sabato 7 febbraio 2015

Loro Tsipras e Varoufakis, noi Pigliore e l'Imbroglione Pugliese...


La faccenda greca dovrebbe ormai aver reso chiaro alla legione di nostalgici della lira e del sesterzio che senza la costruzione di un percorso alternativo - ovvero senza ridefinire preventivamente e con un certo anticipo le alleanze economiche, finanziarie, politiche e militari - in regime di economia capitalistica sono cazzi amari. Soprattutto se i rapporti di forza interni sono già squilibrati di loro.
Solo pensare a quanto sia complicato tutto ciò dà l'idea di cosa significhi realmente "cambiamento" o "invertire la tendenza", al di là del consenso volatile della sfera politica postmoderna, dei conigli populisti che saltano dal cilindro, degli slogan consolatori che ci scaldano il cuore e delle illusioni di chi pensa che la produzione sia amore & decrescita [SGA].

La sfida sarà Migliore-Cozzolino Renzi prova la prima rupture
di Jacopo Iacoboni La Stampa 7.2.15

Sarà il caso di portarsi l’elmetto. Le primarie in Campania - rinviate già due volte, ora dovrebbero tenersi il 22 febbraio - si apprestano a celebrare una specie di Armageddon per la tenuta del partito locale, e una cartina di tornasole per la volontà di Matteo Renzi di cambiarlo o no. La sfida, salvo cataclismi, sarà a questo punto tra Andrea Cozzolino, grande signore del tesseramento, e Gennaro Migliore, la carta neorenziana per provare a rompere i potentati del partito in Campania. De Luca è stato appena dichiarato decaduto dalla carica di sindaco di Salerno per via della condanna a un anno per abuso d’ufficio: presenterà ricorso ma, sostanzialmente, solo per poter trattare meglio con Luca Lotti il suo ritiro dalle primarie. Migliore ha un battesimo del fuoco tremendo; ma anche Renzi, che per la prima volta sfida assetti di potere consolidato Pd nei territori: le correnti e sottocorrenti napoletane non pare aspettino a braccia aperte. 


Per Tsipras dopo la retorica un tuffo nella realtà

Il tentativo è evitare che Atene ascolti le sirene russe di Vladimir Putin
di Vittorio Da Rold Il Sole 7.2.15

Dopo un primo momento di simpatia che il nuovo governo greco guidato da Alexis Tsipras aveva saputo raccogliere in Europa e nel mondo, si sta rapidamente passando a un senso di diffidenza e crescente isolamento. Le richieste troppo radicali, che passano da un taglio (haircut) del debito al suo aggancio alla crescita, e le posizioni intransigenti sulla fine dell’esperienza della troika e la richiesta di una revisione radicale del piano di crediti, stanno ponendo in un angolo negoziale Atene.
Siamo arrivati a una vigilia di partita all’Eurogruppo straordinario di mercoledì con «la Grecia contro tutti gli altri 18 partner dell’Eurozona», ha detto un funzionario europeo sinceramente preoccupato della piega che sta prendendo la trattativa.
Certo, non sono piaciute, nelle capitali europee le affermazioni programmatiche del nuovo governo ellenico di voler alzare il salario minimo, riassumere i dipendenti pubblici licenziati, bloccare le privatizzazioni senza mai un accenno concreto su dove trovare i soldi per queste politiche. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, lo ha detto chiaro al meeting di Berlino, quando ha ricordato al ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, che non si possono fare concessioni con i soldi degli altri.
Atene naturalmente è libera di decidere le sue politiche, ma mantenendo i conti in attivo, ripagando i debiti contratti e varando le riforme promesse.
Dopo gli annunci ideologici per Tispras è giunto il tempo del pragmatismo. Il suo governo viaggia su uno stretto sentiero parlamentare: da un lato deve cercare di ottenere qualche concessione dai creditori internazionali rispetto al precedente Memorandum, sul fronte interno deve dare il segnale agli strati più sofferenti della popolazione che l’austerità è stata mitigata. Se non riesce in questa acrobazia il suo destino politico è segnato e le prossime manifestazioni di piazza, magari guidate dall’ultra destra di Alba dorata non saranno pacifiche.
Non a caso ieri l’ambasciatore Usa ad Atene, David Pearce, ha invitato Syriza alla «collaborazione con i colleghi europei e l’Fmi». Washington, dopo le parole di sostegno al governo greco dette dal presidente americano Barack Obama, secondo cui «le nazioni non possono essere spremute come limoni nel mezzo di una depressione», ha spedito ad Atene il vicesegretario aggiunto al Tesoro Usa responsabile degli Affari europei, Daleep Singh, ex banchiere per i mercati emergenti di Goldman Sachs.
Il tentativo è evitare che Atene ascolti le sirene russe di Vladimir Putin.



Se Pechino si tira fuori dal dossier su Atene
di Mara Monti Il Sole 7.2.15

«La Cina non è interessata a mettere in discussione le relazioni con l’Europa per correre in aiuto della Grecia, un Paese poco interessante dal punto di vista delle risorse naturali e degli investimenti privati». Richard Miratsky, senior director di Dagon Europe analista dell'agenzia di rating cinese ed esperto di investimenti strategici non è meravigliato per quanto sta succedendo in Europa sulla Grecia: «Il peso di Atene in Europa non è particolarmente incisivo, il settore industriale è poco vocato alle esportazioni e quello tecnologico è poco sviluppato. Il nuovo governo sta giocando le sue carte, ma l'unica possibilità per uscire dalla crisi è risolvere i problemi in seno all'Europa e alla Troika». Nei giorni scorsi si era parlato di un intervento di Mosca in soccorso di Atene, sui cui si erano inserite le parole del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama a sostegno di una risoluzione di compromesso, affermazioni che in molti hanno letto come motivate dal rischio di non lasciare Atene tra le braccia di Mosca. Un'ipotesi smentita dallo stesso ministro delle finanze greco Yannis Varoufakis: «Noi non chiederemo mai assistenza finanziaria a Mosca». Miratsky ieri al convegno Assiom Forex, dà un’altra spiegazione: «In questo momento un intervento di Mosca è improbabile: mentre la Cina che non ha investimenti diretti in Grecia, avrebbe i soldi per intervenire, ma non lo farà, la Russia anche se lo volesse non è in una posizione finanziaria per farlo. Quindi solo l’Europa può aiutare la Grecia».
Un aiuto della Cina ad altri paesi in gravi situazioni finanziarie non sarebbe una novità. È successo per l'Argentina dopo il secondo default della scorsa estate e per il Venezuela a un passo dalla bancarotta a causa delle ripercussioni del crollo del prezzo del petrolio: «In tutti questi casi il contesto era completamente diverso sia dal punto di vista geografico sia per l’interesse della Cina alle risorse naturali di questi Paesi», aggiunge Miratsky. Il ruolo della Cina non è stato irrilevante neppure durante la crisi del debito sovrano europeo del 2010: «In quel caso si voleva evitare un breack up dell'euro e Pechino intervenne acquistando titoli governativi dei paesi europei in crisi, anche dell’Italia. Nel caso della Grecia, invece, un’eventuale uscita dall’euro, ipotesi che ritengo improbabile, non avrebbe un grande impatto e comunque non metterebbe a rischio la moneta unica europea. Sia chiaro, l’Italia non è la Grecia –aggiunge l'analista - un eventuale piano di ristrutturazione del governo di Atene non è detto che funzioni, quindi ci sarebbe un'alta probabilità di perdere quanto investito». Oggi la Cina è il terzo investitore al mondo dopo gli Stati Uniti e il Giappone con 108 miliardi di dollari investiti nel 2013 al ritmo di crescita del 23% l'anno e un interesse oggi concentrato sui settori tecnologici: una virata rispetto al passato quando le risorse naturali erano in cima all'agenda. 



Non ripetiamo altri gravi errori. Adesso conviene salvare la Grecia
di Lucrezia Reichlin Corriere 7.2.15

Non c’è più molto tempo per salvare la Grecia: forse meno di una settimana. Se una soluzione non sarà trovata alla prossima riunione dell’Eurogruppo, Atene si ritroverà nel giro di pochi giorni a non poter ripagare il suo debito a scadenza. La posta in gioco è politica e economica. Ed è su entrambi i fronti che non bisognerà sottovalutare i rischi per l’Unione europea di una possibile uscita della Grecia dall’euro.
Le ragioni per lavorare e trovare un compromesso con il nuovo governo ellenico sono sia etiche sia pragmatiche. Per capirlo bisogna ripercorrere la storia recente.
Come conseguenza di una politica di bilancio irresponsabile del suo governo e dello shock globale del 2008, la Grecia è di fatto fallita nel 2010. All’epoca, l’Europa per la prima volta si trovò ad affrontare la crisi di un Paese dell’unione monetaria e decise di impedire la ristrutturazione del debito di Atene. La scelta, probabilmente giustificata, era dettata dal timore di contagio ad altri Paesi. Si perdettero due anni, costati molto cari ai greci — 10 punti percentuali di prodotto interno lordo, secondo le stime dell’economista francese Thomas Philippon. Nel 2012 si finì per cedere all’evidenza e si trattò una delle piu colossali ristrutturazioni di debito sovrano della storia: si trasferì gran parte dei costi dai creditori privati ai cittadini europei e la si accompagnò a un draconiano programma di austerità e riforme della Grecia monitorato dalla troika (Fondo monetario, Banca centrale europea e Unione europea).
Da allora la Grecia ha perso il 25% del Pil e l’occupazione è caduta del 18%, eppure Atene resta schiacciata da un rapporto debito-Pil che veleggia verso il 180%. La cosiddetta deflazione interna, necessaria per l’aggiustamento, c’e’ stata, ma le riforme, in particolare quella del Fisco, non si sono viste. La Grecia è di nuovo di fatto fallita.
Ora un nuovo governo propone di ripensare la strategia. La richiesta, se si guarda oltre i messaggi a volte infantili, a volte irrealistici, spesso solo provocatori degli uomini di Tsipras, non è del tutto irragionevole. Per due ragioni. La prima morale. La Grecia sta pagando costi extra per non aver potuto ristrutturare nel 2010, strada che avrebbe comportato conseguenze minori per l’economia, come insegna l’esperienza di molti Paesi emergenti. È giusto che quel costo, benché sia una frazione di ciò che i greci dovranno pagare per ritrovare la sostenibilità, sia sostenuto da tutti i membri dell’Unione.
La seconda è economica. La combinazione di riforme e austerità in un Paese con istituzioni fragili e una classe politica discreditata e corrotta non può dare risultati: la vittoria di Syriza lo testimonia. Per questo, ora, la ricerca di un compromesso realistico tra creditori e debitori appare meno onerosa del pugno di ferro. Il pragmatismo deve imporsi sulla volontà di punizione.
Tuttavia, un accordo tra Grecia e Paesi creditori — mi riferisco agli altri partner dell’area euro — deve essere basato su principi generali, senza i quali l’Unione non può funzionare.
Il governo di Atene non vuole un nuovo programma monitorato dalla troika. Chiede di costruire con i membri dell’eurozona un piano di riforme capace di aggredire le cause del fallimento dei precedenti esecutivi, in particolare su evasione fiscale e riforma del sistema contributivo. In sostanza un contratto che imponga obiettivi quantificabili e monitorabili, lasciando ad Atene la sovranità sulla via per raggiungerli. Per arrivare a formulare questo programma il nuovo governo greco chiede tre mesi e un finanziamento ponte che tenga il Paese in vita fino al raggiungimento dell’accordo. La Bce ha comprensibilmente detto di non poter fornire questo finanziamento. Rimanda la palla ai governi: ed è giusto, perché questa decisione coinvolge i contribuenti dei Paesi dell’Unione, quindi i loro rappresentanti politici. La scelta non è neanche della Germania, anche se il punto di vista del maggiore creditore di Atene resta determinante.
L’iniziativa del negoziato deve essere presa dall’Eurogruppo. Solo in quella sede si capirà se tra le prime, irrealistiche richieste di Atene e la durezza della posizione che pare emergere dai primi incontri di questa settimana, ci sia uno spazio per un accordo. Il percorso è difficile. Parte del programma di Tsipras (la riassunzione dei dipendenti statali per esempio) è inaccettabile. Ma è difficile anche per la spirale politica che comporta: ogni vittoria del nuovo governo di Atene si risolve, infatti, in un aiuto ai partiti anti-austerità oggi all’opposizione nel resto d’Europa.
Ma cosa succederebbe se la strada del negoziato non fosse battuta con convinzione e non si raggiungesse un accordo? Non ho dubbi: sarebbe una sconfitta politica ed economica per l’Europa. Come ha scritto Martin Wolf sul Financial Times , la nostra Unione non è un impero ma un insieme di democrazie; per non fallirne il test fondamentale si deve trattare. Il percorso seguito finora non ha funzionato e ci sono ampi margini per un compromesso.
Ma c’è anche una ragione economica. Per i cittadini dell’Unione il costo di un’uscita della Grecia è piu alto di quello di un allentamento delle condizioni di rimborso del debito. Se Atene tornasse alla dracma, diventeremmo di nuovo un insieme di Paesi legati da un sistema di tassi di cambio fissi da cui un Paese può uscire in ogni momento. Tornerebbe anche per l’Italia quel cosiddetto «rischio di convertibilità» da cui Draghi ci mise al riparo nel 2012 con l’affermazione che l’euro sarebbe stato difeso ad ogni costo. Se la Grecia uscisse dalla moneta unica, infatti, perché escludere analogo destino per un altro Paese? La Commissione ha appena ricordato che la ripresa è fragile e la Grecia non è certo l’unico Paese potenzialmente a rischio. L’esperienza degli Anni 90 ci insegna che i sistemi a cambi fissi sono instabili, tanto da aver determinato l’esigenza della moneta unica. Tornare indietro sarebbe un errore che pagheremmo molto caro. 


La partita greca I ritardi che l’Europa non può più permettersi
di Alberto Quadrio Curzio Il Sole 7.2.15

L’Eurozona si trova nuovamente di fronte al caso greco da cui partì agli inizi del 2010 la crisi dei titoli sovrani dei Paesi periferici della Uem. L’Eurozona è adesso però molto più forte nel controllo delle crisi finanziarie e bancarie ma deve con urgenza rafforzare l’economia reale. La strategia del rigore fiscale di ispirazione germanica e quella dei salvataggi di debiti sovrani non vedranno questa volta ulteriori interventi integrativi o correttivi (o salvifici) della Bce di Draghi che ha da poco varato il Qe. Francoforte ha, infatti, deciso di bloccare l’erogazione di liquidità alle banche greche se entro la scadenza da tempo fissata al 28 febbraio la Grecia non troverà un accordo con la troika (Fmi, Bce, Commissione europea) che vigila sulla gestione e il rimborso dei prestiti e sulle riforme strutturali. La troika ha chiesto da tempo alla Grecia ulteriori riforme strutturali già contestate dal governo Samaras mentre il nuovo governo greco ha addirittura minacciato di ripudiare la vigilanza della troika e ha ipotizzato dei “Varoufakis-bond” per la ristrutturazione, il consolidamento e l’indicizzazione del debito greco.
Cruciali saranno perciò le quattro riunioni dell’Eurogruppo, dell’Ecofin e del Consiglio europeo che si terranno nei prossimi 15 giorni ma che non crediamo daranno scorciatoie alla Grecia salvo qualche attenuazione nel riaggiustamento. Lo si è capito dalla cautela dei governi in seguito al tour europeo del duo Tsipras-Varoufakis e lo ha chiarito anche un recente stringato comunicato del presidente del Consiglio Renzi che ha enfatizzato la necessità di decisioni condivise, del rispetto dei patti, del rilancio della crescita. Questa per noi è la strada maestra per superare la crisi greca.
Eurozona: progressi e carenze. Non vanno però scardinati i progressi fatti nell’Eurozona durante la crisi, anche perché quei costi li abbiamo già pagati. Da sempre sosteniamo che puntare solo sul rigore fiscale era sbagliato ma che molti Paesi dovevano fare le riforme strutturali richieste dalle istituzioni europee (sia pure dentro un complesso sistema di adempimenti: two pack, six pack, semestre europeo eccetera).
Riforme straordinarie addizionali sono state chieste a Grecia, Irlanda, Portogallo e, in minor misura, Spagna («Gips») in quanto Paesi fruitori di grandi prestiti anche dai Fondi Europei Efsf e Esm. La Bce ha esercitato, a sua volta, un ruolo cruciale per contrastare l’aggressività dei mercati sui titoli di stato “periferici” e per garantire la liquidità introducendo una serie di innovazioni che l’hanno molto avvicinata alla Fed. Ha inoltre contribuito in modo determinante al varo della Unione bancaria. Queste sono state innovazioni importanti ma due carenze sono state gravi e da superare.
La prima sono le difficoltà e le lentezze decisionali della Uem dentro la Ue. Per superale bisogna accelerare l’attuazione del progetto “Verso un’autentica Unione economica e monetaria” (elaborato dei quattro presidenti di Istituzioni europee ) e dare all’Eurozona una capacità di Governo molto maggiore. Vanno anche riviste le condizioni per l’accesso alla stessa perché non si ripetano casi greci.
La seconda, che dipende in parte dalla prima, è la mancanza di una vera politica per investimenti che sostenessero crescita e occupazione ma anche innovazione e competitività. Gli stessi potevano essere promossi o autorizzando l’applicazione della “regola aurea” dello scorporo delle spese per investimenti dai vincoli di bilancio dei singoli stati e/o varando gli “eurobond” o gli “eurounionbond” (magari con garanzie reali come proposto da Prodi e Quadrio Curzio nel 2011) che non hanno nulla a che fare con i Varoufakis-bond.
Su queste linee di intervento qualcosa si sta adesso muovendo sia con la Comunicazione della Commissione europea del gennaio che evidenzia flessibilità nell’applicazione del patto di stabilità e crescita sia con il piano Juncker per gli investimenti sia con il Qe di Draghi per quel 20% di rischio solidale sui titoli dei debiti pubblici degli euro-stati. Qui che bisogna insistere per puntare sulla crescita. Gli interventi per i G.I.P.S. Bisogna anche evitare di considerare la Grecia come un caso unico. Il che non sarebbe equo verso altri Paesi. Infatti anche Irlanda e Portogallo sono stati assistiti e finanziati dal Fmi, dalla Bce e dai Fondi europei (Efsf e Esm) e quindi assoggettati a riforme strutturali straordinarie e a programmi di rientro dai prestiti sotto il controllo dalla troika (Fmi, Bce, Commissione europea). La Spagna ha invece fruito solo del sostegno finanziario e del controllo europeo per ristrutturazione delle banche. L’Irlanda è entrata nel programma nel novembre 2010 e l’ha concluso nel dicembre 2013. Nel 2014 è cresciuta del 4,8% (con un previsionale 2015 al 3,6%) con una disoccupazione all’11,1% prevista in calo. Il Portogallo è entrato nel maggio 2011 e l’ha concluso nel maggio 2014. Nel 2014 è cresciuto dell’1% (con un previsionale 2015 all’1,6%) con una disoccupazione del 14,2% prevista in calo. La Spagna è entrata in un programma dello Esm nel luglio 2012 e l’ha concluso nel dicembre 2013. Nel 2014 è cresciuta dell’1,4% (con un previsionale 2015 al 2,3%) e con una disoccupazione al 24,3% in calo.
La Grecia è entrata nel programma di assistenza finanziaria della troika nel maggio del 2010 e ha avuto varie tornate di aggiustamento del programma che tuttavia è ben lungi dal concludersi. Nella crisi la Grecia ha perso il 25% del suo Pil e quindi non bastano crescite all’1% (quella del 2014) e del 2,5% (prevista nel 2015) per recuperare il crollo. La Grecia, oltre a proseguire con le riforme strutturali per la crescita, dovrebbe perciò essere sostenuta con un programma di investimenti infrastrutturali finanziati e governati in regime commissariale dalle istituzioni europee. Di questo dovrebbe interessarsi il Governo greco senza esibizioni “sovraniste” in politica estera e senza revoche di privatizzazioni che sono invece importanti per portare investimenti esteri.
Una conclusione. Il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, nel recente incontro con il ministro greco Yanis Varoufakis, ha detto che le riforme strutturali in Grecia devono puntare a una crescita forte per creare occupazione, ridurre l’emergenza sociale, garantire la sostenibilità del debito greco. Ha anche ricordato che spetta all’Eurogruppo e all’Ecofin trovare, con solidarietà e responsabilità, le soluzioni comuni. È una posizione saggia e leale.


Tsipras, come prima più di prima 

Pavlos Nerantzis, il Manifesto SALONICCO, 6.2.2015 

La Gre­cia, come accade rara­mente nella sto­ria di ogni paese, sta pas­sando momenti unici di unità e lotta con­tro chi — nel resto dell’ Europa e sopra­tutto Ber­lino — crede si possa andare con­tro la volontà popo­lare, insi­stendo sull’applicazione di un piano di risa­na­mento sui­cida. La Gre­cia pro­pone al resto del vec­chio con­ti­nente di ritor­nare padrona del pro­prio destino. 
Lo slo­gan «non ci fac­ciamo ricat­tare. Non cediamo. Non abbiamo paura. Non arre­triamo. Vin­ciamo» sen­tito durante la mani­fe­sta­zione, orga­niz­zata gio­vedi scorso a tempo di record sui social net­work men­tre dalle capi­tali e dalle isti­tu­zioni euro­pee arri­va­vano noti­zie di «chiu­sura» nei con­fronti delle richie­ste del governo di Tsi­pras, rispec­chia in que­sto momento i sen­ti­menti della mag­gio­ranza dei greci: rab­bia per la man­canza di soli­da­rietà da parte dei part­ner euro­pei, deter­mi­na­zione per quanto potrebbe acca­dere. «Andremo fino in fondo» dice lo stesso ripete Tsi­pras, sot­to­li­neando che «la demo­cra­zia ha par­lato e nes­suno ha il diritto di non ascol­tare». Che non si tratti di una mossa sui­cida, odi una testar­dag­gine col­let­tiva, quanto piut­to­sto di un atteg­gia­mento con­sa­pe­vole dovuto alle con­se­guenze cata­stro­fi­che del pro­gramma «lacrime e san­gue» degli ultimi anni, lo si capi­sce par­lando con i greci. 
Rab­bia, deter­mi­na­zione e non solo, per­ché l’ euro­zona domi­nata da Ber­lino ha escluso la pos­si­bi­lità di affron­tare la que­stione del debito pub­blico, che non riguarda sol­tanto la Gre­cia, senza tener conto dell’ esito elet­to­rale e del fatto che la ricetta appli­cata dalla troika (Fmi, Ue, Bce) non ha avuto un risul­tato posi­tivo. I greci si ren­dono ormai conto che a Bru­xel­les e a Ber­lino al di là delle belle parole, i poli­tici non si inte­res­sano all’impoverimento di cen­ti­naia di migliaia di fami­glie gre­che, né della disoc­cu­pa­zione, della fame, del crollo del sistema sani­ta­rio, i sui­cidi e nem­meno per il fatto che il terzo par­tito al par­la­mento sia Chrysi Avghi (Alba Dorata), un par­tito nazi­sta cre­sciuto a causa della crisi. Per i diri­genti Ue — dicono i greci– con­tano i numeri. Ma anche quelli non vanno bene, visto che il debito aumenta e la reces­sione con­ti­nua, nono­stante le promesse. 
Il fatto che Ber­lino e i suoi stretti alleati in euro­zona in un modo sem­pre più cinico rifiu­tino anche l’eventualità di discu­tere un accordo-ponte pro­po­sto da Atene, togliendo in pra­tica al neo governo greco il tempo neces­sa­rio per orga­niz­zare e trat­tare in seguito il suo piano di risa­na­mento e di riforme, dimo­stra il panico e l’ obiet­tivo reale di Ankela Mer­kel: pie­gare la Gre­cia e Ale­xis Tsi­pras per­ché costi­tui­scono un peri­colo reale per il neo­li­be­ri­smo «mer­ke­liano» e la ger­ma­niz­za­zione dell’ Europa. Il governo di Ale­xis Tsi­pras a pochi giorni dalla riu­nione straor­di­na­ria dell’ Euro­gruppo e del ver­tice Ue a livello uffi­ciale rimane senza alleati, nono­stante la soli­da­rietà espressa da un sem­pre mag­gior numero di intel­let­tuali e sin­da­ca­li­sti da tutto il mondo– ma rac­co­glie oltre il 70% del soste­gno dell’elettorato e un numero sem­pre mag­giore di par­la­men­tari che si schie­rano a favore delle richie­ste del pre­mier greco. 
Depu­tati con­ser­va­tori, lasciando a parte la linea uffi­ciale del lea­der di Nea Dimo­kra­tia, Anto­nis Sama­ras, sem­pre più iso­lato, hanno espresso il loro soste­gno alle mosse del pre­mier, men­tre ieri il can­di­dato pre­si­dente del par­la­mento, Zoe Con­stan­to­pou­lou, è stata eletta rac­co­gliendo 235 su 298 voti, un numero record per la sto­ria par­la­men­tare del paese. A suo favore hanno votato i 149 par­la­men­tari di Syriza, i 76 di Nea Dimo­kra­tia, i 17 di To Potami, i 13 di Greci indi­pen­denti e i 13 del Pasok. Aste­nuti e con­trari sono stati i voti dei comu­ni­sti del Kke e dei nazi­sti di Alba Dorata. Con­stan­to­pou­lou, par­la­men­tare di Syriza, avvo­cato per i diritti umani e avver­sa­ria della cor­ru­zione, è il più gio­vane — è nata nel 1976– pre­si­dente del par­la­mento elle­nico e la seconda donna che assume tale carica dello Stato. Ieri c’é stata una riu­nione di Ale­xis Tsi­pras con lo staff dei mini­stri addetti alla pre­pa­ra­zione del piano di risa­na­mento, che sarà pre­sen­tato nel sum­mit del 16 feb­braio, men­tre il pre­mier greco si è incon­trato con l’ amba­scia­tore ame­ri­cano ad Atene e il sot­to­se­gre­ta­rio delle finanze statunitense. 
Nel gioco è entrato anche Vla­di­mir Putin che ha invi­tato Ale­xis Tsi­pras a visi­tare Mosca il 9 mag­gio per discu­tere dei rap­porti con l’ Ue e la que­stione dei gasdotti verso la Gre­cia. L’obiettivo di Atene — che sarà espresso nella riu­nione straor­di­na­ria dell’ Euro­gruppo — rimane sem­pre la rine­go­zia­zione di un pro­gramma eco­no­mico che garan­ti­sca la cre­scita senza l’austerity e l’ulteriore inde­bi­ta­mento del Paese a sca­pito sia dei greci sia dei part­ner europei. 
«Abbiamo un impe­gno con le regole dell’ Ue, ma l’ auste­rity e gli irrag­giun­gi­bili avanzi pri­mari non costi­tui­scono le regole isti­tu­tive dell’Ue» ha affer­mato ieri il pre­mier greco. «Dai nostri part­ner, però — ha aggiunto — pre­ten­diamo che rispet­tino la demo­cra­zia e la volontà popo­lare in Gre­cia e, soprat­tutto, la deci­sione del popolo greco di fer­mare il pro­se­gui­mento dell’errore in que­sto Paese». Domani, intanto, comin­cia il dibat­tito par­la­men­tare sulle dichia­ra­zioni pro­gram­ma­ti­che del governo che si coclu­derà a mez­za­notte di mar­tedì con il voto di fidu­cia al nuovo ese­cu­tivo. Per il giorno dopo, 11 feb­braio, men­tre a Bru­xel­les l’Eurogruppo discu­terà il caso greco, ad Atene, Salo­nicco e in altre città saranno orga­niz­zati dei raduni di soste­gno al governo greco. Pla­tia Syn­tag­ma­tos ad Atene, la piazza di fronte alla Torre bianca a Salo­nicco, le piazze cen­trali a Patrasso, Cha­nia, Volos, si riem­pi­ranno di migliaia di per­sone per ripe­tere la loro soli­da­rietà al dream-team di Tsipras.



Troika, un colpo di stato in bianco 

Alfonso Gianni, 6.2.2015 

Se si nutriva ancora qual­che dub­bio che l’Europa fosse più vit­tima delle pro­prie poli­ti­che che della crisi, gli acca­di­menti degli ultimi giorni hanno tolto ogni dub­bio. I mer­cati ave­vano assor­bito quasi con non­cha­lance il cam­bio di governo in Gre­cia; la Borsa di Atene aveva oscil­lato, ma riu­scendo sem­pre a ripren­dersi, fino a rag­giun­gere rialzi da record; il ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico che aveva pro­vo­cato un forte deflusso di capi­tali prima delle ele­zioni sem­brava un’arma spuntata. 
Ma appena si è arri­vati al dun­que è scat­tato il ricatto della Bce. Eppure le richie­ste del nuovo governo greco erano più che ragio­ne­voli. Né Tsi­pras né Varou­fa­kis chie­de­vano un taglio netto del debito, ma sola­mente moda­lità e tempi diversi per pagarlo senza con­ti­nuare a distrug­gere l’economia e la società greca, come ave­vano fatto i loro pre­de­ces­sori. Dichia­ra­zioni e docu­menti di eco­no­mi­sti a livello mon­diale, com­presi diversi premi Nobel, si rin­cor­rono per dimo­strare che le solu­zioni pro­po­ste dal governo greco sono per­fet­ta­mente appli­ca­bili, anzi le uni­che effi­caci se si vuole sal­vare l’Europa, che sarebbe tra­sci­nata nella vora­gine di un con­ta­gio dai con­fini impre­ve­di­bili se la Gre­cia dovesse fal­lire e uscire dall’euro. Per­fino il pen­siero main­stream – Finan­cial Times in testa — si dimo­strava più che possibilista. 
Può darsi, come anche Varou­fa­kis ha osser­vato, che la mossa di Dra­ghi serva per evi­den­ziare che la solu­zione è poli­tica e non tecnico-economica. Quindi ha but­tato la palla nel campo dell’imminente Euro­gruppo che si riu­nirà l’11 feb­braio. Il guaio è che la poli­tica euro­pea attuale è ancora peg­gio della ragione eco­no­mica. Basti leg­gere le dichia­ra­zioni di un Renzi, sdra­iato sul comu­ni­cato della Bce, o quelle di uno Schulz o di un Gabriel. 
Non è la prima volta, d’altro canto, che la social­de­mo­cra­zia tede­sca vota i «cre­diti di guerra». L’analogia non è troppo esa­ge­rata. Che spie­ga­zione tro­vare per un simile acca­ni­mento con­tro un paese il cui Pil non supera il 2% e il cui debito il 3% di quelli com­ples­sivi dell’eurozona? 
La ragione è duplice. 
Se passa la solu­zione greca appare chiaro che non esi­ste un’unica strada per abbat­tere il debito. Anzi ce n’è una alter­na­tiva con­cre­ta­mente pra­ti­ca­bile rispetto a quella del fiscal com­pact. Più effi­cace e assai meno deva­stante. Tale da pun­tare su un nuovo tipo di svi­luppo che valo­rizzi il lavoro, l’ambiente e la società, come appare dal pro­gramma di Salo­nicco su cui Syriza ha costruito e vinto la sua cam­pa­gna elet­to­rale. Sarebbe una scon­fitta sto­rica per il neo­li­be­ri­smo europeo. 
Il secondo motivo riguarda gli assetti poli­tico isti­tu­zio­nali della Ue. Sap­piamo che i greci hanno giu­sta­mente rifiu­tato l’intervento della Troika. Ma è pur vero che per­fino Junc­ker ha dichia­rato che quest’ultima ha fatto il suo tempo. C’è allora qual­cosa di più impor­tante in gioco che la soprav­vi­venza di que­sto o quell’organismo. Finora la Ue attra­verso gli stru­menti della sua gover­nance a-democratica aveva messo il naso nelle poli­ti­che interne di ogni paese, in qual­che caso det­tan­done per filo e per segno le scelte da fare. Così è acca­duto nel caso ita­liano con la famosa let­tera della Bce del 5 ago­sto del 2011. Dove non era arri­vato Ber­lu­sconi ave­vano prov­ve­duto Monti e ora Renzi a finire i com­piti a casa. Ma si trat­tava pur sem­pre di un inter­vento su governi amici, che si fon­da­vano su mag­gio­ranze che ave­vano espli­ci­tato la loro pre­ven­tiva sot­to­mis­sione alla Troika. In Gre­cia siamo di fronte al ten­ta­tivo di impe­dire che la volontà popo­lare espres­sasi nelle ele­zioni in modo abbon­dante e ine­qui­vo­ca­bile possa tro­vare imple­men­ta­zione per­ché con­tra­ria alle attuali scelte della Ue. Qual­cosa che si avvi­cina a un colpo di stato in bianco (per ora). I neo­na­zi­sti di Alba Dorata ave­vano dichia­rato che Syriza avrebbe fal­lito e dopo sarebbe toc­cato a loro governare. 
E’ que­sto che le medio­cri classi diri­genti euro­pee vogliono? Non sarebbe la prima volta. 
Impe­dia­mo­glielo. 
Non solo con gli stru­menti pro­pri delle sedi par­la­men­tari per influire sul ver­tice dei capi di stato, ma soprat­tutto riem­piendo le piazze, come suc­cede ora in Gre­cia e come vogliamo accada anche in Ita­lia e nel resto d’Europa il pros­simo 14 feb­braio. Un San Valen­tino di pas­sione con il popolo greco.


Scelta Civica, il congresso del partito che non c’è più

Otto esponenti vanno nel Pd Ichino: “Manca lo spazio al centro”

di Fabio Martini La Stampa 7.2.15

C’era una volta un professore di nome Mario Monti, la sua repentina ascesa al governo d’Italia aveva riempito di iperboli i newsmagazine di tutto il mondo e un giorno «Time» arrivò a scrivere in copertina: «Può quest’uomo salvare l’Europa?». Da allora sono trascorsi tre anni esatti e domani, in una saletta convegni del centro di Roma, si svolgerà il primo (e forse anche l’ultimo) congresso di Scelta civica, il partito a suo tempo fondato da Monti, ma da lui stesso «rimosso» dal proprio orizzonte, per effetto di una dichiarazione indimenticabile. A Lilli Gruber che gli chiedeva come avrebbe votato alle Europee, Monti rispose: il voto è segreto. Il congresso che eleggerà segretario Enrico Zanetti, quarantatreenne grintoso sottosegretario in conflitto permanente sia con Renzi che con Padoan, completa una parabola tra le più originali nella storia politica del dopoguerra: nel giro di una ventina di mesi il partito fondato da Monti ha dissipato un patrimonio elettorale e parlamentare cospicuo: i 2 milioni e ottocentomila voti ottenuti alle Politiche 2013 erano il doppio di quelli conseguiti dalla Lega e rappresentavano una percentuale con la quale alcuni partiti (Psi, An, per non parlare dei Radicali) hanno condizionato la politica italiana per decenni.
Oltretutto, poche ore prima del congresso, si è consumata la beffa di otto parlamentati che hanno abbandonato la zattera di Scelta Civica, per approdare nel Pd. Nomi che in qualche modo riflettono la qualità - superiore alla media in termini di competenza specifica - dei gruppi parlamentari di Sc. Oltre a Gianluca Susta, Alessandro Malan, Linda Lanzillotta, il sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni, l’economista Irene Tinagli, il viceministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, Stefania Giannini, che diventò ministro (come Mario Mauro, dieci mesi prima) dopo aver trattato per conto del suo partito le poltrone governative e Pietro Ichino, che argomenta così le ragioni politiche dell’addio, che per lui è anche un ritorno: «Si possono avere le migliori idee del mondo ma poi occorre avere capacità politica per farle diventare realtà. Oggi c’è un leader capace di farlo, il presidente del Consiglio, che tra l’altro ha anche accolto i miei progetti sul mercato del lavoro. D’altra parte stiamo approvando in Parlamento una riforma elettorale che favorirà un sistema bipolare, con una contesa politica al centro. Scelta civica aveva spazio quando la dialettica era tra l’asse Bersani-Vendola e quello Berlusconi-Maroni. Quello spazio non c’è più ed è bene che sia così».
Un’analisi politologica con una sua logica, anche se la tempistica irrispettosa del congresso consente ai «lealisti» di controbattere: «Per avviare un percorso politico comune» con il Pd «sarebbe stato più normale un confronto tra partiti che non trasferimenti individuali», dice il presidente dei deputati Andrea Mazziotti. E pur disertando il congresso. Monti rivendica «orgoglio per un’esperienza politica che ha consentito all’Italia e di non essere diventata, con rispetto parlando, una Magna Grecia».

Il premier si cautela dalle richieste della sinistra Pd
di Marcello Sorgi La Stampa 7.2.15

Battezzata da Matteo Renzi, l’operazione “responsabili” che ha portato nelle file del Pd otto parlamentari di Scelta civica, procede e promette nuove sorprese. L’ingresso a tutti gli effetti nella maggioranza dei senatori del Gal, il gruppo per le autonomie, oltre a mettere in sicurezza il governo al Senato, potrebbe segnare una tendenza verso nuove adesioni, singole o collettive. Sebbene finora il grosso degli spostamenti sia avvenuto in un’area che già sosteneva l’esecutivo, la possibilità di allargarla a personaggi come l’ex-ministro della Difesa Mauro, dà l’idea della portata della manovra. Mauro infatti qualche mese fa fu sostituito in commissione perchè dal suo voto (contrario) dipendeva il cammino delle riforme.
Ma non si tratta solo di mettere in campo forze destinate a sostituire i senatori di Forza Italia, dopo la svolta del partito dell’ex-Cavaliere che ha portato all’annuncio della rottura del patto del Nazareno. Il premier punta a cautelarsi dalle richieste della sinistra Pd di rimettere in discussione la riforma del Senato e la legge elettorale, in nome dell’unità ritrovata sull’elezione di Mattarella. Il metodo del confronto non può essere praticato e dismesso secondo le convenienze, obietta la minoranza Democrat. E Bersani polemicamente si chiede cosa abbiano ottenuto in cambio i transfughi.
Renzi ieri è tornato a rivolgersi a Berlusconi, avvertendolo che il governo ha i numeri per portare a termine le riforme. Un discorso fatto a suocera (il leader del centrodestra) perché anche nuora (la minoranza Pd) intenda. Il premier infatti non ha alcuna intenzione di rimettere mano al testo dell’Italicum, che dopo la lunga battaglia al Senato potrebbe essere approvato definitivamente alla Camera se solo fosse votato senza emendarlo, o a quello della riforma del Senato, sul quale si riprende a votare martedì. Sarà un test interessante, se si considera che, pur disponendo a Montecitorio di una maggioranza larga e autonoma, nel precedente passaggio alcuni emendamenti vennero respinti con solo una ventina di voti e con l’aiuto di Forza Italia, che compensava il largo ricorso ai franchi tiratori degli oppositori Democrat.
Da Berlusconi per ora non arriva nessun segnale di marcia indietro. L’ex-Cavaliere non ha gradito l’emendamento in materia di tv che comporta un aggravio per le casse di Rai e Mediaset, la nuova formulazione del falso in bilancio e il monito di Renzi sul 20 febbraio, data in cui il governo dovrebbe riformulare il decreto fiscale rinviato dopo le polemiche sulla cosiddetta norma “salva-Silvio”. Ma che succederebbe se, malgrado l’Aventino ordinato da Berlusconi, Denis Verdini, l’interlocutore di Renzi dentro Forza Italia, decidesse di staccarsi con un gruppo di parlamentari in difesa del patto del Nazareno?

Gli arrivi centristi allarmano la sinistra Bersani: non siamo una porta girevole

Da 293 a 309. All’inizio della legislatura i deputati del Pd erano 293. Ora con ex Sel e ex Sc sono 309 Da 108 a 113. Anche i senatori sono aumentati, passando da 108 a 113 dall’inizio della legislatura

di Giovanna Casadio Repubblica 7.2.15

ROMA Nichi Vendola, e Lorenzo Guerini, il vice segretario del Pd. Era giugno e i deputati dem erano 293, oggi sono balzati a 310. Al Senato sono saliti a 113 dagli originari 108. Più non quantificabili spostamenti nei territori. Insomma un Pd “acchiappatutto”, da Sel a Scelta civica passando per adesioni in ordine sparso. Il partito che vuole Renzi: allargato e rafforzato, il Partito della nazione, interclassista e a vocazione maggioritaria. Fumo negli occhi per la sinistra dem, che da ieri, dopo l’approdo dei montiani (senza Monti) agita il vecchio pomo della discordia: l’Agenda Monti appunto, lo spauracchio delle politiche di rigore, dalla riforma delle pensioni di Elsa Fornero alla Troika Ue. E perciò «addio sinistra», per dirla con Stefano Fassina.
Peggio ancora è il sospetto che la voglia di allargare e soprattutto la necessità di consolidare la maggioranza al Senato così da avere i numeri per portare a casa le riforme istituzionali, porti a arruolare «Scilipoti, trasformisti, opportunisti», un danno per il Pd, un “do ut des” dai confini opachi. Massimo D’Alema in un’intervista al Messaggero mette in guardia dagli eventuali smottamenti del centrodestra, dalla transumanza di forzisti inquieti della corte di Verdini. Mentre l’ex segretario Pier Luigi Bersani avverte: «Non che io voglia un Pd stretto, ma non deve trattarsi di spostamenti opportunistici piuttosto si spieghi il passaggio politico, non si allarga solo spostando persone». Stesso concetto rilanciato da Davide Zoggia e twittato all’indirizzo del capogruppo a Montecitorio Roberto Speranza: «Non mi convince questa migrazione in massa di Scelta civica, ci sono troppe differenze di linea politica».
«Macché, è un ritorno a casa per molti di loro», reagisce il vice segretario Guerini elencando Pietro Ichino, Linda Lanzillotta, Alessandro Maran, Gianluca Susta, Irene Tinagli, ex dem. «Il Pd è un campo democratico ampio - continua - in linea con la vocazione maggioritaria che impresse Veltroni. Gli arrivi rafforzano la sua capacità di attrazione». Nell’ala sinistra del campo malumori e perplessità. I bersaniani sono irritati, una pattuglia di montiani erano andati via proprio dal Pd dell’ex segretario. «Un partito non è una porta girevole da cui si entra e si esce a seconda di chi vince il congresso», è stato lo sfogo di Bersani con i suoi collaboratori. «Overbooking, posti solo in piccionaia», aveva ironizzato Vendola dopo la scissione di Sel. Ma loro, i migranti, dall’ex vendoliano Gennaro Migliore all’ex montiana Ilaria Borletti Buitoni come si accingono ad affrontare la traversata a bordo del Pd? Imbarazzati? A disagio per l’eterogenea compagnia? Per Borletti Buitoni - sottosegretaria al Beni culturali, famiglia dell’imprenditoria lombarda che creò la Rinascente rac- contata nel libro “Cammino controcorrente” - «le scissioni di Scelta civica, quelle sì sono imbarazzanti. Per il resto l’Agenda Monti ha un’impronta riformista e le politiche di Renzi sono di un Pd che non è quello che era due anni fa. La rivoluzione politica impressa da Franceschini al ministero mi vede in assoluta sintonia». All’altro opposto, Migliore ricorda che già Renzi vantò «il Pd che va da Migliore a Romano». Ovvero da lui fino all’ex capogruppo montiano a Montecitorio. «Un Pd soggetto di governo e nel Pse. Non faccio mai scelte per le quali sentirmi in imbarazzo - precisa -Certo spero che la cultura della sinistra conti di più dentro il partito ». Ma molti timori bollono in pentola. Fassina, che coniò lo slogan “Rottamiamo l’Agenda Monti”, ragiona: «I naufraghi cercano approdo, e questo è normale. Salgono sul Transatlantico che è il Pd. Ma questo dove va? Qual è la sua direzione?». Ricorda quando Monti faceva pressione su Bersani perché gli mettesse il silenziatore. «L’arrivo dei montiani non è la causa ma la conseguenza di uno spostamento dell’asse dem verso politiche liberiste». Sul Jobs Act ad esempio, Ichino insegna. «Siamo in un partito ormai centrista e all’orizzonte c’è il Partito della nazione», s’inalbera Pippo Civati, dissidente democratico, alla ricerca di una cosa di sinistra.



Civati e il «trasformismo»: il Pd ormai è un accampamento
Dalla «liquidazione» di Letta alla «sindrome del cambio in corsa»: in un libro la sua visione dell’era renziana

di Monica Guerzoni Corriere 7.2.15

ROMA I ribaltoni, i «traditori» Razzi e Scilipoti «eroi del tempo presente», i transfughi di Scelta civica e la «sindrome del cambio in corsa», che ha colpito in un anno 160 parlamentari: «Chi si ferma è perduto». E mentre i cittadini pietrificati dalla crisi restano vittime dell’incantesimo mediatico la sinistra diventa destra, il Pd muta geneticamente nel Partito della nazione e Berlusconi, «senza soluzione di continuità» con il ventennio passato, realizza il contratto con gli italiani del 2001: «Come se il pennarello avesse continuato il disegno». Il pennarello di Matteo, il disegno di Silvio.
Con un tempismo cronometrico Pippo Civati firma Il trasformista - La politica nell’epoca della metamorfosi (Indiana editore). Un pamphlet di 100 pagine, in libreria il 19 febbraio, in cui il più antagonista dei deputati del Pd manda in pezzi lo specchio di Narciso del «premier attualmente in carica». Così lo chiama Civati per smascherarne i lapsus, i paradossi, i ribaltamenti prospettici e denunciarne i limiti: l’incoerenza come manifesto politico, la provocazione come metodo per distrarre dal merito.
Ritratto volutamente ingeneroso dell’era renziana, questo piccolo trattato di semiotica politica è lo strappo finale, la presa d’atto di una distanza incolmabile tra chi si ostina a credere nella sinistra che verrà e chi rimuove i poverissimi perché non votano e quindi «cavoli loro». Tra figure mitologiche, citazioni di Ovidio, Musil e Borges e reminiscenze filosofiche Renzi diventa Zelig, un leader che prende i voti della destra e, con quel «decreto vintage» che è lo sblocca Italia, realizza i sogni di cemento di Berlusconi. Renzi come Leopoldo Fregoli, protagonista di «metamorfosi a catena» come il Porcellum che diventa Italicum. Un leader che fa «l’esatto contrario» di quel che annuncia, picchia sulla sinistra come causa di tutti i mali e, mutando pelle ogni giorno, fonda il «partito del tutti dentro». Maxi «accampamento» dove c’è posto per chi vuole eliminare l’articolo 18 e per chi lo difende.
Cos’è il patto «segreto» del Nazareno se non un «patto col diavolo», in cui il vecchio e il nuovo gattopardescamente si fondono? Com’è potuto accadere che il Nemico sia diventato «l’amico giurato»? La tesi è che un premier in «perenne movimento» ha cambiato tutto, tranne la vita degli italiani: «Realtà gufa, mondo crudele». Nell’attesa della palingenesi lo spettacolo è talmente pirotecnico che i cittadini non si accorgono di un bluff che ha fatto vittime illustri. La «liquidazione» di Enrico Letta? Un «ca polavoro di trasformismo». Intriso di «pessimismo leopoldino», nel finale il libello di Civati intona note di speranza. L’incantesimo delle «lunghe intese» si può spezzare, l’Italia può tornare alla «gara corretta» dell’alternanza. Ma perché si alzi il vento del cambiamento bisogna che il messaggio «laico» delle minoranze si affermi e che gli elettori comincino a soffiare nella direzione giusta. Quella della sinistra.



Se D’Alema evoca le purghe (fotografiche) d’epoca staliniana

di Massimo Rebotti  Corriere 7.2.15

Milano Il nome di Sergio Mattarella avrà anche messo d’accordo tutti nel centrosinistra, ma fino a un certo punto. Per esempio, se si domanda «chi ha voluto Mattarella per primo?» la pace finisce.
Massimo D’Alema è risentito: l’attuale presidente della Repubblica è stato, tra il 1998 e il 2000, vicepremier e ministro della Difesa nei suoi governi. «È divertente vedere — ha raccontato al Messaggero — che io nelle foto fatte circolare da Palazzo Chigi non ci sono». Sostiene D’Alema che l’entourage di Matteo Renzi, raccontando agli italiani il nuovo presidente, abbia operato un occultamento della realtà: Mattarella ministro, Mattarella vicepremier, senza dire di quale governo e di quale premier.
«Nei regimi stalinisti — spiega — c’erano degli specialisti che cancellavano dalle fotografie i volti dei dissidenti». In quei casi la «purga» fotografica seguiva quella reale: i dissidenti prima sparivano per davvero, uccisi, e poi «svanivano» dalle fotografie. Nella storia del comunismo internazionale i casi sono stati tanti: Trotzky rimosso dagli scatti vicino a Lenin, il capo della polizia di Stalin evaporato dalle foto a fianco del leader, il dirigente del Pc cinese cancellato dalle immagini con Mao. «Nel Pd abbiamo dimenticato tanti valori della sinistra — chiosa sarcastico D’Alema — ma questa tradizione è rimasta». Quella che storicamente fu una tragedia, la condanna del dissidente che anticipa la sua cancellazione (perfino dalle foto), si ripete nel Pd sotto forma di polemica iperbolica. Con Massimo D’Alema che, per rivendicare di aver avuto un ruolo nella scelta per il Quirinale, accusa Renzi di averlo «cancellato» dagli strateghi dell’operazione. Quei suoi due governi (con Mattarella) tra il 1998 e il 2000 — dopo la caduta di Prodi e con l’appoggio di Cossiga — furono nel centrosinistra assai controversi. E la condanna all’oblio, secondo D’Alema, arriverebbe fino ai giorni nostri.
L’esagerazione della realtà è parte di ogni propaganda: Renzi fa capire che Mattarella l’ha voluto solo lui e che gli ex Ds sono all’angolo? D’Alema risponde che l’elezione del nuovo capo dello Stato è una vittoria della minoranza e, sotto sotto, sua personale. E la verità su come siano andate davvero le cose, piano piano, viene cancellata dalla fotografia di questi giorni.



Voti blindati in Senato, ma si esalta l’opportunismo

di Massimo Franco Corriere 7.2.15

Si comprende l’ottimismo sui numeri del governo al Senato, che Matteo Renzi ostenta. Non è soltanto la migrazione della pattuglia di Mario Monti da Scelta civica al Pd: un passaggio che ha il colore dell’opportunismo ma chiude una parentesi politicamente già finita, e formalizza un’appartenenza affidata finora solo al voto favorevole. La vera riserva di consensi parlamentari, per una coalizione che a Palazzo Madama ha dovuto faticare più volte per raggiungere la maggioranza di 161 voti, arriva da spezzoni dell’opposizione. Spunta tra i frammenti espulsi dal Movimento 5 Stelle; e, sul versante opposto, da «costole» del centrodestra ansiose di stare al governo.
Sono una ventina di senatori sui quali Palazzo Chigi ha giustamente puntato molte delle sue speranze di approvare le riforme. Porterebbero l’area della maggioranza oltre la soglia di 190, garantendo margini di sicurezza finora inimmaginabili. C’è già la parola che dovrebbe sublimare questa operazione: «stabilizzatori». Parlamentari eletti per combattere il governo, e ora pronti a puntellarlo per evitarne la crisi. L’operazione sa di trasformismo: quella pratica tutta italiana, inaugurata nel 1883 da Agostino Depretis e basata sulla cooptazione nelle maggioranze di schegge dell’opposizione; e replicata l’ultima volta tra il 2008 e il 2011 dal governo Berlusconi.
Fu giustamente criticata dal Pd, che nei «responsabili» di allora vedeva gli eredi di Depretis; e difesa da FI, che legittimava l’arruolamento come un modo per risarcire Berlusconi della perdita dell’appoggio di Gianfranco Fini. Adesso, la manovra viene attaccata da FI e da Beppe Grillo, mentre nel Pd si tende a difenderla in nome dell’interesse dell’Italia a completare le riforme. Spettacolo discutibile, che riflette la scomposizione del sistema dei partiti e lo sgretolamento di alcuni: un sottoprodotto prima delle elezioni del 2013, con un Parlamento spezzato in tre tronconi; poi dell’arrivo di Renzi.
La domanda è quanto tutto questo rafforzerà davvero la coalizione Pd-Ncd; e se la terrà al riparo dai ricatti di piccole minoranze che alla fine furono tra le cause della caduta di Berlusconi nel 2011. Certo, i cosiddetti «stabilizzatori» offrono a Palazzo Chigi un supplemento di forza contrattuale. Il coltello del patto del Nazareno tra il premier e l’ex premier sarebbe sempre più nelle mani di Renzi. In più, l’idea di un governo col vento in poppa viene accreditata dalla corsa di semi-oppositori nell’orbita del potere. E si alimenta la narrativa di un M5S che perde pezzi.
Eppure, il saldo dell’operazione potrebbe risultare assai più controverso di quanto appaia. Intanto, la trasparenza dei rapporti parlamentari e della dialettica governo-opposizione viene intorbidita per puri calcoli di potere. E gonfiandosi con innesti di formazioni avversarie, la maggioranza finisce per confermare la sua necessità di ricorrere ad un aiuto esterno. Non si vede una grande operazione politica dietro quanto sta avvenendo. Al massimo, un surrogato raccogliticcio di quel patto del Nazareno che l’elezione del capo dello Stato ha scompaginato. 



Il cantiere vuoto della destra e la calamita del premier
L’arrivo degli ex montiani nel Pd è anche un messaggio alla “zona grigia” di transfughi grillini e centristi delusi

di Stefano Folli Repubblica 7.2.15

PER adesso non cambiano i numeri della maggioranza. Soprattutto al Senato, dove il margine è assai sottile, gli eletti di «Scelta Civica» che arrivano in soccorso al vincitore non modificano la situazione: i voti sono gli stessi di prima, visto che il partito di Monti puntellava fin dall’inizio l’alleanza renziana. È il motivo per cui la responsabile dell’Istruzione, Giannini, aveva ottenuto il ministero un anno fa e a maggior ragione lo conserva oggi.
Il senso dell’operazione tuttavia è chiaro. Si tratta di creare un «effetto calamita», dando l’impressione che è in atto uno smottamento definitivo a favore del «partito di Renzi». Come dire: se non vi sbrigate a salire a bordo, dopo per voi sarà troppo tardi. Messaggio rivolto a quanti ristagnano in una sorta di «zona grigia», non più opposizione e non ancora maggioranza, ma sono tentati dal salto trasformista. I transfughi dei Cinque Stelle in primo luogo e forse altri, magari fra i centristi delusi. Renzi è molto abile nel creare l’effetto valanga, suggerendo che il fenomeno è già in corso. Anche se fino a questo momento si è più che altro rafforzata la corrente renziana all’interno del Pd: una corrente ampia e ben nutrita, tenuta insieme dal carisma del leader e dal potere che egli garantisce.
In ogni caso per il partito di Berlusconi è una pessima notizia. Alla quale serve poco reagire con l’accusa al presidente del Consiglio di fare «campagna acquisti», argomento usato a suo tempo (nel 2011) contro il governo di centrodestra. Quindi si tratterebbe di un peccato di incoerenza da parte del Pd. Ma è una polemica perfettamente inutile che serve solo a segnalare la condizione di crescente debolezza di Forza Italia. Dal 2011 a oggi lo scenario è cambiato in modo profondo. Quattro anni fa Berlusconi tentava con i «responsabili» di salvare il suo governo da una costante erosione parlamentare. Oggi Renzi vuole dimostrare di poter fare a meno del contributo di Forza Italia anche al Senato. Il che significa ridurre fin quasi ad annullarlo il potere negoziale di Berlusconi, quando questi vorrà riproporre una versione minimalista del «patto del Nazareno».
Ma c’è di più. Con l’«operazione calamita» Renzi prefigura la prospettiva contenuta nella riforma elettorale. Vale a dire l’Italicum approvato con entusiasmo dal centrodestra giusto alla vigilia della contesa per il Quirinale. Il premio alla lista vincente — e non più alla coalizione — costituisce una spinta possente verso il bipartitismo: una forza politica governa, l’altra si oppone (con i partiti rimanenti confinati in un ruolo minore, più o meno di testimonianza). Non è strano che i movimenti e i sussulti parlamentari di questi giorni anticipino la tendenza: si corre a rafforzare il Pd, che in questo momento è la forza centrale, nel tentativo di guadagnare vantaggi anche personali prima delle elezioni, peraltro ancora lontane.
Invece di una replica stizzita, sarebbe interessante sentire dal partito berlusconiano quale sarà la risposta alla strategia renziana che è chiarissima. Visto che hanno votato l’Italicum pochi giorni fa, si suppone che l’anziano leader e i suoi collaboratori sappiano cosa opporre a un premier che si sta attrezzando per vincere e governare senza condizionamenti. Ma non sembra che sia così. A sinistra, il cantiere del «partito di Renzi» fra poco chiuderà per eccesso di domanda; a destra il cantiere del secondo «partito della nazione» non è nemmeno stato aperto. Certo, ci sono le iniziative di Fitto che si definisce il «ricostruttore». E c’è il tentativo, destinato al fallimento, di rincorrere Salvini con la trovata della «Lega delle libertà»: un po’ tardi visto che il Carroccio post-Bossi è intorno al 16 per cento. In altre parole mancano le idee e anche i volti nuovi per contrastare Renzi. Il che rischia di creare un grave squilibrio in un sistema che è pensato per avere due gambe in grado di bilanciarsi. Per ora la gamba è una sola.

1 commento:

Unknown ha detto...

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