giovedì 19 febbraio 2015

Le lotte di classe in Cina oscurano agli occhi dei più le lotte di classe della Cina

Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto: Nella fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn., ombre corte

Risvolto
Smartphone, tablet, notebook console da gioco e computer da tavolo sono oggi il simbolo del progresso, della libertà e della creatività. Il luccicante individualismo creativo sembra lontano anni luce dalle fabbriche dell'era industriale. Questo libro, frutto di un ampio lavoro di ricerca, documenta come tale lontananza, in realtà, sia solo illusoria. Gli strumenti elettronici sono prodotti alle catene di montaggio, in larga parte in Cina, da milioni di giovani lavoratori e lavoratrici provenienti dalle aree rurali più povere del paese. Le tecnologie elettroniche degli imprenditori di sé dipendono dunque dal sudore di masse operaie irreggimentate. La creatività degli uni si regge sul lavoro più anonimo e invisibile degli altri. Nel caso della Foxconn, la più grande multinazionale di assemblaggio di componenti elettronici, balzata alla cronaca negli ultimi anni per una serie di suicidi che hanno coinvolto i suoi dipendenti, le condizioni e i ritmi di lavoro, gli orari e i turni massacranti, le ferie impossibili e le basse retribuzioni, disegnano una realtà che stride enormemente con l'immagine dei campus in cui si progettano i nuovi "gioielli" dei maggiori marchi dell'elettronica.
Accanto a una approfondita analisi delle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche dislocate in Cina, il volume propone due contributi sulle esperienze lavorative nella Repubblica Ceca e in Polonia.

gli autori
Ralf Ruckus, Pun Ngai, Han Yuchen, Guo Yuhua, Lu Huilin, Su Yihui, Xu Yi, Xu Hui, Deng Yunxue, Jin Shuheng, Liang Zicun, Bao Chengliang, Li Changjiang, Dong Junyan, Cheng Pingyuan, Wan, Liu Jing, Liu Ya, Yang Qingfeng, Shen Yuan, Li Li, Jenny Chan, Mark Selden, Shen Hong, Rutvica Andrijasevic, Devi Sacchetto, Amici e amiche di Gongchao

i curatori
Ferruccio Gambino ha insegnato presso l'Università di Padova, negli Stati Uniti e in Francia. Tra i suoi lavori: Migranti nella tempesta (ombre corte, 2003). Con Devi Sacchetto ha curato l'edizione italiana di Pun Ngai, Cina, la società armoniosa (Jaca Book, 2012).
Devi Sacchetto è ricercatore di Sociologia del lavoro presso l'Università di Padova. Tra i suoi lavori: Fabbriche galleggianti (Jaca Book, 2009) e, per i nostri tipi, Il Nordest e il suo Oriente (2004).


La macchina umana
Made in China. La Foxconn è il maggiore datore di lavoro al mondo. Un libro, «Nella fabbrica globale», di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto (edito da ombre corte), svela la nuova schiavitù che si nasconde dietro il vertiginoso aumento del profitto 

Simone Pieranni, 18.2.2015 

«Ogni giorno ese­guo dalle quat­tro­mila alle cin­que­mila volte lo stesso movi­mento», rac­conta un’operaia della Fox­conn. Ogni giorno, un lavo­ra­tore impie­gato in una delle fab­bri­che Fox­conn, com­pie dai 18mila ai 20mila movi­menti per turno. Lo fa in una posi­zione di lavoro limi­tata, minu­scola, iso­lata dal resto delle per­sone, con­trol­lata e sor­ve­gliata. Non si può ridere, non si può par­lare. Si devono rag­giun­gere gli obiet­tivi di pro­du­zione. Se non ci si rie­sce, si lavora di più. E quel tempo in più, non è straor­di­na­rio, non viene pagato. Poi si va nel dor­mi­to­rio, dove non si lavora, ma non si vive cer­ta­mente liberi. Mac­chine, automi, pic­coli com­po­nenti di pro­cessi tay­lo­ri­stici e for­di­sti che tra­dotti in man­da­rino signi­fi­cano: ridurre i costi del lavoro. E aumen­tare il pro­fitto. Die­tro agli automi c’è natu­ral­mente un’umanità, vera, car­nale, nono­stante sia schiac­ciata dalla schia­vitù eco­no­mica e morale, san­cita dai dor­mi­tori dove il lavoro non recede, ma per­mea e asfis­sia – attra­verso la disci­plina — ogni momento della pro­pria vita. Sia in linea, sia in camera, si è sot­to­po­sti a un ordine, a regole e a un destino biz­zarro: ci si aliena per pro­durre un bene che poi si brama (ad esem­pio gli smart­phone). Dall’altro lato, nelle stanze dei padroni, tutto è scon­tato: c’è chi deve sot­to­met­tersi e subire anghe­rie, senza otte­nere alcuna sod­di­sfa­zione, se non un magro sti­pen­dio. Ma con gli stessi stru­menti che si pro­du­cono, ci si orga­nizza e ci si ribella. 

La parola «detta»
Ecco come si è svi­lup­pato il pro­cesso di cre­scita cinese, nella sua fase di «fab­brica del mondo»: unendo la velo­cità d’esecuzione, la sot­to­mis­sione e l’atomizzazione. C’è molto turn over nelle fab­bri­che Fox­conn: non è un pro­blema in un paese di un miliardo e 400 mila abi­tanti, desi­de­rosi di diven­tare «cit­ta­dini». Que­sto pro­cesso, su cui lo Stato cinese ha costruito la pro­pria for­tuna, non senza costi in ter­mini ambien­tali e di ten­sioni sociali, lo spiega per­fet­ta­mente un volume pub­bli­cato da ombre corte, Nella fab­brica glo­bale, Vite al lavoro e resi­stenze ope­raie nei labo­ra­tori della Fox­conn, a cura di Fer­ruc­cio Gam­bino e Devi Sac­chetto (pp 230, 20 euro). Si tratta di un volume com­po­sito, fatto di nar­ra­tive jour­na­lism, di testi­mo­nianza e con­ce­pito tra ana­lisi, inchie­sta e atten­zione a quanto accade anche al di là dei con­fini, sep­pure vasti, della Repub­blica popo­lare cinese.
I meriti di que­sto libro sono tanti. Il primo è quello di entrare nel cuore delle fab­bri­che e soprat­tutto par­lare con i lavo­ra­tori cinesi, un metodo infal­li­bile per capire cosa suc­ceda là den­tro. Ambiti di cui spesso abbiamo noti­zie solo attra­verso foto. «La Fox­conn – come rias­su­mono gli autori — è un’impresa con­trol­lata dalla società Hon Hai Pre­ci­sion Indu­stry, fon­data nel 1974 da Terry Gou». Oggi è il mag­gior datore di lavoro al mondo, con i suoi 1,3 milioni circa di occu­pati. Oltre un milione lavo­rano in Cina. 
Tra il gen­naio e il dicem­bre del 2010, presso la Fox­conn, sono avve­nuti 18 ten­ta­tivi di sui­ci­dio con 14 morti e 4 feriti. «La tra­ge­dia della cosid­detta “serie di salti”, come è stata bat­tez­zata dai media, ha destato grande scal­pore». Si tratta, sep­pure in forme diverse, del risul­tato delle pre­sunte irre­go­la­rità dell’azienda. Par­liamo — come scri­vono Pun Ngai, Han Yuchen, Guo Yuhua e Lu Hui­lin nel primo capi­tolo — di supe­ra­mento del limite mas­simo di ore di straor­di­na­rio, sospetto di infra­zione della legge sul lavoro per quanto riguarda il paga­mento degli straor­di­nari. La Fox­conn è stata anche sospet­tata di aver vio­lato le norme sui tiro­ci­nanti, sulla sicu­rezza sul lavoro e la pre­ven­zione e il trat­ta­mento delle malat­tie pro­fes­sio­nali (e a que­sto pro­po­sito il libro pre­senta testi­mo­nianze di vit­time di infor­tuni sul lavoro, mai ricom­pen­sati dall’azienda). 

Il riposo sor­ve­gliato
«Ope­raie e ope­rai di pro­du­zione sono allog­giati in otto in una camera di circa trenta metri qua­dri, con un bagno sepa­rato». Suc­cede nel dor­mi­to­rio di Wuhan, uno degli esempi por­tati dagli autori del libro. Un altro ele­mento rile­vante del «mondo Fox­conn» è, infatti, quello rela­tivo al «dor­mi­to­rio» che non è un luogo di riposo bensì il pro­lun­ga­mento del banco da lavoro e della catena di mon­tag­gio. All’interno, vige un regime rigido. «Ope­raie e ope­rai non pos­sono lavare per conto loro i vestiti e nem­meno usare l’asciugacapelli; alle 23 al più tardi devono essere rien­trati al dor­mi­to­rio per­ché in caso di tra­sgres­sione incombe la puni­zione». A essere spez­zate sono le rela­zioni sociali.
«Una pro­du­zione inten­siva, bassi salari, un sistema di disci­pli­na­mento severo così come una divi­sione sociale e lavo­ra­tiva degli occu­pati carat­te­riz­zano la situa­zione negli sta­bi­li­menti. La dire­zione della mul­ti­na­zio­nale dà infatti per scon­tata la lesione della dignità degli ope­rai e delle ope­raie per rispar­miare sui costi». La Fox­conn fa lavo­rare le pro­prie fab­bri­che per 24 ore al giorno, attra­verso due turni: dalle 8 alle 20 e dalle 20 alle 8, il 73% degli impie­gati lavora più di dieci ore. «Siamo come gra­nelli di pol­vere — dice un’operaia -. Se te ne vai tu, viene qualcun’altra e fa il tuo lavoro. In que­sta fab­brica noi operai/e di pro­du­zione non con­tiamo. Siamo solo un attrezzo di lavoro». In un libretto con le norme di com­por­ta­mento, come fos­sero cita­zioni mili­ta­re­sche e para­fa­sci­ste di Terry Guo il boss, si legge: «I sot­to­po­sti devono asso­lu­ta­mente obbe­dire ai superiori». 

Bagong! (Scio­pero)
Nel set­timo capi­tolo, Jenny Chan, Pun Ngai, Mark Sel­den si occu­pano delle riven­di­ca­zioni nelle fab­bri­che Fox­conn. Secondo il loro parere, «le lotte ope­raie in Cina sono aumen­tate a par­tire dalla metà degli anni ’90 e si sono evo­lute qua­li­ta­ti­va­mente. Sono degne di nota soprat­tutto le richie­ste di aumenti sala­riali oltre il livello minimo locale». Dopo tutto il pati­mento descritto nei capi­toli pre­ce­denti, que­sta parte del libro costi­tui­sce una sorta di sol­lievo.
Può esi­stere una coscienza di classe tra i gio­vani che lavo­rano alla Fox­conn? E che tipo di lotte si sono svolte, con quali obiet­tivi? Il 3 gen­naio 2012 – ad esem­pio — ci fu una delle pro­te­ste più cla­mo­rose: più di cen­to­cin­quanta lavo­ra­tori insor­sero con­tro «la pes­sima distri­bu­zione delle man­sioni» e misero in scena lo «show del salto dall’edificio» (tiao lou xiu), un modo di dire che mischia ter­mini cinesi (tiao: sal­tare, lou: edi­fi­cio) e ter­mini inglesi: xiu che qui sta per show.
Minac­cia­vano di but­tarsi dall’edificio della fab­brica se i mana­ger non aves­sero risolto le que­stioni sala­riali. Negli ultimi due anni, tante altri scio­peri e riven­di­ca­zioni hanno con­trad­di­stinto le fab­bri­che Fox­conn. Pro­te­ste orga­niz­zate con pas­sa­pa­rola, smart­phone, applicazioni. 

Modello da espor­tare
Ora imma­gi­na­tevi tutto que­sto in Europa. È que­sto il salto della Fox­conn: la siniz­za­zione del mondo del lavoro (almeno nei paesi dove si è sta­bi­lita e di cui si sa molto poco, come Tur­chia, Rus­sia, Unghe­ria). Nel capi­tolo nono del volume, Rut­vica Andri­ja­se­vic e Devi Sac­chetto si occu­pano della Fox­conn in Europa, in par­ti­co­lare in Repub­blica Ceca, dove si sta svi­lup­pando un’importante indu­stria elet­tro­nica. La Fox­conn può così espan­dersi e pro­durre per il mer­cato occi­den­tale uti­liz­zando la più pre­sti­giosa dici­tura «made in Eu». Una prima con­sta­ta­zione: «La Fox­conn, come le altre imprese stra­niere col­lo­cate nella Repub­blica Ceca, ha potuto con­tare su una vera e pro­pria ’mac­china sta­tale’ messa in campo per attrarre gli inve­sti­menti stra­nieri». Richie­sta di soldi asia­tici, chiu­dendo un occhio sui diritti dei lavo­ra­tori, con risul­tati nega­tivi per tutti. La Fox­conn ha finito per imporre salari medi infe­riori a quelli pre­ce­denti. Come in Cina, inol­tre, la pro­du­zione è basata sulla «velo­cità d’esecuzione». Capi­re­parto e capi­li­nea met­tono sotto pres­sione i lavo­ra­tori per man­te­nere ele­vato il ritmo pro­dut­tivo. I turni sono di 12 ore, le con­di­zioni di lavoro e le pres­sioni por­tano anche a un ele­vato numero di inci­denti e infor­tuni. E anche in Repub­blica Ceca, per gli inte­ri­nali – che costi­tui­scono il 60% degli occu­pati — esi­stono i dormitori. 
Nelle con­clu­sioni, emerge il punto focale cui mira tutto il volume. Gli autori riten­gono si debba insi­stere nell’analisi della pro­du­zione glo­bale della Fox­conn. I due mondi, quello cinese e quello euro­peo, sono molto più vicini di quanto si possa pen­sare. Non si tratta solo di bassi salari, di tempo di lavoro, di pres­sioni e disci­plina. Si tratta di capire come la Fox­conn gesti­sca la sua forza lavoro globale.



Corpi sotto stretta disciplina 
Focus Foxconn. La fabbrica cinese di elettronica rifornisce le maggiori multinazionali del settore, dall'America al Giappone, scippando del tutto la vita ai suoi lavoratori

Daniele Brigadoi Cologna, 18.2.2015 

Fox­conn, azienda con­trol­lata dal con­glo­me­rato mul­ti­na­zio­nale cinese-taiwanese Hon Hai che suscitò scal­pore alcuni anni fa per la serie di sui­cidi (18 ten­tati sui­cidi, 14 morti nel 2010) veri­fi­ca­tisi nella sua sede di Shen­z­hen, è famosa per il suo ruolo di snodo chiave nella mani­fat­tura in subap­palto di pro­dotti elet­tro­nici di alta gamma. Il suo com­mit­tente più cele­bre è la Apple, ma vi si rivol­gono tutte le mag­giori mul­ti­na­zio­nali dell’elettronica ame­ri­cane, sud­co­reane e giapponesi. 

Per mesi, la «fabbrica-lager» fu al cen­tro di un dibat­tito inter­na­zio­nale sul dila­gare di con­di­zioni di lavoro che vio­la­vano i diritti umani degli ope­rai nei paesi in cui le mag­giori aziende del set­tore instal­lano le pro­prie «fab­bri­che del mondo». Venne stig­ma­tiz­zato il cini­smo delle grandi cor­po­ra­tion, l’ipocrisia delle loro cam­pa­gne media­ti­che. Fu lan­ciata una cam­pa­gna di boi­cot­tag­gio, men­tre le denunce del regime quasi schia­vi­stico di lavoro accrebbe indub­bia­mente la sen­si­bi­lità e l’attenzione del pub­blico sia in Cina che negli altri paesi che uti­liz­zano i pro­dotti assem­blati o par­zial­mente rea­liz­zati dalla Fox­conn. Qual­cuno fece anche notare che all’epoca dei sui­cidi, l’azienda in que­stione aveva 930.000 addetti, che il tasso di sui­cidi nella società cinese è molto alto, che la forza lavoro – non sol­tanto nelle aree in cui si pro­duce per l’esportazione — è inqua­drata in regimi occu­pa­zio­nali, retri­bui­tivi e di pro­te­zione sociale assai più pena­liz­zanti per il lavo­ra­tore di quelli in vigore nelle fab­bri­che del gigante tai­wa­nese della pro­du­zione in subappalto. 

Docili e dispo­ni­bili
La vera «noti­zia» – e lo scan­dalo più ecla­tante – forse era un altro, ovvero il regime stesso della pro­du­zione glo­ba­liz­zata, la com­plessa inte­ra­zione di bio­po­li­tica e desi­de­rio che per­mette ai pro­ta­go­ni­sti dell’economia mon­diale (cor­po­ra­tion, certo, ma anche interi sistemi pro­dut­tivi nazio­nali) di aggio­gare alla mas­si­miz­za­zione dei loro pro­fitti e alla con­qui­sta di quote di mer­cato che hanno anche risvolti di carat­tere geo­po­li­tico le ambi­zioni di riscatto sociale per­so­nale e fami­gliare di milioni di ex con­ta­dini e aspi­ranti con­su­ma­tori urbani. Non solo in Cina, non solo nell’ambito delle aziende che pro­du­cono le pro­tesi cognitivo-comunicative di cui non pos­siamo più fare a meno, ma in tutti i paesi in cui urba­niz­za­zione, tran­si­zione demo­gra­fica, incre­mento dei livelli d’istruzione e del red­dito medio pro-capite ren­dono dispo­ni­bile (e volen­te­rosa, docile) forza lavoro un tempo vin­co­lata al lavoro agri­colo o segre­gata entro le mura dome­sti­che.
La pos­si­bi­lità che Fox­conn incarni un para­digma carat­te­riz­zante del capi­ta­li­smo glo­bale con­tem­po­ra­neo ispira la ricerca sul campo rea­liz­zata in que­sti anni da un gruppo di ricer­ca­tori pio­nie­ri­stico per la sua com­po­si­zione, dato che i suoi coor­di­na­tori — Pun Ngai, Lu Hui­lin, Gu Yuhua e Shen Yuan — sono ori­gi­nari di tre diverse società cinesi (RPC, Hong Kong e Tai­wan), oggi più che mai inter­con­nesse a livello eco­no­mico e poli­tico, mal­grado le rispet­tive carat­te­riz­za­zioni politico-istituzionali ed ideologiche. 

Il loro lavoro è con­fluito in un volume col­let­ta­neo inti­to­lato Io sto alla Fox­conn, pub­bli­cato a Pechino nel 2012. L’anno seguente Ralf Ruc­kus ne ha curato l’edizione tede­sca, il cui titolo ha optato per un regi­stro assai più pro­vo­ca­to­rio: iSla­ves. Sfrut­ta­mento e resi­stenza nelle fab­bri­che cinesi della Fox­conn. L’edizione ita­liana, curata da Fer­ruc­cio Gam­bino e Devi Sac­chetto, pre­senta que­sto lavoro con un titolo che ne rispec­chia al meglio il valore per una migliore com­pren­sione di come vanno con­fi­gu­ran­dosi i rap­porti di pro­du­zione nell’economia glo­ba­liz­zata e la seg­men­ta­zione inter­na­zio­nale dei mer­cati del lavoro che ne deriva. Edito da ombre corte, La Fox­conn e il regime della fab­brica glo­bale rap­pre­senta uno sti­molo neces­sa­rio e urgente alla presa di coscienza su cosa stia diven­tando il lavoro per una quota sem­pre più rile­vante della popo­la­zione attiva pla­ne­ta­ria. Spe­cial­mente per i suoi seg­menti più gio­vani, soprat­tutto per le donne. 

I nodi da scio­gliere
Tra gli spunti di rifles­sione nume­rosi che que­sto cospi­cuo esem­pio di public socio­logy – il pro­getto di ricerca è molto ampio e coin­volge una ses­san­tina di ricer­ca­tori e stu­denti di una ven­tina di uni­ver­sità nei tre con­te­sti citati – offre al let­tore, spic­cano tre ele­menti par­ti­co­lar­mente signi­fi­ca­tivi. Il primo è l’ispirazione meto­do­lo­gica: è dif­fi­cile pen­sare a esempi para­go­na­bili di ricerca sociale pro­mossa dall’accademia, mas­sic­cia­mente par­te­ci­pata e messa al ser­vi­zio di un tema che non solo carat­te­rizza l’impianto socioe­co­no­mico gene­rale, ma inve­ste l’intera col­let­ti­vità per le impli­ca­zioni sociali ed eti­che della vio­lenza che eser­cita sulle fasce più fra­gili e nume­rose della popo­la­zione. Il fatto che poi tale ricerca inter­se­chi deli­ca­tis­sime linee di faglia poli­ti­che del com­plesso mondo cinese con­tem­po­ra­neo – rese pal­pa­bili negli ultimi tempi in seguito al pro­trarsi delle pro­te­ste di Occupy Cen­tral a Hong Kong e alla vola­ti­lità del dia­logo poli­tico tra Pechino e Tai­pei – la rende tanto più apprez­za­bile e neces­sa­ria.
Il secondo ele­mento è l’impatto che le com­po­nenti di denun­cia di que­sto lavoro potranno avere nei tre con­te­sti con­si­de­rati sul piano comu­ni­ca­tivo, sociale e poli­tico. In Cina la nuova lea­der­ship del Par­tito comu­ni­sta sostiene di avere a cuore lo svi­luppo di mag­giori tutele nei con­fronti dei lavo­ra­tori, ma nel con­tempo le sue poli­ti­che di inur­ba­mento acce­le­rato della popo­la­zione rurale, con la pro­mo­zione di pic­coli e medi cen­tri urbani che pos­sano da un lato decon­ge­stio­nare le metro­poli e dall’altro evi­tare che le cam­pa­gne si tra­sfor­mino in disca­ri­che sociali, non fanno altro che for­nire nuove api ope­raie all’arnia del capi­ta­li­smo di stato. Quali mar­gini esi­stono in Cina, a Tai­wan e Hong Kong per la nascita di movi­menti ope­rai che pos­sano met­tere in discus­sione il ruolo ege­mone del capi­tale e della poli­tica sulle loro con­di­zioni di vita e di lavoro? 

Infine, la terza que­stione che il testo tocca costan­te­mente ma forse non esplora fino in fondo, è il nesso che l’organizzazione del lavoro all’interno delle «fab­bri­che del mondo» pre­sup­pone tra la dispo­ni­bi­lità del lavo­ra­tore (e in par­ti­co­lare della lavo­ra­trice) a pie­garsi a una certa visione del rap­porto vita/lavoro, imper­niata sulla disci­plina stretta dei corpi, degli spazi di vita, delle pos­si­bili espres­sioni del sé sia per­so­nale che col­let­tivo, delle diverse decli­na­zioni di pub­blico e di pri­vato, e il regime bio­po­li­tico più ampio e gene­rale in cui si iscrive la vita delle per­sone nella società cinese di oggi, soprat­tutto nei cen­tri urbani. 

Un modello tota­liz­zante
Si tratta di un regime che si apprende nel con­te­sto fami­gliare e a scuola, rei­te­rato dai media e dalla comu­ni­ca­zione pub­blica, dal lin­guag­gio dei ser­vizi pub­blici e delle aziende, dalla stessa con­fi­gu­ra­zione fisica dei luo­ghi e degli spazi desti­nati all’abitazione, all’apprendimento, al lavoro. La fab­brica glo­bale si col­loca su di un con­ti­nuum di con­trollo della vita delle per­sone che capi­tale pri­vato e tutela pub­blica gene­rano e rein­ter­pre­tano in con­tro­canto vicen­de­vole (e forse per­fino incon­sa­pe­vole), coar­tando la volontà degli indi­vi­dui senza troppe scosse, ero­dendo in modo per­va­sivo le resi­stenze latenti, repri­mendo deci­sa­mente quelle mani­fe­ste: ed è que­sta forse la dimen­sione più inquie­tante che il caso Fox­conn rac­conta del nostro presente.

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