Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto:
Nella fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn., ombre corte
Risvolto
Smartphone, tablet, notebook console da gioco e
computer da tavolo sono oggi il simbolo del progresso, della libertà e
della creatività. Il luccicante individualismo creativo sembra lontano
anni luce dalle fabbriche dell'era industriale. Questo libro, frutto di
un ampio lavoro di ricerca, documenta come tale lontananza, in realtà,
sia solo illusoria. Gli strumenti elettronici sono prodotti alle catene
di montaggio, in larga parte in Cina, da milioni di giovani lavoratori e
lavoratrici provenienti dalle aree rurali più povere del paese. Le
tecnologie elettroniche degli imprenditori di sé dipendono dunque dal
sudore di masse operaie irreggimentate. La creatività degli uni si regge
sul lavoro più anonimo e invisibile degli altri. Nel caso della
Foxconn, la più grande multinazionale di assemblaggio di componenti
elettronici, balzata alla cronaca negli ultimi anni per una serie di
suicidi che hanno coinvolto i suoi dipendenti, le condizioni e i ritmi
di lavoro, gli orari e i turni massacranti, le ferie impossibili e le
basse retribuzioni, disegnano una realtà che stride enormemente con
l'immagine dei campus in cui si progettano i nuovi "gioielli" dei
maggiori marchi dell'elettronica.
Accanto a una approfondita analisi delle condizioni di vita e di lavoro
nelle fabbriche dislocate in Cina, il volume propone due contributi
sulle esperienze lavorative nella Repubblica Ceca e in Polonia.
gli autori
Ralf Ruckus, Pun Ngai, Han Yuchen, Guo Yuhua, Lu Huilin, Su Yihui, Xu
Yi, Xu Hui, Deng Yunxue, Jin Shuheng, Liang Zicun, Bao Chengliang, Li
Changjiang, Dong Junyan, Cheng Pingyuan, Wan, Liu Jing, Liu Ya, Yang
Qingfeng, Shen Yuan, Li Li, Jenny Chan, Mark Selden, Shen Hong, Rutvica
Andrijasevic, Devi Sacchetto, Amici e amiche di Gongchao
i curatori
Ferruccio Gambino ha insegnato presso l'Università di Padova, negli
Stati Uniti e in Francia. Tra i suoi lavori: Migranti nella tempesta
(ombre corte, 2003). Con Devi Sacchetto ha curato l'edizione italiana di
Pun Ngai, Cina, la società armoniosa (Jaca Book, 2012).
Devi Sacchetto è ricercatore di Sociologia del lavoro presso
l'Università di Padova. Tra i suoi lavori: Fabbriche galleggianti (Jaca
Book, 2009) e, per i nostri tipi, Il Nordest e il suo Oriente (2004).
La macchina umana
Made in China. La Foxconn è il maggiore datore di lavoro al mondo. Un libro, «Nella fabbrica globale», di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto (edito da ombre corte), svela la nuova schiavitù che si nasconde dietro il vertiginoso aumento del profitto
Simone Pieranni, 18.2.2015
«Ogni giorno eseguo dalle quattromila alle cinquemila volte lo stesso movimento», racconta un’operaia della Foxconn. Ogni giorno, un lavoratore impiegato in una delle fabbriche Foxconn, compie dai 18mila ai 20mila movimenti per turno. Lo fa in una posizione di lavoro limitata, minuscola, isolata dal resto delle persone, controllata e sorvegliata. Non si può ridere, non si può parlare. Si devono raggiungere gli obiettivi di produzione. Se non ci si riesce, si lavora di più. E quel tempo in più, non è straordinario, non viene pagato. Poi si va nel dormitorio, dove non si lavora, ma non si vive certamente liberi. Macchine, automi, piccoli componenti di processi tayloristici e fordisti che tradotti in mandarino significano: ridurre i costi del lavoro. E aumentare il profitto. Dietro agli automi c’è naturalmente un’umanità, vera, carnale, nonostante sia schiacciata dalla schiavitù economica e morale, sancita dai dormitori dove il lavoro non recede, ma permea e asfissia – attraverso la disciplina — ogni momento della propria vita. Sia in linea, sia in camera, si è sottoposti a un ordine, a regole e a un destino bizzarro: ci si aliena per produrre un bene che poi si brama (ad esempio gli smartphone). Dall’altro lato, nelle stanze dei padroni, tutto è scontato: c’è chi deve sottomettersi e subire angherie, senza ottenere alcuna soddisfazione, se non un magro stipendio. Ma con gli stessi strumenti che si producono, ci si organizza e ci si ribella.
La parola «detta»
Ecco come si è sviluppato il processo di crescita cinese, nella sua fase di «fabbrica del mondo»: unendo la velocità d’esecuzione, la sottomissione e l’atomizzazione. C’è molto turn over nelle fabbriche Foxconn: non è un problema in un paese di un miliardo e 400 mila abitanti, desiderosi di diventare «cittadini». Questo processo, su cui lo Stato cinese ha costruito la propria fortuna, non senza costi in termini ambientali e di tensioni sociali, lo spiega perfettamente un volume pubblicato da ombre corte, Nella fabbrica globale, Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn, a cura di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto (pp 230, 20 euro). Si tratta di un volume composito, fatto di narrative journalism, di testimonianza e concepito tra analisi, inchiesta e attenzione a quanto accade anche al di là dei confini, seppure vasti, della Repubblica popolare cinese.
I meriti di questo libro sono tanti. Il primo è quello di entrare nel cuore delle fabbriche e soprattutto parlare con i lavoratori cinesi, un metodo infallibile per capire cosa succeda là dentro. Ambiti di cui spesso abbiamo notizie solo attraverso foto. «La Foxconn – come riassumono gli autori — è un’impresa controllata dalla società Hon Hai Precision Industry, fondata nel 1974 da Terry Gou». Oggi è il maggior datore di lavoro al mondo, con i suoi 1,3 milioni circa di occupati. Oltre un milione lavorano in Cina.
Tra il gennaio e il dicembre del 2010, presso la Foxconn, sono avvenuti 18 tentativi di suicidio con 14 morti e 4 feriti. «La tragedia della cosiddetta “serie di salti”, come è stata battezzata dai media, ha destato grande scalpore». Si tratta, seppure in forme diverse, del risultato delle presunte irregolarità dell’azienda. Parliamo — come scrivono Pun Ngai, Han Yuchen, Guo Yuhua e Lu Huilin nel primo capitolo — di superamento del limite massimo di ore di straordinario, sospetto di infrazione della legge sul lavoro per quanto riguarda il pagamento degli straordinari. La Foxconn è stata anche sospettata di aver violato le norme sui tirocinanti, sulla sicurezza sul lavoro e la prevenzione e il trattamento delle malattie professionali (e a questo proposito il libro presenta testimonianze di vittime di infortuni sul lavoro, mai ricompensati dall’azienda).
Il riposo sorvegliato
«Operaie e operai di produzione sono alloggiati in otto in una camera di circa trenta metri quadri, con un bagno separato». Succede nel dormitorio di Wuhan, uno degli esempi portati dagli autori del libro. Un altro elemento rilevante del «mondo Foxconn» è, infatti, quello relativo al «dormitorio» che non è un luogo di riposo bensì il prolungamento del banco da lavoro e della catena di montaggio. All’interno, vige un regime rigido. «Operaie e operai non possono lavare per conto loro i vestiti e nemmeno usare l’asciugacapelli; alle 23 al più tardi devono essere rientrati al dormitorio perché in caso di trasgressione incombe la punizione». A essere spezzate sono le relazioni sociali.
«Una produzione intensiva, bassi salari, un sistema di disciplinamento severo così come una divisione sociale e lavorativa degli occupati caratterizzano la situazione negli stabilimenti. La direzione della multinazionale dà infatti per scontata la lesione della dignità degli operai e delle operaie per risparmiare sui costi». La Foxconn fa lavorare le proprie fabbriche per 24 ore al giorno, attraverso due turni: dalle 8 alle 20 e dalle 20 alle 8, il 73% degli impiegati lavora più di dieci ore. «Siamo come granelli di polvere — dice un’operaia -. Se te ne vai tu, viene qualcun’altra e fa il tuo lavoro. In questa fabbrica noi operai/e di produzione non contiamo. Siamo solo un attrezzo di lavoro». In un libretto con le norme di comportamento, come fossero citazioni militaresche e parafasciste di Terry Guo il boss, si legge: «I sottoposti devono assolutamente obbedire ai superiori».
Bagong! (Sciopero)
Nel settimo capitolo, Jenny Chan, Pun Ngai, Mark Selden si occupano delle rivendicazioni nelle fabbriche Foxconn. Secondo il loro parere, «le lotte operaie in Cina sono aumentate a partire dalla metà degli anni ’90 e si sono evolute qualitativamente. Sono degne di nota soprattutto le richieste di aumenti salariali oltre il livello minimo locale». Dopo tutto il patimento descritto nei capitoli precedenti, questa parte del libro costituisce una sorta di sollievo.
Può esistere una coscienza di classe tra i giovani che lavorano alla Foxconn? E che tipo di lotte si sono svolte, con quali obiettivi? Il 3 gennaio 2012 – ad esempio — ci fu una delle proteste più clamorose: più di centocinquanta lavoratori insorsero contro «la pessima distribuzione delle mansioni» e misero in scena lo «show del salto dall’edificio» (tiao lou xiu), un modo di dire che mischia termini cinesi (tiao: saltare, lou: edificio) e termini inglesi: xiu che qui sta per show.
Minacciavano di buttarsi dall’edificio della fabbrica se i manager non avessero risolto le questioni salariali. Negli ultimi due anni, tante altri scioperi e rivendicazioni hanno contraddistinto le fabbriche Foxconn. Proteste organizzate con passaparola, smartphone, applicazioni.
Modello da esportare
Ora immaginatevi tutto questo in Europa. È questo il salto della Foxconn: la sinizzazione del mondo del lavoro (almeno nei paesi dove si è stabilita e di cui si sa molto poco, come Turchia, Russia, Ungheria). Nel capitolo nono del volume, Rutvica Andrijasevic e Devi Sacchetto si occupano della Foxconn in Europa, in particolare in Repubblica Ceca, dove si sta sviluppando un’importante industria elettronica. La Foxconn può così espandersi e produrre per il mercato occidentale utilizzando la più prestigiosa dicitura «made in Eu». Una prima constatazione: «La Foxconn, come le altre imprese straniere collocate nella Repubblica Ceca, ha potuto contare su una vera e propria ’macchina statale’ messa in campo per attrarre gli investimenti stranieri». Richiesta di soldi asiatici, chiudendo un occhio sui diritti dei lavoratori, con risultati negativi per tutti. La Foxconn ha finito per imporre salari medi inferiori a quelli precedenti. Come in Cina, inoltre, la produzione è basata sulla «velocità d’esecuzione». Capireparto e capilinea mettono sotto pressione i lavoratori per mantenere elevato il ritmo produttivo. I turni sono di 12 ore, le condizioni di lavoro e le pressioni portano anche a un elevato numero di incidenti e infortuni. E anche in Repubblica Ceca, per gli interinali – che costituiscono il 60% degli occupati — esistono i dormitori.
Nelle conclusioni, emerge il punto focale cui mira tutto il volume. Gli autori ritengono si debba insistere nell’analisi della produzione globale della Foxconn. I due mondi, quello cinese e quello europeo, sono molto più vicini di quanto si possa pensare. Non si tratta solo di bassi salari, di tempo di lavoro, di pressioni e disciplina. Si tratta di capire come la Foxconn gestisca la sua forza lavoro globale.
Corpi sotto stretta disciplina
Focus Foxconn. La fabbrica cinese di elettronica rifornisce le maggiori multinazionali del settore, dall'America al Giappone, scippando del tutto la vita ai suoi lavoratori
Daniele Brigadoi Cologna, 18.2.2015
Foxconn, azienda controllata dal conglomerato multinazionale cinese-taiwanese Hon Hai che suscitò scalpore alcuni anni fa per la serie di suicidi (18 tentati suicidi, 14 morti nel 2010) verificatisi nella sua sede di Shenzhen, è famosa per il suo ruolo di snodo chiave nella manifattura in subappalto di prodotti elettronici di alta gamma. Il suo committente più celebre è la Apple, ma vi si rivolgono tutte le maggiori multinazionali dell’elettronica americane, sudcoreane e giapponesi.
Per mesi, la «fabbrica-lager» fu al centro di un dibattito internazionale sul dilagare di condizioni di lavoro che violavano i diritti umani degli operai nei paesi in cui le maggiori aziende del settore installano le proprie «fabbriche del mondo». Venne stigmatizzato il cinismo delle grandi corporation, l’ipocrisia delle loro campagne mediatiche. Fu lanciata una campagna di boicottaggio, mentre le denunce del regime quasi schiavistico di lavoro accrebbe indubbiamente la sensibilità e l’attenzione del pubblico sia in Cina che negli altri paesi che utilizzano i prodotti assemblati o parzialmente realizzati dalla Foxconn. Qualcuno fece anche notare che all’epoca dei suicidi, l’azienda in questione aveva 930.000 addetti, che il tasso di suicidi nella società cinese è molto alto, che la forza lavoro – non soltanto nelle aree in cui si produce per l’esportazione — è inquadrata in regimi occupazionali, retribuitivi e di protezione sociale assai più penalizzanti per il lavoratore di quelli in vigore nelle fabbriche del gigante taiwanese della produzione in subappalto.
Docili e disponibili
La vera «notizia» – e lo scandalo più eclatante – forse era un altro, ovvero il regime stesso della produzione globalizzata, la complessa interazione di biopolitica e desiderio che permette ai protagonisti dell’economia mondiale (corporation, certo, ma anche interi sistemi produttivi nazionali) di aggiogare alla massimizzazione dei loro profitti e alla conquista di quote di mercato che hanno anche risvolti di carattere geopolitico le ambizioni di riscatto sociale personale e famigliare di milioni di ex contadini e aspiranti consumatori urbani. Non solo in Cina, non solo nell’ambito delle aziende che producono le protesi cognitivo-comunicative di cui non possiamo più fare a meno, ma in tutti i paesi in cui urbanizzazione, transizione demografica, incremento dei livelli d’istruzione e del reddito medio pro-capite rendono disponibile (e volenterosa, docile) forza lavoro un tempo vincolata al lavoro agricolo o segregata entro le mura domestiche.
La possibilità che Foxconn incarni un paradigma caratterizzante del capitalismo globale contemporaneo ispira la ricerca sul campo realizzata in questi anni da un gruppo di ricercatori pionieristico per la sua composizione, dato che i suoi coordinatori — Pun Ngai, Lu Huilin, Gu Yuhua e Shen Yuan — sono originari di tre diverse società cinesi (RPC, Hong Kong e Taiwan), oggi più che mai interconnesse a livello economico e politico, malgrado le rispettive caratterizzazioni politico-istituzionali ed ideologiche.
Il loro lavoro è confluito in un volume collettaneo intitolato Io sto alla Foxconn, pubblicato a Pechino nel 2012. L’anno seguente Ralf Ruckus ne ha curato l’edizione tedesca, il cui titolo ha optato per un registro assai più provocatorio: iSlaves. Sfruttamento e resistenza nelle fabbriche cinesi della Foxconn. L’edizione italiana, curata da Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto, presenta questo lavoro con un titolo che ne rispecchia al meglio il valore per una migliore comprensione di come vanno configurandosi i rapporti di produzione nell’economia globalizzata e la segmentazione internazionale dei mercati del lavoro che ne deriva. Edito da ombre corte, La Foxconn e il regime della fabbrica globale rappresenta uno stimolo necessario e urgente alla presa di coscienza su cosa stia diventando il lavoro per una quota sempre più rilevante della popolazione attiva planetaria. Specialmente per i suoi segmenti più giovani, soprattutto per le donne.
I nodi da sciogliere
Tra gli spunti di riflessione numerosi che questo cospicuo esempio di public sociology – il progetto di ricerca è molto ampio e coinvolge una sessantina di ricercatori e studenti di una ventina di università nei tre contesti citati – offre al lettore, spiccano tre elementi particolarmente significativi. Il primo è l’ispirazione metodologica: è difficile pensare a esempi paragonabili di ricerca sociale promossa dall’accademia, massicciamente partecipata e messa al servizio di un tema che non solo caratterizza l’impianto socioeconomico generale, ma investe l’intera collettività per le implicazioni sociali ed etiche della violenza che esercita sulle fasce più fragili e numerose della popolazione. Il fatto che poi tale ricerca intersechi delicatissime linee di faglia politiche del complesso mondo cinese contemporaneo – rese palpabili negli ultimi tempi in seguito al protrarsi delle proteste di Occupy Central a Hong Kong e alla volatilità del dialogo politico tra Pechino e Taipei – la rende tanto più apprezzabile e necessaria.
Il secondo elemento è l’impatto che le componenti di denuncia di questo lavoro potranno avere nei tre contesti considerati sul piano comunicativo, sociale e politico. In Cina la nuova leadership del Partito comunista sostiene di avere a cuore lo sviluppo di maggiori tutele nei confronti dei lavoratori, ma nel contempo le sue politiche di inurbamento accelerato della popolazione rurale, con la promozione di piccoli e medi centri urbani che possano da un lato decongestionare le metropoli e dall’altro evitare che le campagne si trasformino in discariche sociali, non fanno altro che fornire nuove api operaie all’arnia del capitalismo di stato. Quali margini esistono in Cina, a Taiwan e Hong Kong per la nascita di movimenti operai che possano mettere in discussione il ruolo egemone del capitale e della politica sulle loro condizioni di vita e di lavoro?
Infine, la terza questione che il testo tocca costantemente ma forse non esplora fino in fondo, è il nesso che l’organizzazione del lavoro all’interno delle «fabbriche del mondo» presuppone tra la disponibilità del lavoratore (e in particolare della lavoratrice) a piegarsi a una certa visione del rapporto vita/lavoro, imperniata sulla disciplina stretta dei corpi, degli spazi di vita, delle possibili espressioni del sé sia personale che collettivo, delle diverse declinazioni di pubblico e di privato, e il regime biopolitico più ampio e generale in cui si iscrive la vita delle persone nella società cinese di oggi, soprattutto nei centri urbani.
Un modello totalizzante
Si tratta di un regime che si apprende nel contesto famigliare e a scuola, reiterato dai media e dalla comunicazione pubblica, dal linguaggio dei servizi pubblici e delle aziende, dalla stessa configurazione fisica dei luoghi e degli spazi destinati all’abitazione, all’apprendimento, al lavoro. La fabbrica globale si colloca su di un continuum di controllo della vita delle persone che capitale privato e tutela pubblica generano e reinterpretano in controcanto vicendevole (e forse perfino inconsapevole), coartando la volontà degli individui senza troppe scosse, erodendo in modo pervasivo le resistenze latenti, reprimendo decisamente quelle manifeste: ed è questa forse la dimensione più inquietante che il caso Foxconn racconta del nostro presente.
Nessun commento:
Posta un commento