sabato 7 febbraio 2015
"Il super esercito dello zar Putin una minaccia per l’Occidente": è in Ucraina la seconda faglia della Guerra di Civiltà
Solo Caracciolo si salva. Molto più di certa sinistra del resto [SGA].
Guerra in Ucraina Dopo Mosca scenari fragili
di Roberto Toscano La Stampa 7.2.15
Se
qualcuno avesse avuto ancora dubbi sulla drammaticità e pericolosità
del conflitto in corso nell’Ucraina orientale, il viaggio a Mosca di
Angela Merkel e François Hollande dovrebbe indurlo a rivedere le proprie
valutazioni. Non sembra esagerato ritenere questo tentativo come una
sorta di ultima spiaggia per la diplomazia, dopo di che si aprirebbero
scenari imprevedibili, ma comunque inquietanti.
Ma quali sono le
prospettive? E su quali basi potrebbe essere trovato un compromesso
capace di disinnescare la dirompente carica – tragica per le conseguenze
umane e destabilizzante per gli equilibri europei – che caratterizza il
conflitto nel Donbass? Certamente l’obiettivo del viaggio non può
essere interpretato come teso ad ottenere un chiarimento circa gli
obiettivi di Vladimir Putin. Troppo evidente, ormai, è il fatto che la
sua è una politica di revisionismo territoriale tesa a rendere
reversibile, quanto meno nelle zone abitate da popolazioni russofone, la
fine di quella fase della Russia Imperiale che andava sotto il nome di
Unione Sovietica.
Dopo la secessione della Crimea, oggi Putin mira a
conseguire il riconoscimento, nell’Ucraina orientale, del nuovo status
quo territoriale che si è venuto a creare a seguito dell’avanzata degli
insorti che la Russia ispira, finanzia ed arma.
Da parte russa si
parla del riconoscimento di forme di autonomia, ma sarebbe difficile
dimenticare quello che Mosca è riuscita a imporre in Transnistria, in
Abkhazia e nella Ossezia del Sud: la creazione di territori che, anche
se con uno status ambiguo (e internazionalmente non riconosciuto), di
fatto sono stati incorporati alla Russia.
Per quanto sia Hollande sia
Mer-kel ribadiscano un giorno sì e uno no un incrollabile impegno per
l’integrità territoriale dell’Ucraina, sembra difficile immaginare come
Putin possa essere indotto a fare marcia indietro rispetto al suo
evidente disegno strategico, che fra l’altro riscuote in Russia un forte
consenso popolare. Questo spiega la sostanziale freddezza con cui la
missione di pace dei due leaders europei è stata accolta da parte degli
Stati Uniti, preoccupati di possibili cedimenti – e, va aggiunto, sempre
sospettosi delle intermittenti velleità degli europei di elaborare
proprie iniziative di politica estera. E’ più che legittimo,
effettivamente, essere scettici sulla possibilità di influire, con una
miscela di trattative e sanzioni, su un dirigente politico che, come ha
scritto ieri su queste pagine Stefano Stefanini, «non arretra di fronte
al disastro economico e all’isolamento internazionale» dato che «ragiona
in termini di potere, nazione e territorio, e non di economia,
benessere e pace ai confini».
Ma se si può essere scettici sullo
strumento diplomatico, non minori sono le perplessità che suscita la via
alternativa, quella di puntare sul rafforzamento delle capacità
militari ucraine. L’idea che le forze armate ucraine, per quanto aiutate
dall’Occidente, siano in grado di battere quelle russe appare molto
meno realistica della speranza che funzioni la diplomazia.
Un qualche
tipo di intesa, quanto meno capace di ridurre i danni e scongiurare il
peggio, dovrebbe tuttavia essere possibile. Ad esempio, sembra di poter
dire che la prospettiva di un ingresso ucraino nella Nato (adombrata nel
2008) sia ad un tempo per la Russia un’autentica fonte di
preoccupazione geopolitica e un utile pretesto per mettere in atto il
disegno revanscista e revisionista di Putin. Non sarebbe male ascoltare i
consigli di due protagonisti della Guerra Fredda come Kissinger e
Brzezinski e fare marcia indietro rispetto a quell’improvvida e poco
realistica prospettiva, ribadendo nel contempo la credibilità della
garanzia che la Nato fornisce ai suoi membri. Una necessità,
quest’ultima, suggerita non solo dall’opportunità di togliere di mezzo
il pretesto principale della politica russa verso l’Ucraina quanto
dall’importanza di tranquillizzare i comprensibili timori degli Stati
baltici, dove l’irrisolto problema delle minoranze russe potrebbe
indurre Mosca a ulteriori, devastanti disegni di «separatismi
assistiti».
Il viaggio di Merkel e Hollande ha un significato che va
anche oltre la crisi ucraina, nella misura in cui segna il ritorno di
una politica estera molto «classica», basata sul ruolo degli Stati più
che sul multilateralismo o l’integrazione. Certo, possiamo sperare che
questa ritrovata coincidenza fra Parigi e Berlino possa preludere al
rilancio di quel motore franco-tedesco cui l’integrazione europea deve
moltissimo, ma non si può non vedere che risulta ancora una volta
confermato che l’Unione Europea come protagonista della politica
internazionale è un progetto piuttosto che una realtà. Avremmo voluto
vedere a Mosca, portatrice di un’unitaria proposta europea, Federica
Mogherini – e parliamo da europei, non da italiani.
La crisi europea
innescata da Vladimir Putin ha anche questo effetto: quello di fare
regredire le relazioni internazionali, rivelando tutta la fragilità
degli scenari ottimistici sia della globalizzazione che
dell’integrazione europea, al loro livello più basico e tradizionale
(qualcuno dirà più autentico), della diplomazia dei singoli Stati, del
territorio, dell’uso della forza, del nazionalismo.
Non sarà facile nello stesso tempo fermare Putin e contrastare questa regressione sistemica.
La più pericolosa delle crisi
di Lucio Caracciolo Repubblica 7.2.15
LA
GUERRA in Ucraina è la crisi più pericolosa vissuta in Europa dopo la
fine della Seconda guerra mondiale. Ci sono certo stati conflitti più
sanguinosi, come quelli balcanici negli anni Novanta, ma nessuno ha mai
pensato che potessero provocare uno scontro globale.
CI sono state
tensioni molto gravi durante gli anni del confronto Est-Ovest, a partire
dal blocco di Berlino nel 1948, ma l’equilibrio del terrore e la
capacità dei leader statunitensi e sovietici di interpretare le mosse
altrui hanno evitato lo scoppio di una “guerra calda” nel cuore del
nostro continente. Oggi nell’Ucraina orientale, a ridosso del confine
russo, si combatte un conflitto indiretto fra Washington e Mosca che
divide noi europei mentre mette in questione la pace nel Vecchio
Continente. E non solo.
Perché oggi, a differenza degli anni della
guerra fredda, russi e americani non si capiscono. Né vogliono capirsi. I
“telefoni rossi” non squillano più, o suonano a vuoto. Sarà per
l’autismo di Vladimir Putin, che alcuni scienziati noleggiati dal
Pentagono vorrebbero affetto da sindrome di Asperger in seguito a un
danno neurologico sofferto nel grembo della madre. Sarà per
l’indecisionismo di Obama, attribuito da inventivi analisti russi agli
effetti della malaria di cui avrebbero sofferto i suoi ascendenti dal
ramo paterno, ma che l’ultima dottrina di sicurezza nazionale Usa
nobilita, battezzandola “pazienza strategica”. Sarà infine per
l’asimmetria delle percezioni reciproche — in Ucraina i russi sentono di
giocarsi la vita o la morte della patria, mentre per gli americani è
una partita periferica, ingaggiata con un’inaffidabile potenza regionale
che s’illudeva di tornare globale. Fatto è che nelle cancellerie
europee è scattato l’allarme rosso: bisogna fermare i combattimenti
prima che sfuggano completamente di mano e producano la guerra fra Nato e
Russia. Di cui l’Europa sarebbe il primario campo di battaglia.
Si
spiega così la missione congiunta di Angela Merkel e François Hollande a
Kiev e a Mosca. Un inedito: mai la scoppiatissima coppia franco-tedesca
si era spesa al massimo livello per salvare la pace in Europa. Berlino e
Parigi, come altre capitali europee, fra cui Roma, sono infatti giunte
alla conclusione che Mosca e Washington non possono o non vogliono
sedare il conflitto. Anzi, potrebbero inasprirlo, innescando
un’escalation semiautomatica dalle conseguenze imprevedibili. I
precedenti non sono incoraggianti. Ricordiamo la fallimentare missione a
Kiev dei ministri degli Esteri di Polonia, Germania e Francia, nei
giorni caldi di Majdan, che produsse un compromesso con Janukovich
rovesciato poche ore dopo dalle milizie armate che avevano preso la
guida del movimento popolare di protesta contro quel regime
ipercorrotto. La speranza è che stavolta, con la cancelliera e il
presidente che ci mettono la faccia, l’esito sia più concreto, meno
provvisorio.
Merkel e Hollande sanno bene che la pace subito non è
possibile. Il probabile compromesso strategico che la sorreggerebbe
appare oggi indigeribile agli Stati Uniti e alla lega nordico-baltica
(Svezia, Danimarca, Polonia, Estonia, Lettonia, Olanda, Norvegia e
Lituania), che nella litigiosa famiglia euroatlantica esibisce il viso
dell’arme contro Mosca. Esso infatti implicherebbe lo scambio fra
l’integrità territoriale dell’Ucraina — salvo la Crimea che (quasi)
nessuno si sogna più di riportare sotto Kiev anche se (quasi) nessuno
intende ammetterlo formalmente — e la rinuncia dell’ex repubblica
sovietica a entrare nella Nato. Al Donbas più o meno russofilo e ad
altre regioni orientali sarebbe concessa una robusta autonomia. Inoltre,
l’Ucraina potrebbe aprirsi contemporaneamente allo spazio economico
comunitario e a quello eurasiatico, egemonizzato da Mosca.
Questa
opzione rimane sul tavolo, ma non per ora. L’obiettivo immediato di
Merkel e Hollande è di congelare il conflitto prima che l’Ucraina
collassi. Gli ultimi mesi hanno confermato infatti l’inconsistenza delle
Forze armate ucraine, male armate, peggio addestrate, demoralizzate e
soprattutto infiltrate dai russi. L’afflusso di contractors occidentali e
di volontari di varia provenienza — tra cui diversi neonazisti — non le
ha rese molto più efficienti. Mentre il duo franco-tedesco negoziava
ieri sera al Cremlino con Putin, la morsa si stringeva attorno alle
unità fedeli (si fa per dire) a Kiev accerchiate a Debaltseve dalle
milizie delle repubblichette ribelli e da una legione straniera
filorussa (che conta qualche neofascista nostrano), con il decisivo
supporto di migliaia di militari (gli “uomini verdi” senza mostrine) e
volontari russi, sotto la regia della Quarantanovesima armata di stanza a
Stavropol’.
Il caos militare corrisponde al fragile equilibrio
politico di Kiev, dove gli oligarchi continuano a spolpare l’osso di un
paese in pieno fervore patriottico, devastato da una crisi economica
incontrollabile anche dai ministri di importazione — l’americana Natalie
Jaresko alle Finanze e il lituano Aivaras Abromavièius all’Economia.
Se
il cessate-il-fuoco cui mirano Merkel e Hollande si svelasse utopia, si
rafforzerebbero negli Stati Uniti i fautori dell’escalation. L’idea è
di armare gli ucraini perché possano respingere i russi. Ipotesi molto
ottimistica, stanti i rapporti di forza. Senza considerare che parte
delle forniture finirebbe agli stessi russi, incistati nei comandi
militari di Kiev. Mosca poi interpreterebbe questa mossa come una
indiretta dichiarazione di guerra. Con possibili conseguenze dirette, se
ad esempio qualche “addestratore” americano finisse nel mirino russo o
viceversa.
Per questo Berlino e Parigi, ma anche Londra e Roma, si
sono espresse nettamente contro il riarmo occidentale dell’Ucraina.
Obama, prima di decidere, attende di parlarne con la cancelliera Merkel,
ospite lunedì della Casa Bianca. «Ho molta considerazione per
l’opinione di Angela», ha lasciato filtrare il presidente. Un modo per
annunciare la rinuncia a fornire «armi difensive» all’Ucraina? Al
contrario, un depistaggio? O solo il riflesso della sua proverbiale
refrattarietà a schierarsi? Lo sapremo presto.
Il super esercito dello zar una minaccia per l’Occidente
L’incubo della guerra che spaventa l’Europa
di Vittorio Zucconi Repubblica 7.2.15
A
SETTANT’ANNI esatti dalla spallata definitiva dell’Armata Rossa sul
Fronte Orientale nell’inverno del 1945, la guerra torna a bussare alle
porte della nostra Casa Europa e ci costringe a guardarla di nuovo negli
occhi. Mentre migliaia di innocenti, e di meno innocenti — le cifre
variano fra i due e i cinquemila — muoiono lungo le rive di fiumi come
il Don che costringono la memoria a viaggi a ritroso in ricordi
strazianti, l’eterno bivio tra escalation e diplomazia si ripresenta
implacabile davanti alle cancellerie occidentali. Le armi, e i riarmi,
le mosse sulla scacchiera del Risiko si succedono, proprio nei luoghi
che hanno risucchiato il nostro continente, i nostri nonni, le nostre
nazioni nel vortice, dal Baltico al Mar Nero, dalla Vistola al Caucaso e
che erano sembrati per sempre congelati nell’iceberg di una Guerra
Fredda ormai disciolta in alluvione.
Siamo ben oltre i massacri
balcanici, le stragi etniche eruttate dal vulcano Jugoslavia
scoperchiato dalla morte di Tito, geograficamente vicine, ma
strategicamente limitate ai regolamenti di conti fra popolazioni
circoscritte, senza un vero rischio di scontro diretto di un’America a
lungo indifferente e di una Russia esausta dopo lo sfascio della Unione
Sovietica. L’inquietudine che producono le immagini e i racconti di un
altro classico di ogni alba di guerra, le reciproche, sdegnate
indimostrabili accuse di atrocità e di provocazioni moltiplicate nella
grande galleria del vento della Rete, scaturisce dai nomi prima che dai
fatti, ancora limitati. Ci volano addosso più dai ricordi che dalla
cronaca. L’Ucraina, nella memoria storica dell’Europa evoca paura, è
purtroppo sinonimo di tragedie di grandi cieli e orizzonti di neve
macchiati dal sangue anche italiano, disseminati di rottami di panzer,
di fosse comuni scavate dalle stesse vittime che vi si sarebbero dovute
gettare dentro, e da quella piuma radioattiva che proprio da quelle
terre cominciò a soffiare verso l’Ovest e il Sud.
Creano ansia, e non
rassicurazione, quei leader e governanti europei ed americani che
sbattacchiano, senza un’apparente strategia concordata e comune, da una
capitale all’altra, in bilico fra le sirene del riarmo e la sindrome
dell’ appeasement, dell’accondiscendenza verso il neo bullismo di quel
Vladimir Putin che proprio oggi un rapporto psichiatrico segreto del
Pentagono e pubblicato grazie al Freedom of Information Act, gli
americani sospettano di “autismo”, in senso clinico, non metaforico. I
leader delle nazioni europee e degli Stati Uniti oscilla- no
nell’ipotesi di dotare le forze del governo Poroshenko, l’unico
riconosciuto a Kiev, di «armi offensive letali», come le ha definite
Barack Obama, di armamenti veri, come tank, artiglierie, velivoli,
pungolato dagli immarcescibili falchi repubblicani in Parlamento, come
il vecchio nemico, il senatore McCain. O tentano, come Merkel e Holland
di uscire dalla trappola nella quale loro stessi si sono ficcati con
sanzioni che provocano tanti danni a chi le subisce quanti a chi le
infligge.
Spaventa, insieme con quella “drole de guerre”, quella
guerra ancora non guerra fra avversari che si uccidono senza
riconoscersi e qualificarsi, nascosti sotto false bandiere, che sono
insieme burattini e burattinai nella rappresentazione tragica, la
completa incertezza sul copione e sulle intenzioni. L’Ucraina,
l’incolpevole crogiolo che ha consumato, e non solo nel XX secolo, tante
vite appare, come già la Serbia nel 1914, come la Danzica nel 1939,
come le Torri Gemelle del 2001, più l’occasione che la causa profonda
per impugnare le spade. Nessuno dice di volere la guerra a tre ore di
volo da Milano, da Parigi, da Berlino o a un’ora da Mosca ma la macchina
degli arsenali ha ricominciato a macinare.
La Nato, qualunque cosa
significhi ormai questa alleanza alla ricerca di un nemico contro il
quale giustificarsi, prepara nuove «forse di intervento rapido»,
certamente non per intervenire in Portogallo o in Sardegna, ma pensa
all’Ucraina e Mosca replica subito con la promessa di dare «risposte
adeguate», formula che non vuol dire nulla, ma può nascondere il peggio.
Sempre la Nato considera seriamente ipotesi di allargamento delle
proprie frontiere e quindi delle proprie garanzie militari alle
repubbliche Baltiche, terrorizzate dal neo espansionismo russo. La
Polonia, secolare vaso di coccio fra l’acciaio dei vicini, invoca armi e
rapporti più stretti. Putin, nel panico di una crisi economica e
finanziaria che comincia a rasentare il crac, sente avvicinarsi a
pressione dell’Europa e della nemica di sempre, la Germani.
Ha quindi
disperato bisogno di riattizzare il patriottismo e il nazionalismo del
proprio “narodny”, del popolo russo. Mentre l’inflazione cresce, la
liquidità scarseggia e soltanto il prezzo dello vodka, il grande
anestetico popolare, resta invariato, dopo tanta retorica contro
l’alcolismo. Ma i rubli per riarmare l’Armata Rossa, devastata da
decenni di tagli e di trascuratezza si troveranno e nuovi mezzi stanno
arrivando alle truppe, compresa una versione ammodernata e ancora più
micidiale dell’immortale AK47, oggi AK47S. Si sente parlare di 738
miliardi di dollari investiti in riarmo russo nei prossimi 10 anni e se è
vero che le armi non uccidono da sole, è ancora più vero che tutte le
nuove armi introdotte negli arsenali sono state prima o poi adoperate,
la bomba atomica inclusa.
Un giorno, speriamo vicino, guarderemo con
incredulità a questa nuova mini marcia della follia, cominciata attorno a
territori che dovrebbero apparire insignificanti nel nuovo ordine
mondiale. Non ci parrà possibile che, 70 anni dopo la fine della più
mortifera guerra nella storia dell’umanità, ancora si possa pensare di
morire per Donetsk, come gli alpini dell’Armir mussoliniana e
riconoscere che stiamo soltanto dando parole alle paure. Poi uno si
ricorda che la guerra nel Pacifico scoppiò attorno all’occupazione
giapponese della Manciuria e alle sanzioni imposte degli americani e
allora ha, appunto, paura.
I rischi della strategia morbida
di Vittorio Emanuele Parsi Il Sole 7.2.15
La
situazione in Ucraina si fa sempre più drammatica e rischia di andare
totalmente fuori controllo. Sul campo le forze regolari ucraine si
direbbe stiano sfogando la propria frustrazione per non riuscire ad aver
ragione dei ribelli colpendo in maniera indiscriminata la popolazione
civile dell’autoproclamata repubblica secessionista del Donetsk.
Nelle
settimane precedenti i bombardamenti dei giorni scorsi, l’esercito di
Kiev aveva infatti subito pesanti perdite, inflitte dai separatisti
filorussi, pesantemente armati e abbondantemente riforniti da Mosca. Al
gap nelle dotazioni militari Washington sembra intenzionata a cercare di
porre rimedio, con una decisione che sta provocando divisioni dentro la
Nato e tra la Nato e la Ue.
Gli americani appaiono decisamente
orientati a una politica di balancing nei confronti di Mosca, anche a
costo di un’escalation che ritengono comunque sarebbe limitata e di
poter controllare. Gli europei temono che un’escalation in Ucraina possa
portare a un pericoloso confronto con la Russia, e di fatto lasciano
all’America l’onere di dissuadere il Cremlino dal perseguire il
tentativo di smembrare ulteriormente l’Ucraina e di modificare i confini
emersi dalla sconfitta patita nella Guerra Fredda. È la politica dello
“scaricabarile” (buckpassing), tante volte vista all’opera nel corso
della storia europea.
Ma che cosa è più “giusto”, o meglio più
“appropriato” fare, in una situazione come questa? Mostrare i muscoli e
far capire a chi, per primo, ha impiegato e continua a impiegare in
maniera e crescente la forza che questa scelta non paga? Oppure una
strategia che preveda il graduale, lento, progressivo inasprimento di
sanzioni economico-politiche accompagnato però dall’assenza di ogni
sostegno militare all’Ucraina? La risposta, evidentemente, non è così
univoca come i due partiti contrapposti tendono a rappresentare e,
d'altronde, la storia stessa ci ricorda che lo “scaricabarile” è stata
la scelta di gran lunga preferita nel corso dei secoli dalle potenze
poste di fronte all’aggressione di un “terzo” rispetto al più costoso e
rischioso bilanciamento.
Va detto che almeno sulla natura aggressiva
della politica russa l’accordo tra i partner occidentali è
sostanzialmente unanime. Proprio nelle ultime ore, infatti, la Nato ha
deciso di più che raddoppiare le sue truppe destinate alla difesa del
centro-est Europa, portando da 13mila a 30mila il dispositivo di
intervento rapido “Punta di lancia”, creato appena lo scorso settembre.
L’intenzione è chiare e duplice: dissuadere Mosca da qualunque idea di
poter fomentare impunemente “ribellioni spontanee” di altre minoranze
russe presenti nelle repubbliche baltiche (ex sovietiche) e rassicurare i
Paesi entrati nell’Alleanza dopo il 1989 che la garanzia di difesa
reciproca si applica nei loro confronti esattamente come verso i “membri
storici” della Nato.
Questo passo potrebbe bastare a riaffermare le
capacità di deterrenza della Nato, ma è difficile che consegua risultati
significativi verso la risoluzione o anche solo la stabilizzazione
della crisi ucraina. Rinforzare le frontiere esterne dell’Alleanza è un
conto, proiettare un’influenza stabilizzatrice verso l’esterno è cosa
ben diversa. In particolare, non si capisce perché Mosca, a fronte di
questa sola decisione della Nato, dovrebbe sospendere la sua guerra per
proxi nei confronti dell’Ucraina.
Da un lato, il peso delle sanzioni,
unito al crollo del prezzo del petrolio e alla flessione di quello del
gas naturale (che dovrebbe accentuarsi nel corso dell’anno) sta
penalizzando fortemente Mosca, che ora non ha più “il tempo dalla sua
parte”, come era vero ancora solo meno di un anno fa. Ora e nel prossimo
futuro Mosca non può più ripianare il costo delle sanzioni con i
proventi energetici. Si tratta di un vincolo non da poco per le
ambiziose (e avventuristiche) politiche strategiche di Putin. Mosca
potrebbe così già non essere più in grado di sfidare l’Occidente se
quest’ultimo mostrasse una fermezza maggiore, a condizione che ciò
avvenisse subito, fino a quando il petrolio naviga intorno ai 50 dollari
al barile. D’altra parte, messo con le spalle al muro, Putin potrebbe
scegliere un’escalation (controllata, almeno nelle intenzioni). Mentre,
viceversa, una politica accomodante potrebbe concedere a Putin il tempo
di cui ha bisogno, quello necessario a far sì che il prezzo del petrolio
torni a salire, consentendogli così di portare a termine lo
smembramento dell'Ucraina. Per ora...
La scelta occidentale non è
quindi per nulla semplice o scontata e comunque va apprezzata la buona
coesione fin qui mostrata nei confronti di Mosca soprattutto dalla
Germania della Cancelliera Merkel, che ha significativamente modificato
la sua posizione verso la Russia. È soprattutto la previsione del
sentiero che imboccherà nei prossimi anni la Russia (e delle risorse che
avrà a disposizione) che dovrebbe influenzare la decisione finale degli
alleati: paradossalmente, proprio di fronte a una Russia destinata a
consolidarsi stabilmente tra i protagonisti della politica
internazionale qualunque atteggiamento accomodante equivarrebbe a un
suicidio politico per l’Europa (innanzitutto) e per l’Occidente.
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