasi [...], così io amo, lontano dai sentieri, ammirare le rive e i boschi solitari».
Questo paese dionisiaco è quello delle Baccanti di Euripide: le montagne, i boschi fitti, le gole scoscese, la natura selvaggia.
Come già accennato, il sentimento del sublime può essere ispirato sia dallo spettacolo della natura, sia da quello dell’anima del saggio. Questo tema è particolarmente caro a Seneca, ad esempio nella Lettera 89: «Se solo, come il volto dell’universo che si presenta al nostro sguardo nella sua interezza, la filosofia potesse, anch’essa nella sua interezza, presentarsi ai nostri occhi, replica dello spettacolo dell’universo, essa susciterebbe ammirazione in tutti i mortali».
E soprattutto, nella Lettera 64: «Non sono meno estasiato dalla contemplazione della saggezza di quanto io non lo sia, in altri momenti, dalla contemplazione del mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta».
Il sublime è quindi percepito al tempo stesso nel mondo esterno e all’interno della coscienza. Possiamo immaginare che queste due fonti stoiche del sublime costituiscano il modello antico della celebre frase di Kant, che apre la conclusione della Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori dal mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza».
Torniamo alla frase della Lettera 64: il «mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta». Si tratta di un’osservazione straordinaria, estremamente rivelatrice e che troviamo raramente nell’antichità. Seneca afferma di trovarsi di fronte al mondo come uno spectator novus, che dirige cioè sul mondo uno sguardo nuovo.
Questo sguardo nuovo non è un’intuizione gratuita e inattesa, ma il risultato di uno sforzo interiore, di un esercizio spirituale destinato a vincere l’abitudine che rende banale e meccanico il nostro modo di vedere il mondo, destinato anche a distaccarci dall’interesse, dall’egoismo, dalle preoccupazioni che ci impediscono di vedere il mondo in quanto mondo, perché ci costringono ad applicare la nostra attenzione sugli oggetti particolari che ci procurano piacere o che ci sono utili. Al contrario, è grazie a uno sforzo di concentrazione sull’istante presente, vivendo ogni momento come se fosse allo stesso tempo il primo e l’ultimo, senza pensare al futuro o al passato, percependo il suo carattere unico e insostituibile, che è possibile percepire, in questo istante, la meravigliosa presenza del mondo. Bisogna anche aggiungere che in Cicerone (De natura deorum, III, 38, 96), Seneca (Naturales quaestiones, VII, 1), Lucrezio (De rerum natura, II, 1023 e sg.) e Agostino (De utilitate credendi, XVI, 34) ritroviamo l’idea per cui è solo l’abitudine, la routine della vita quotidiana che ci impedisce di percepire il mondo come un miracolo. E, per l’appunto, questa percezione del mondo è sublime perché, come la figura del saggio, è un “paradosso”, qualcosa che trascende l’abituale esperienza umana.

Quella prassi teorica che nega l’enciclopedismo Saggi. «Studi di filosofia antica» di Pierre Hadot per Edizioni Ets. Una raccolta di testi dove l’insegnamento è indicato come il superamento della distinzione tra oralità e scrittura Andrea Comincini, il Manifesto 15.4.2015
Studi di filo­so­fia antica, di Pierre Hadot (Edi­zioni Ets, euro 28), rac­co­glie alcuni tra i più impor­tanti saggi del filo­sofo fran­cese, alcuni dei quali per la prima volta tra­dotti in Ita­lia da Laura Cre­mo­nesi. La miscel­la­nea è in sin­to­nia con una delle mas­sime dello stesso scrit­tore, ripor­tate nel libro: «In ultima ana­lisi, qual è la cosa più utile all’uomo in quanto uomo? discor­rere sul lin­guag­gio, o sull’essere e il non essere? Non è piut­to­sto impa­rare a vivere una vita umana?»
La dichia­ra­zione è un mani­fe­sto della coe­renza intel­let­tuale dello stu­dioso, il quale ha sem­pre sot­to­li­neato che la filo­so­fia è eser­ci­zio spi­ri­tuale per la vita quo­ti­diana, non mero lavoro acca­de­mico o siste­ma­tico. Hadot mostra fin dalle prime pagine il pro­prio con­vin­ci­mento: la vera ano­ma­lia cul­tu­rale, nello stu­dio del pen­siero antico in età con­tem­po­ra­nea, è la sot­to­va­lu­ta­zione della dimen­sione inte­riore del filo­so­fare. Nell’Accademia pla­to­nica o durante i lun­ghi discorsi di Socrate intrat­te­nuti con i disce­poli, quanto risalta è la fun­zione pai­deu­tica del discor­rere: non si può pro­pria­mente par­lare di sistema «chiuso» o con­cluso quando si riflette sulla tra­di­zione clas­sica, non per­ché non vi siano idee-chiave, o solide fon­da­menta, ma per­ché è nel rap­porto dia­let­tico tra ora­tore e udi­tore che si incarna la verità. Come sot­to­li­nea il cura­tore di col­lana Arnold David­son, nella pre­ziosa intro­du­zione, Hadot ci parla di una filo­so­fia che si fa anima e corpo, ben lon­tana da uno ste­rile enci­clo­pe­di­smo astratto nel quale il pen­siero altro non è se non corpo di testi da studiare.
Il nucleo domi­nante del testo, con­for­me­mente all’obbiettivo dell’autore, si sof­ferma sui con­cetti di per­sua­sione e reto­rica nel mondo clas­sico. Cen­trale per il rag­giun­gi­mento della virtù è saperla anche evo­care e «tirar fuori», alla maniera di Socrate nella famosa meta­fora dell’ostetrica. Essen­ziale a pro­po­sito è ricor­dare la netta distin­zione tra tra­di­zione orale e scrit­tura. Evi­tare o dimen­ti­care che tra Pre­so­cra­tici, Pla­tone, Ari­sto­tele e Neo­pla­to­nici si veri­fi­chi que­sto pas­sag­gio epo­cale, vuol dire non cogliere le stra­te­gie di inse­gna­mento dei filo­sofi, all’interno dei loro cena­coli e nella Polis intera. Come afferma Pla­tone nel Fedro, il libro, appena scritto, «rotola dap­per­tutto»: il testo in sé è inca­pace di difen­dersi, in balia di ogni inter­pre­ta­zione, facile da manipolare.
Hadot si sof­ferma, coe­ren­te­mente, anche su una delle que­stioni cen­trali del dibat­tito filo­so­fico, ovvero il valore dell’insegnamento orale di Pla­tone. La que­stione è stata ripresa dalla scuola di Tubinga ed ha avuto in Ita­lia un soste­ni­tore nel filo­sofo Gio­vanni Reale: il testo scritto dell’Ateniese ha valore esor­ta­tivo, ed è pre­lu­dio del vero inse­gna­mento orale, oppure conta solo l’opera car­ta­cea? L’insegnamento com­pren­deva entrambe le situa­zioni. La scuola di Tubinga prende troppo sul serio la con­danna di Pla­tone della scrit­tura, così come com­met­tono errori quanti negano la dimen­sione etica e dia­lo­gica della filo­so­fia pla­to­nica.
La tesi si raf­forza e trova defi­ni­tiva affer­ma­zione quando lo stu­dioso ana­lizza i ter­mini sophos e sophia: nella gre­cità tardo antica desi­gna­vano una abi­lità tec­nica, il frutto di una espe­rienza acqui­sita, per­sino di natura poli­tica. Ciò indica che la distin­zione tra scienza e sag­gezza è deci­sa­mente più tarda, e l’unità dei saperi è unità vir­tuosa. Filo­so­fia, appunto.
Il prin­ci­pio d’autorità, in defi­ni­tiva, è anti­te­tico al retto filo­so­fare. I danni pro­vo­cati, secondo Hadot, non sono solo d’ordine filo­lo­gico. Quanto viene a man­care, e pare per il fran­cese l’offesa più grave, è l’impossibilità del pro­gresso inte­riore di ognuno di noi.
Come sot­to­li­nea Witt­gen­stein, altro autore stu­diato da Hadot, «Il lavoro filo­so­fico è pro­pria­mente… piut­to­sto un lavoro su se stessi. Sul pro­prio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (e su cosa si pre­tende da esse)».
Leggi l´articolo anche in:

Nessun commento: