Risvolto
«Nessun “Bretton Woods moment” in vista. Troppe convergenze in quella finestra della storia; troppe circostanze favorevoli, perché si possa sperare in una nuova Bretton Woods, e troppe persino per poter individuare in quel sistema un modello per il futuro. Ma di miti, oltre che di eroi, il mondo contemporaneo sembra aver bisogno»
Keynes? Non era un keynesiano
Considerarlo come l’apostolo di uno Stato con le mani bucate non gli rende giustizia: è uno dei grandi pensatori del ’900di Fabrizio Galimberti Il Sole 15.2.15
«No, l’economista non è il re, è vero. Ma dovrebbe esserlo! È un governante migliore e più saggio del generale o del diplomatico o dell’avvocato declamatore. In questo mondo moderno e sovrapopolato, che può continuare a vivere solo con sottili aggiustamenti, l’economista non è solo utile ma necessario.
Mi devo fermare qua e corro a imbucare.
Un abbraccio,
Maynard».
Questa simpatica letterina era stata mandata da Keynes alla moglie, Lydia Lopokova. Dopo anni di avventure omosessuali, Keynes si accasò con questa ballerina russa, uno spirito libero che, come Anna Maria Carabelli e Mario Aldo Cedrini ricordano nell’incipit di un brillante saggio (Secondo Keynes), danzava di notte nei corridoi di quel Mount Washington Hotel che nel luglio del 1944 ospitò, a Bretton Woods, uno dei più importanti incontri del “secolo breve”. La letterina accampa una pretesa che pare, appunto, pretenziosa. Ma John Maynard Keynes è stato molto più che un economista. Ha cavalcato da par suo quella che John Hemingway chiamò la «hard countenance of the age», ha legato economia, politica e storia lasciando un’impronta indelebile nelle convulse temperie del Novecento. E non solo. Come sostengono i due autori (per brevità li chiameremo “CC”) oggi dobbiamo ancora rifarci a Keynes, alle sue intuizioni e ai suoi progetti, compiuti e incompiuti.
Vi è stato un tempo quando di Keynes si parlava poco – o peggio. L’economista americano Robert Lucas (Premio Nobel dell’economia 1995) disse, un terzo di secolo fa (nel 1980): «Non è possibile trovare bravi economisti sotto i 40 anni che si identificano - essi stesso o il loro lavoro - come keynesiani... Nei seminari la gente non prende più sul serio le teorie keynesiane. Se uno le menziona, sorgono mormorii e sorrisetti». Era il tempo delle aspettative razionali e dei mercati efficienti. Ma quando scoppiò il disastro - la Grande recessione - i governi non ci pensarono due volte ad applicare le ricette di Keynes: allentarono i cordoni delle borsa - meno tasse e più spese - per sostituire la mancata spesa dei privati con le erogazioni dello Stato, lo spenditore di ultima istanza. Magari poi gli anti-Keynes più cocciuti sparano ancora dicendo che i rimedi sono stati peggiori del male, e ci hanno consegnato una eredità di deficit e debiti pubblici; ma evitano accuratamente di dire che cosa avrebbero fatto di diverso (speriamo che il diverso non sia quello che propugnava Andrew Mellon, il Segretario al Tesoro americano dopo la crisi del 1929: «Liquidate il lavoro, liquidate le azioni, liquidate gli agricoltori, liquidate l’immobiliare ... spazzerà via il marcio dal sistema...»).
Ma CC non si occupano del ritorno del Keynes “keynesiano”. E apriamo qui una parentesi. Così come Marx un giorno esclamò, infastidito dalle posizioni di alcuni suoi accoliti, che lui non era un marxista, Keynes non era un keynesiano nel senso spicciolo del termine (lo Stato deve spendere e spandere per supportare l’economia...): come scrivono CC, «contrariamente alla vulgata che lo considera, semplicemente, il padre del keynesismo che pure non vide (Keynes morì nel 1946) e di cui non è, appunto, il padre... Keynes non è un keynesiano, come tutti gli studiosi di Keynes si affannano a ripetere, con scarso successo, dai tempi dello studio di Axel Leijonhufvud del 1968». Considerare Keynes come l’apostolo di uno Stato con le mani bucate non rende giustizia a uno dei grandi pensatori (non solo economici) del Novecento.
CC vedono l’attualità di Keynes in un aspetto trascurato della sua “economia politica”: il suo internazionalismo, il suo appassionato dibattere sulle fattezze ideali di un sistema monetario internazionale. Il sottotitolo di questo breve e succoso pamphlet - Il disordine del neoliberismo e le speranze di una nuova Bretton Woods - riporta a quel negoziato di Bretton Woods in cui Keynes uscì sconfitto nel suo tentativo di ridisegnare un’architettura dei rapporti finanziari fra le nazioni che potesse tener testa ai problemi presenti e futuri. Keynes voleva, essenzialmente, una simmetrica responsabilità nel controllare gli sbilanci dei pagamenti fra una nazione e l’altra. A un onere che viene addossato a una parte sola - i Paesi in deficit -il Nostro voleva sostituire una corresponsabilità del risanamento: i Paesi debitori dovevano sì stringere la cinghia, ma i Paesi creditori dovevano allargarla. Vi è qui un elemento di straordinaria attualità, come giustamente nota CC. La crisi europea è attizzata dal mercantilismo moralista della Germania, che vuole l’austerità per i Paesi devianti sul fronte dei bilanci pubblici, ma non vuole assumersi la sua parte del compito: espandere la propria domanda interna per facilitare gli aggiustamenti.
Keynes avrebbe approvato quella regola che l’Unione Europea si è data, la «Macroeconomic Imbalance Procedure», che stabilisce come un Paese non debba superare il limite del 6% del Pil nell’avanzo corrente. Regola che da sette anni la Germania trasgredisce, senza che venga messa sotto accusa.
Seconda attualità: lo schema di Keynes per un fondo di stabilizzazione dei prezzi delle materie prime. Due delle tre grosse crisi dell’economia mondiale nel dopoguerra sono state causate dal prezzo del petrolio. E anche il crollo attuale, benvenuto ma troppo rapido, rischia di portare altre dislocazioni.
Keynes era soprattutto, come lo definisce CC, «un pensatore della complessità». E non aveva illusioni sulle certezze dell’economia. L’economia è «un metodo anziché una dottrina», scrisse nella Teoria Generale , e l’essenza sta - CC cita da quel grande libro - nella capacità di «ritornare sui nostri passi», «dopo aver raggiunto una conclusione provvisoria isolando a uno a uno i fattori di complicazione», per poter così «tener conto come meglio possiamo delle probabili reazioni reciproche dei fattori considerati». Chissà, forse è per questo che Churchill si permise di punzecchiare Keynes. Echeggiando, ben prima di Truman, l’esasperazione del politico che chiede pareri ai consiglieri, disse: «Quando chiedo a due economisti la loro opinione su un problema, ho due risposte diverse.
A meno che uno dei due non sia Keynes, nel qual caso avrò tre opinioni».. .
fabrizio@bigpond.net.au
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