venerdì 20 febbraio 2015

Pasolini, Tolstoj e Berlinguer precursore dell'antimodernismo di Latouche: l'immaginazione al potere e il populismo come nuovo orizzonte della sinistra

Piero Bevilacqua: Pasolini. L'insensata modernità, Jaca Book

Risvolto
A molti anni dalla morte, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) vive ancora nel dibattito pubblico come pochi altri autori del '900. Personaggio controverso e scandaloso, poeta, romanziere, cineasta, critico letterario, dialoga ancora con noi con la sua saggistica radicale e profetica. Leggendo il Pasolini critico dello sviluppo, oggetto del presente volume, ci si imbatte nelle folgoranti previsioni di ciò che sarebbe accaduto e che lo scrittore afferrava allo stato nascente. Nella forma dell'articolo o del saggio breve, grazie a una chimica singolare dell'intelligenza – che mescola poesia, sensibilità raffinata, acutezza di sguardo, nostalgia, culto della bellezza – Pasolini legge i fenomeni del suo tempo presagendo con visionaria lucidità i tratti del nostro confuso e desolato paesaggio spirituale. egli vede con sconvolgente capacità anticipatrice, da poeta, con una sensibilità esasperata, il lato nascosto, ancora invisibile, ma distruttore di un grande processo, che è anche di emancipazione. È come se l’amore per la bellezza, la nostalgia del passato, la sensibilità poetica creassero nella sua mente una chimica speciale dell’intelligenza, capace di sfondare la coltre contraffatta della realtà e guardare oltre. Leopardi egli arriva infatti a scorgere i processi in atto a una profondità normalmente inosservata, nelle strutture antropologiche della società, nella carnalità dei corpi, resi inautentici da modelli imposti che sostituiscono la realtà con la finzione. l’«ultimo luogo – scriveva nel 1973 – in cui abitava la realtà, cioè il corpo, ossia il corpo popolare, è anch’esso scomparso». Leopardi del Novecento, corsaro preveggente e disperato, illumina la sua critica radicale all’insensatezza della società dei costumi insensata di uno sguardo originalissimo, gettato direttamente sui corpi, sui volti, sui gesti, sull’ incedere, sui modi di parlare e sulle parole delle persone.


Il poeta del disincantoSaggi. «Pasolini. L'insensata modernità», a cura di Piero Bevilacqua, per Jaca Book. Le intuizioni folgoranti dell'intellettuale sulla dissoluzione di un'epoca 

Enzo Scandurra, il Manifesto 20.2.2015
Cosa lega, tanto da azzar­darne un con­fronto, Gia­como Leo­pardi e Pier Paolo Paso­lini? Ce lo spiega Piero Bevi­lac­qua nel pic­colo libro a sua cura: Paso­lini. L’insensata moder­nità, edito nella col­lana «I pre­cur­sori della decre­scita», diretta da Serge Latou­che (Jaca Book, pp.63, 9 euro).
La spie­ga­zione (ma il testo costringe a riflet­tere su molte altre que­stioni aperte di que­sto secolo) sta nelle prime pagine del libro. Dice l’autore: «Credo che accada per la seconda volta, nella sto­ria della let­te­ra­tura ita­liana, per lo meno in età con­tem­po­ra­nea, che un poeta si eriga a nega­tore radi­cale dei con­vin­ci­menti domi­nanti della pro­pria epoca. Un eroe soli­ta­rio che fac­cia il con­tro­canto distrut­tivo dei miti e delle illu­sioni che ali­men­tano l’immaginario dei pro­pri con­tem­po­ra­nei. Uno dei pochi intel­let­tuali – come è stato detto – a non mani­fe­stare la ben­ché minima fede nel pro­gresso».
Non spet­te­rebbe a me, che non sono un cri­tico let­te­ra­rio, fare la recen­sione di que­sto libro se non fosse per­ché il «con­fronto» tra i due con­te­sta­tori radi­cali non ver­tesse, nel testo, sulla feroce cri­tica anti­pro­gres­si­sta che ani­mava i due poeti, tra loro pur assai diversi. Ci sono molti aspetti, descritti nel libro, che riman­dano alle que­stioni dei nostri giorni e che ancora appa­iono irrisolti. 
Di Leo­pardi è noto come la fonte del suo atteg­gia­mento poe­tico risa­lisse alla delu­sione pro­dotta dal disin­canto del mondo: «L’arido vero», che avanza con la scienza e la tec­nica, distrugge l’universo dei miti, dis­solve in nulla «le favole anti­che», le illu­sioni dell’infanzia, la poe­tica delle cose vis­sute con la verità dei sentimenti. 
Il poeta «friu­lano» (in realtà Paso­lini era nato a Bolo­gna), fonda anch’egli la sua cri­tica anti­pro­gres­si­sta sulla per­dita del sacro, della reli­gio­sità del mondo antico, della dimen­sione sim­bo­lica. Ma men­tre Leo­pardi con­si­dera gli uomini, nel con­te­sto più ampio della vita cosmica, un irri­le­vante acci­dente della natura, Paso­lini, dice Bevi­lac­qua, è «un uomo immerso nel suo tempo, è al cen­tro del ring con i suoi guan­toni», è un com­bat­tente, un comu­ni­sta. E qui si entra nel vivo delle que­stioni di oggi. Paso­lini non può con­di­vi­dere la visione deso­lata della vita umana di Leo­pardi, non ha la sua stessa solida pre­pa­ra­zione filo­so­fica per soste­nere il con­flitto e, soprat­tutto non può avere la mede­sima coe­renza teo­rica.
La con­trad­di­zione di Paso­lini si fa lace­rante: «Deve volere l’avanzata sociale dei lavo­ra­tori, ma è costretto a rile­vare che quel pro­cesso si incarna in feno­meni di deca­di­mento antro­po­lo­gico del mondo da lui amato, di svuo­ta­mento di mora­lità e signi­fi­cato della vita stessa». Così, il pes­si­mi­smo di Paso­lini si fa via via più intran­si­gente fino alla dichia­ra­zione, qual­che giorno prima della sua morte, che «in realtà il mondo non migliora mai. L’idea del miglio­ra­mento del mondo è una di quelle idee-alibi con cui si con­so­lano le coscienze infe­lici o le coscienze ottuse». Pur aggiun­gendo, subito dopo, che «il mondo può peg­gio­rare, que­sto sì. È per que­sto che biso­gna lot­tare con­ti­nua­mente Non è vero che non si torna indie­tro. Si torna anche indie­tro. Ci sono state mille restau­ra­zioni nel mondo». È una rifles­sione amara la sua, oggi da tenere bene a mente. 
Siamo grati a Bevi­lac­qua di averci ricor­dato que­ste ultime rifles­sioni cui era appro­dato Paso­lini i giorni pre­ce­denti la sua morte. Quanto que­ste siano attuali, lo stesso autore ce lo descrive pren­dendo a modello quanto è avve­nuto (e tut­tora avviene) in Ita­lia – e, in varia misura, in tanti altri paesi d’Europa e del mondo – negli anni della Grande Reces­sione, tra il 2008 e il 2014 di svi­luppo neo­li­be­ri­sta: nuovo lavoro schia­vile, allun­ga­mento della gior­nata lavo­ra­tiva, sac­cheg­gio della natura, distru­zione di legami di soli­da­rietà e per­fino – ricorda l’autore – il furto del sonno che nella «società della fretta» è pas­sato pro­gres­si­va­mente dalle 10 ore alle 8 ore, fino alle sei ore e mezza. Dor­miamo di meno, ma in com­penso con­su­miamo di più. 
Le parole chiave con le quali la moder­nità aveva annun­ciato il pro­prio avvento — popolo, sog­getto, Stato, benes­sere, pro­gresso — si sono let­te­ral­mente dis­solte. Per Leo­pardi, essa coin­ci­deva bef­far­da­mente con «le magni­fi­che sorti e pro­gres­sive» del «secol superbo e sciocco»; per Paso­lini, il suo avvento era costato l’estinzione delle luc­ciole che per lui costi­tui­vano la «inu­tile bel­lezza» senza fini e senza scopi e pro­prio per que­sto più inti­ma­mente sacra. 
Non credo che quello di Bevi­lac­qua, nello scri­vere que­sto libro, sia stato un eser­ci­zio di ordine teo­rico e cul­tu­rale, tan­to­meno filo­lo­gico, quanto piut­to­sto un ritor­nare alle radici di un per­corso fatto che oggi ci appare quasi natu­rale e che, invece, avrebbe potuto pren­dere un’altra dire­zione, oltre­ché for­nirci indi­ret­ta­mente punti di rife­ri­mento di lavoro poli­tico.

Dovremmo ripar­tire dalla sacra­lità dei rap­porti umani e con la natura; quella sacra­lità che, diven­tati moderni, abbiamo get­tato nel reper­to­rio delle cose inu­tili, insieme alle luc­ciole sim­bolo di una «bel­lezza improduttiva».

Ma che c’entra Pasolini con la «decrescita»? 

Jaca Book affida al guru Serge Latouche una collana sui precursori del suo «prim itivism o» felice Spiazza la lista, con gli strani om aggi al regista e a Berlinguer incluso perchè «sobrio e austero» 
21 mag 2015  Libero TOMMASO LABRANCA
Don't believe the hype. È il titolo di un singolo dei Public Enemy del 1988 diventato un modo di dire anglo-sassone molto diffuso. Vuol dire «non credere a quanto ti fanno credere i guru di discipline autoinventate, alle mode del momento diffuse da certi media, alle sirene del marketing». Perché tra poco tempo ti diranno di fare esattamente il contrario. 
Agli inizi del Novecento si doveva credere nella certezza che non ci sarebbe mai stato un limite al progresso. Alla fine del Novecento ci hanno detto: mettiamo in pausa il progresso, riduciamo le spese imposte dal consumismo, pensiamo a quanto era bello lavarsi una volta a settimana prendendo l’acqua al pozzo. Portavoce di questo neoprimitivismo fu un economista francese, Serge Latouche; entrò presto nel Pantheon degli intellettuali con autista che esaltano la lentezza e delle signore chic che fremono al pensiero del chilometro-zero. L’editoria non si lasciò sfuggire la miniera d'oro di questa ennesima circonvenzione di incapace. Peccato che Latouche da una parte esaltasse «il rifiuto della televisione», ricavato dalle teorie del suo faro, l'antitecnologico teologo francese Jacques Ellul, e dall’altra fosse una presenza fissa dei salotti catodici di Raitre insieme all'altro lagnoso paladino dell'iprocrisia riduttivista, José Bové. Peccato che quell'invito a frenare i consumi fosse esploso pochi anni prima della grande crisi; con gli stipendi decurtati, suonava crudele beffa leggere della sofisticata indiana che rinunciava all'acqua minerale imbottigliata. Insomma, don't believe the hype. E la decrescita altro non è se non l'ennesima hype, l'ennesima follia urlata da un pubblico che accetta bovinamente tutto il pacchetto estetico. La crisi, si diceva. La crisi è una decrescita obbligata che rende del tutto inutili gli scritti di Latouche. Il quale per stare a galla ha avuto una bella pensata: una serie di librini pubblicati dalle Éditions le passeger clandestin ( e sorprendentemente ripresi in Italia da Jaca Book) dedicati ai precursori della decrescita. Un po’ come ha fatto George Lucas che, quando le idee scarseggiavano, si dedicò ai prequel di Star Wars.
Le note editoriali precisano: «Una collana che vuole dimostrare come il concetto di decrescita sia assai lontano dalla sua rappresentazione caricaturale: un tessuto di elucubrazioni di qualche arretrato fanatico desideroso di “tornare alla candela”». Obiettivo non raggiunto. L'impressione che se ne ricava è sempre quella di un fastidioso desiderio di importi il «ritorno alla candela», col cotè di certe emulazioni latouchiane, tipo i paladini del No Tav che dall' odio verso l'alta velocità scivolano in una esibizione circense. Ma a sbalordire in questa collana sono i nomi cui sono stati dedicati gli ultimi libretti. Si era iniziato correttamente con il già citato Jacques Ellul e con il filosofo e psicanalista francese di origine greca Cornelius Castoriadis. Si prosegue, in maniera perplimente, andando a cercare padri della decrescita tra i contemporanei di Beethoven (come Charles Fourier) o in Tolstoj, ovvero persone che agivano quando non era ancora cominciata la crescita, pensatori lontani cui puoi mettere in bocca qualsiasi idea. Si resta infine allibiti davanti alle scelte recenti: tra i padri della decrescita sono stati inseriti Enrico Berlinguer e Pier Paolo Pasolini! Pasolini è diventato un jolly. Tutti lo evitavano da vivo, tutti lo vogliono dalla loro parte da morto. Destra, sinistra, centro, cattolici e laici: il suo pensiero è un prisma dal quale ognuno ricava il colore che serve. Da qualche parte avrà pur detto qualcosa che si adatta a Latouche. Per esempio quando attaccava la modernità, si struggeva per la scomparsa delle lucciole, sputava su borghesia e proprietà privata. Che su Pasolini e decrescita non vi fosse alcunché da dire lo dimostrano le scelte tecniche: rispetto al volumetto su Ellul qui il corpo è maggiorato, l'interlinea esasperata, la foliazione ridotta.
Con il libretto dedicato a Enrico Berlinguer si sfiora il ridicolo. Ci si basa essenzialmente sui discorsi che il segretario del Pci fece nel 1977 a intellettuali e operai sull’austerità. E su caratteristiche personali, espresse a pagina 15: «Berlinguer fu un leader sobrio, timido e austero. Fu carismatico senza cedere al narcisismo, e al culto dell'immagine. La sua postura fisica era il contrario di ciò che ci si aspetta oggi da un leader politico: gracile, misurata, non ostentata, severa, per nulla ammiccante». Ora, mi aspetto nuovi librini dedicati ad altri improbabili padri della decrescita, come Adriano Celentano, l'Ellul della via Gluck. O Topo Gigio, la cui fondamentale anticapitalistica «Strapazzami di coccole» potrebbe essere l'inno della decrescita.


E Latouche arruola Tolstoj tra i profeti della decrescita
di Massimiliano Panarari La Stampa 2.6.15
Una genealogia che vuole essere una «contro-storia» delle idee. E una collana decisamente militante, con la finalità di ricostruire il pantheon degli antenati - e, dunque, di puntellare ed esibire i «quarti di nobiltà» - di una delle più travolgenti mode culturali di questi nostri tempi. Che sono neoliberisti e, quindi, per converso, hanno visto crescere in maniera considerevole la popolarità delle dottrine schierate contro l’«ideologia produttivistica» e la «megamacchina» della «crescita infinita».
Proprio il loro esponente più noto (e mediatico), l’economista anti-utilitarista Serge Latouche, è il direttore di una collana originale e, a suo modo, intrigante (anche se, come nel caso di chi scrive, non se ne condividono affatto fondamenti né, men che meno, prospettive), vale a dire quella dei «Precursori della decrescita», che Jaca Book pubblica dal 2014 insieme con le francesi «Editions Le passager clandestin». In questa galleria di capostipiti (nella quale sono stati inseriti, tra gli altri, l’anti-industrialista Charles Fourier, il Pasolini anticonsumista, il Berlinguer dell’austerità e Tiziano Terzani), si può trovare anche, ultimo arrivato, un Tolstoj in versione decrescista.
In questo Lev Tolstoj. Contro il fantasma dell’onnipotenza (pp. 82, € 9), lo studioso di filosofia Renaud Garcia antologizza brani tratti dalle opere più famose (Anna Karenina e Guerra e pace) e da saggi assai meno conosciuti (come Il denaro e il lavoro, Al popolo lavoratore, Lo schiavo moderno, Piaceri crudeli), che illustrano la sua contestazione, di matrice ruralistica, dell’ideologia del progresso (sia nella visione liberale sia in quella marxista) e la radicale messa in discussione dei meccanismi dell’economia politica. Nell’anarchismo cristiano e non-violento a cui lo scrittore russo approda in età avanzata (in occasione di una sorta di conversione morale che lo porta a rigettare la propria precedente esistenza come «non autentica»), il denaro non rappresenta un mezzo neutro per effettuare scambi e transazioni, ma uno strumento di dominio dell’uomo sull’uomo e di una classe sociale sulle altre.
Il conte Tolstoj (divenuto vegetariano per compassione nei confronti degli animali, componente essenziale del creato) rivendica di fatto - per ricorrere alla terminologia di Karl Polanyi - il senso «sostanziale» dell’economia contro quello «formale», perora la causa della riorganizzazione del lavoro (liberando tempo ed energie per il meditare e il conversare) e si conferma un durissimo critico della volontà di potenza, a cui oppone la sua interpretazione dell’ascetismo e della saggezza. E quindi, di sicuro, in questo pantheon antisviluppista ci sta comodamente. 


Nessun commento: