«Qui stretti in famiglia giuriamo guerra eterna di sterminio a quelle belve vestite di umana forma, ai crudeli che questa terra dilaniano che, non sazi dei nostri tesori, il sangue stesso ci succhiano. Vendetta! Vendetta! Lo giuriamo!». È una pagina di unmélodel 1848, dove una giovinetta di forte tempra morale giura di combattere il nemico austriaco che opprime, sevizia, perseguita la patria succube da secoli dello straniero.
Una straordinariaesaltazione percorre in Italia le battaglie risorgimentali, mentre il lessico delle emozioni e dei sentimenti invade la politica. Persino i più moderati tra i patrioti utilizzano linguaggi, narrazioni, gestualità che risuonano di enfasi e di estremismo etico e si richiamano a quella immaginazione melodrammatica che, dalla fine del Settecento, attraversa in tutta Europa il teatro e la letteratura di finzione. È dunque sulle scene di Parigi, di Londra e di Milano che inizia il percorso di questo volume, perché è lì che per la prima volta si propongono testi insieme lacrimevoli e spettacolari, adatti a un pubblico largo e non acculturato. Ma è nell’Italia del 1848 che il melodramma della nazione esprime al meglio le sue potenzialità, permeando di sé i discorsi e la comunicazione politica, come le pratiche e i corpi dei patrioti, in un crescendo di pathos e teatralità.
Basandosi su una documentazione inconsueta – romanzi e testi teatrali minori, storie d’Italia narrate al popolo, giornali di moda e di teatro, materiali di propaganda – Carlotta Sorba esplora l’intreccio tra politica e mélo, gettando una luce nuova sugli strumenti espressivi della politica moderna e sulle loro radici storiche.
Dal teatro alla piazza I patrioti del risorgimento s’ispiravano agli eroi protagonisti del melodramma
Paolo Mieli Martedì 3 Febbraio, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Nel 1848 Joseph Alexander conte di Hubner si trovava a Milano su mandato di Metternich per sondare gli umori della città che preparava l’insurrezione delle Cinque giornate (18-22 marzo) e si stupì di tutti quei patrioti «vestiti alla spagnuola: cappello andaluso ornato di piume di struzzo, giacca di velluto, guanti paglierini». Poi, il 20 marzo, a rivolta iniziata, tornò sull’argomento: «Codesti signori, come tutti i loro compagni d’armi, portavano un costume di fantasia abbastanza pittoresco che si sarebbe detto tirato fuori dalla guardarobe del teatro dell’Opéra». I rivoltosi gli apparivano come «una folla variopinta»: «Preti molti, col cappello a larga tesa, fregiato di una coccarda tricolore, ed una spada o una sciabola in mano; signori in giustacuore di velluto copiato da un Velázquez o da un Paolo Veronese, alcuni mezzo ravvolti nella capa, che oggi si vede soltanto ai balli in maschera, e conosciuta sotto il nome di mantello alla veneziana, tutti con la fronte ombreggiata dal sombrero, sormontato da un enorme pennacchio o da una grossa piuma di struzzo; borghesi portanti il cappello alla calabrese, o, in onore di Verdi, il cappello all’Ernani».
Stesso genere di osservazioni da parte del gentiluomo inglese (di simpatie Tory) Charles MacFarlane, che passò da Ancona di ritorno da Malta: ho incontrato, scrisse, alcuni bizzarri personaggi per la maggior parte «fieramente baffuti e con lunghe barbe, quasi tutti abbigliati con le uniformi della guardia nazionale o con cappelli militari di fantasia per mostrare di essere cittadini-soldati». MacFarlane sosteneva essere evidente che «le opinioni politiche erano anche fortemente pronunciate nei copricapo: i liberali portavano i cappelli di molte e varie fatture; avevano i loro Chapeau à la Robespierre, i loro Chapeau repubblicani, i loro Chapeau “alla calabrese”, per la gran parte decorati con fiocchi e coccarde tricolori».
Anche Giuseppe La Farina, descrivendo le Cinque giornate di Milano, racconta di essersi sorpreso per un assalto compiuto dai patrioti alla collezione di armi antiche di Ambrogio Uboldo per la smania di portar via lance, alabarde, spade «sino ad allora adoprate da cantatori e da mimi sulle scene della Scala e della Canobbiana». Giovanni Visconti Venosta nei suoi Ricordi di gioventù — pubblicato nel 1904 — ricorda lo stupore per il fatto che «anche ad alcuni uomini seri non era sembrato strano vestire a un dipresso a quel modo»; non dovette apparire stravagante neppure a Cesare Correnti, segretario generale del governo provvisorio milanese del 1848, che si presentò «vestito di velluto alla lombarda con la fusciacca tricolore a tracolla e una sciabola al fianco». Un giornale torinese, «La Concordia» diretto da Lorenzo Valerio, pubblicò, a mo’ di suggerimento politico, una «foggia d’abito alla Lombarda proposto a tutti gli italiani». Domenico Piva, futuro volontario garibaldino, notava che ai funerali dello studente patriota Giuseppe Placco di Montagnana, il 7 febbraio 1848, a Padova, «i più» erano vestiti con «larghi pantaloni di velluto nero, giubba pure di velluto attillata, mantello nero anch’esso di velluto, portato perfettamente all’Ernani, cappello di feltro a larga tesa con piuma nera e fibbia nel davanti». Luigi Cicconi su «Il Mondo Illustrato» dava una patente politica rivoluzionaria a questo modo di vestire, pur vedendosi costretto ad ammettere che «negli altri anni sarebbe stata una mascherata». A Venezia la direzione di polizia proibiva «la fabbricazione e lo smercio» dei cappelli più eccentrici. A Milano, il divieto era più specifico: «Si è adottato da taluno l’uso di portar Cappelli detti alla Calabrese, alla Puritana, all’Ernani … Non potendosi tollerare l’uso stesso, lo si proibisce assolutamente sotto la comminatoria agli inobbedienti dell’immediato arresto».
Una vera e propria «ossessione per il simbolismo vestimentario» permea i movimenti di opposizione nel corso della prima metà dell’Ottocento, scrive Carlotta Sorba nell’interessantissimo Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento , edito da Laterza. In particolare nel triennio 1846-49. Il libro (che ha come unico neo il ricorso, quasi ad ogni pagina, del termine «narrazione») descrive come i rivoluzionari del 1848 vestissero preferibilmente «alla Ernani». Si ispiravano cioè all’omonima opera di Giuseppe Verdi che raccontava la storia di Giovanni d’Aragona, il quale — nella Spagna dei primi del Cinquecento — per vendicare l’uccisione del padre si mise alla guida di una banda di briganti e ordì un complotto contro il re Carlo. L’opera, su un libretto di Francesco Maria Piave tratto dal dramma di Victor Hugo, fu messa in scena la prima volta alla Fenice di Venezia il 3 marzo del 1844. Nel volgere di pochi mesi l’ Ernani aveva avuto un grande successo. L’accostamento «tra la figura del bandito Ernani e l’immagine del cospiratore», scrive Sorba, doveva essere «immediato per i contemporanei, ben diversamente da quanto accade a noi oggi, fornendo un’efficacia comunicativa altrimenti poco comprensibile all’uso del cappello piumato». Qualcuno, come un articolista del «Ricoglitore fiorentino», già nell’ottobre del 1846 aveva protestato contro l’eccesso di entusiasmo suscitato dall’opera verdiana: «Io ve lo dico in un orecchio, ma sono un po’ stufo di quest’ Ernani . Andate alla Pergola, si canta l’ Ernani , andate alla Piazza Vecchia, si fa l’ Ernani , per riposarvi l’udito fuggite al Teatro di prosa, ma ecco l’orchestra che, tra un atto e l’altro, vi strapazza l’inevitabile Ernani ».
Altra opera a cui si attingeva per i modelli di vestiario e soprattutto copricapo fu I puritani di Vincenzo Bellini (1835) su un libretto dell’esule Carlo Pepoli ispirato a un romanzo di Walter Scott. Anche in questa occasione, rileva la Sorba, «si tratta dell’immagine di un bandito dietro cui si cela un cavaliere». Bizzarro è il riferimento alla foggia di berretto «alla calabrese», che era comparso la prima volta nel 1799 tra le bande sanfediste del cardinale Ruffo per essere poi «riscoperto» in chiave rivoluzionaria nel 1847, in omaggio ai patrioti mazziniani fucilati in Calabria il 2 ottobre di quell’anno. In quello stesso 1847, Verdi era tornato a proporre nei Masnadieri una figura per certi versi simile a quella di Ernani. Tratta liberamente dai Briganti di Friedrich Schiller, l’opera raccontava la storia di Carlo, un giovane nobile dalle idee rivoluzionarie che decide di aggregarsi ad una banda di malfattori di cui sarebbe divenuto il capo. Sempre animato da nobili intenti, beninteso. E qui dovremmo soffermarci, più di quanto sia stato fatto finora, sull’importanza per la storia del nostro Paese di quell’archetipo che tiene assieme malavita, risorgimento e rivoluzione. Ma torniamo al melodramma.
La Sorbi si rifà a un libro di Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica (Pratiche editrice), nel quale l’autore ben descrive quelle particolari «forme espressive caratterizzate da un’estrema amplificazione emozionale, da un deciso manicheismo morale e dall’equazione tra vittima e virtù, in cui la sofferenza diviene segno immancabile di rettitudine morale». Il tutto riconducibile non già, come si potrebbe credere, all’opera lirica, bensì a un genere che si era diffuso nei teatri parigini tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento: il mélodrame . L’inventore fu Jean-Baptiste Nicolet, che nel 1764 aveva fatto costruire una sala sul Boulevard du Temple per la messa in scena di rappresentazioni, fatte di un mix di canti, danze, combattimenti e pantomime, atte a provocare grandi emozioni e a conquistare un vasto pubblico. Un pubblico popolare, certo, quale si può vedere in un quadro di Louis-Léopold Boilly, L’entrata nel teatro dell’Ambigu-Comique in una rappresentazione gratuita (1819). Ma che si allargò a personalità come Honoré de Balzac, Denis Diderot, Sébastien Mercier, la contessa Du Barry favorita di Luigi XV nonché Madame de Staël. E, trasportato in terra tedesca, a Gotthold Ephraim Lessing, Friedrich Schiller.
Per Voltaire, Diderot e D’Alembert il teatro era il mezzo più adatto per diffondere le idee dell’Illuminismo e il mélodrame costituiva un’occasione formidabile per farle diventare di massa. Di diverso avviso Jean Jacques Rousseau che in una celebre lettera a D’Alembert mise in guardia dall’ «artificialità dell’appello emozionale agli spettatori proveniente dai palcoscenici». Oggetto di grande attenzione sarà poi Coelina, ou l’enfant du mystére capostipite del «mélodrame» messa in scena all’Amigu-Comique di cui al quadro di Boilly. L’iniziativa del Boulevard du Temple, fu presto imitata anche a Londra e a Vienna dove, a seguito della liberalizzazione teatrale disposta da Giuseppe II, erano nati, al di fuori delle mura urbane, i Vorstadttheater «sale commerciali non sovvenzionate che attiravano un pubblico vario, numeroso e crescente».
La Rivoluzione francese fece il resto. In Francia — come emerge dagli studi di Philippe Bourdin — furono messi in scena non meno di quindici «melodrammi» di «storia immediata», all’evidente scopo di favorire «una sovrapposizione tra la strada e la scena». Lo stesso accadde in Inghilterra con rappresentazioni che irridevano dapprima alla presa della Bastiglia e poi a Napoleone. Qualcosa di simile accadde a Milano dove nel 1797 andò in scena Il General Colli in Roma di Francesco Saverio Salfi, che raccontava la storia di un immaginario pontefice convertito alla causa rivoluzionaria e che si metteva sulla testa un berretto frigio. A vedere Il General Colli era accorsa una gran folla di persone ben diverse da quella che abitualmente frequentavano il teatro. Nei primi anni dell’Ottocento, scrive Sorba, «si mette in moto nei teatri dei boulevard una vera e propria fabbrica del sentimento, che produce centinaia di testi e migliaia di allestimenti dai dispositivi spettacolari molto simili». Arrivò a lamentarsene Balzac, che nel 1834 si dispiacque di non fare in tempo a dare alle stampe un nuovo volume «che le sue invenzioni letterarie diventavano subito spettacolo teatrale» e questo finiva per «limitare le vendite dei libri». Quando Balzac scriveva, però, il fenomeno in Francia e nel resto d’Europa s’era in qualche modo stabilizzato. Non così da noi, dove dalla prima metà dell’Ottocento fu tutto un fiorire di rappresentazioni che inserivano storie lacrimevoli nel contesto di episodi storici.
Così, dalla vicenda duecentesca dei Vespri in cui il popolo siciliano si era rivoltato contro il dominio francese, fino all’epica vittoria dei Comuni della Lega lombarda sui germanici del Barbarossa, alla rinascimentale disfida di Barletta tra cavalieri italiani e francesi fino alla morte eroica di Francesco Ferrucci nell’assedio di Firenze ad opera delle truppe imperiali di Carlo V, numerosi episodi della nostra storia «finirono per costituire la trama figurale di un percorso verso l’indipendenza dalla straniero». Trama che entra nelle coscienze di alcune élite italiane, inducendo i nostri progenitori a immaginare quella che Carlotta Sorba definisce «una rivoluzione altamente teatrale».
In Francia accadde qualcosa di leggermente diverso. Nel 1848 gli insorti francesi si ispireranno alla presa della Bastiglia: Alexis de Tocqueville scriverà nei suoi Ricordi (1850) che gli era parso che gli insorti francesi stessero «mettendo nuovamente in scena» la rivoluzione del 1789. Per poi aggiungere con una punta di irrisione: «Si cercava di riscaldarci con le passioni dei nostri padri, senza riuscirvi; se ne ricalcavano i gesti e le pose, quali le avevamo viste a teatro… Benché scorgessi chiaramente che l’epilogo del dramma sarebbe stato terribile, non potei mai prendere troppo sul serio gli attori, e il tutto mi parve una pessima tragedia recitata da istrioni di provincia».
Da noi, i rivoltosi del 1848, faranno la stessa operazione con molteplici riferimenti a quelli che considerano i loro predecessori di cinque o seicento anni prima. Andrà a finire, scrive la Sorba, che tutto questo modo di mettere in scena la propria «rivoluzione» sarà effimero e che «né l’abito all’italiana né i copricapo patriottici avranno un futuro» come era successo invece al berretto frigio o alla camicia rossa, vere e proprie «riserve di senso» variamente sfruttate e sfruttabili in diverse forme e sviluppi. E alcune esagerazioni lasceranno un retrogusto amaro. Nel 1849, un «almanacco comico-insurrezionale» di ispirazione mazziniana ironizzerà così sui modi di vestire della stagione da poco giunta a conclusione: «L’anno passato, in aprile, si credeva che le nostre sciarpe tricolori bastassero a far fuggire a rompicollo il nemico; ma quest’anno in aprile si crederà a più ragione che le nostre fasce sieno buone, se troppo lunghe, a far inciampare chi le porta… Altro che fasce: forche e cannoni, e allora avremo la Pasqua di Risurrezione». Qualcosa di quelle antiche trame si ritroverà nei film di inizio Novecento: Eroico pastorello (1910) su un giovane siciliano che si unisce ai mille di Giuseppe Garibaldi, Stirpe di eroi (1911) su due adolescenti che danno la vita per difendere la Repubblica romana, Morte bella (1914) sul bambino Peppiniello che salva dall’esecuzione il padre carbonaro nella Napoli del 1820. Ma senza più mascherate. E neanche commistioni romantiche tra patriottismo e malavita.
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