Piero Bevilacqua:
Pasolini. L'insensata modernità, Jaca Book
Risvolto
A molti anni dalla morte, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) vive ancora nel dibattito pubblico come pochi altri autori del '900. Personaggio controverso e scandaloso, poeta, romanziere, cineasta, critico letterario, dialoga ancora con noi con la sua saggistica radicale e profetica. Leggendo il Pasolini critico dello sviluppo, oggetto del presente volume, ci si imbatte nelle folgoranti previsioni di ciò che sarebbe accaduto e che lo scrittore afferrava allo stato nascente. Nella forma dell'articolo o del saggio breve, grazie a una chimica singolare dell'intelligenza – che mescola poesia, sensibilità raffinata, acutezza di sguardo, nostalgia, culto della bellezza – Pasolini legge i fenomeni del suo tempo presagendo con visionaria lucidità i tratti del nostro confuso e desolato paesaggio spirituale. egli vede con sconvolgente capacità anticipatrice, da poeta, con una sensibilità esasperata, il lato nascosto, ancora invisibile, ma distruttore di un grande processo, che è anche di emancipazione. È come se l’amore per la bellezza, la nostalgia del passato, la sensibilità poetica creassero nella sua mente una chimica speciale dell’intelligenza, capace di sfondare la coltre contraffatta della realtà e guardare oltre. Leopardi egli arriva infatti a scorgere i processi in atto a una profondità normalmente inosservata, nelle strutture antropologiche della società, nella carnalità dei corpi, resi inautentici da modelli imposti che sostituiscono la realtà con la finzione. l’«ultimo luogo – scriveva nel 1973 – in cui abitava la realtà, cioè il corpo, ossia il corpo popolare, è anch’esso scomparso». Leopardi del Novecento, corsaro preveggente e disperato, illumina la sua critica radicale all’insensatezza della società dei costumi insensata di uno sguardo originalissimo, gettato direttamente sui corpi, sui volti, sui gesti, sull’ incedere, sui modi di parlare e sulle parole delle persone.
Il poeta del disincantoSaggi. «Pasolini. L'insensata modernità», a cura di Piero Bevilacqua, per Jaca Book. Le intuizioni folgoranti dell'intellettuale sulla dissoluzione di un'epoca
Enzo Scandurra, il Manifesto 20.2.2015
Cosa lega, tanto da azzardarne un confronto, Giacomo Leopardi e Pier Paolo Pasolini? Ce lo spiega Piero Bevilacqua nel piccolo libro a sua cura: Pasolini. L’insensata modernità, edito nella collana «I precursori della decrescita», diretta da Serge Latouche (Jaca Book, pp.63, 9 euro).
La spiegazione (ma il testo costringe a riflettere su molte altre questioni aperte di questo secolo) sta nelle prime pagine del libro. Dice l’autore: «Credo che accada per la seconda volta, nella storia della letteratura italiana, per lo meno in età contemporanea, che un poeta si eriga a negatore radicale dei convincimenti dominanti della propria epoca. Un eroe solitario che faccia il controcanto distruttivo dei miti e delle illusioni che alimentano l’immaginario dei propri contemporanei. Uno dei pochi intellettuali – come è stato detto – a non manifestare la benché minima fede nel progresso».
Non spetterebbe a me, che non sono un critico letterario, fare la recensione di questo libro se non fosse perché il «confronto» tra i due contestatori radicali non vertesse, nel testo, sulla feroce critica antiprogressista che animava i due poeti, tra loro pur assai diversi. Ci sono molti aspetti, descritti nel libro, che rimandano alle questioni dei nostri giorni e che ancora appaiono irrisolti.
Di Leopardi è noto come la fonte del suo atteggiamento poetico risalisse alla delusione prodotta dal disincanto del mondo: «L’arido vero», che avanza con la scienza e la tecnica, distrugge l’universo dei miti, dissolve in nulla «le favole antiche», le illusioni dell’infanzia, la poetica delle cose vissute con la verità dei sentimenti.
Il poeta «friulano» (in realtà Pasolini era nato a Bologna), fonda anch’egli la sua critica antiprogressista sulla perdita del sacro, della religiosità del mondo antico, della dimensione simbolica. Ma mentre Leopardi considera gli uomini, nel contesto più ampio della vita cosmica, un irrilevante accidente della natura, Pasolini, dice Bevilacqua, è «un uomo immerso nel suo tempo, è al centro del ring con i suoi guantoni», è un combattente, un comunista. E qui si entra nel vivo delle questioni di oggi. Pasolini non può condividere la visione desolata della vita umana di Leopardi, non ha la sua stessa solida preparazione filosofica per sostenere il conflitto e, soprattutto non può avere la medesima coerenza teorica.
La contraddizione di Pasolini si fa lacerante: «Deve volere l’avanzata sociale dei lavoratori, ma è costretto a rilevare che quel processo si incarna in fenomeni di decadimento antropologico del mondo da lui amato, di svuotamento di moralità e significato della vita stessa». Così, il pessimismo di Pasolini si fa via via più intransigente fino alla dichiarazione, qualche giorno prima della sua morte, che «in realtà il mondo non migliora mai. L’idea del miglioramento del mondo è una di quelle idee-alibi con cui si consolano le coscienze infelici o le coscienze ottuse». Pur aggiungendo, subito dopo, che «il mondo può peggiorare, questo sì. È per questo che bisogna lottare continuamente Non è vero che non si torna indietro. Si torna anche indietro. Ci sono state mille restaurazioni nel mondo». È una riflessione amara la sua, oggi da tenere bene a mente.
Siamo grati a Bevilacqua di averci ricordato queste ultime riflessioni cui era approdato Pasolini i giorni precedenti la sua morte. Quanto queste siano attuali, lo stesso autore ce lo descrive prendendo a modello quanto è avvenuto (e tuttora avviene) in Italia – e, in varia misura, in tanti altri paesi d’Europa e del mondo – negli anni della Grande Recessione, tra il 2008 e il 2014 di sviluppo neoliberista: nuovo lavoro schiavile, allungamento della giornata lavorativa, saccheggio della natura, distruzione di legami di solidarietà e perfino – ricorda l’autore – il furto del sonno che nella «società della fretta» è passato progressivamente dalle 10 ore alle 8 ore, fino alle sei ore e mezza. Dormiamo di meno, ma in compenso consumiamo di più.
Le parole chiave con le quali la modernità aveva annunciato il proprio avvento — popolo, soggetto, Stato, benessere, progresso — si sono letteralmente dissolte. Per Leopardi, essa coincideva beffardamente con «le magnifiche sorti e progressive» del «secol superbo e sciocco»; per Pasolini, il suo avvento era costato l’estinzione delle lucciole che per lui costituivano la «inutile bellezza» senza fini e senza scopi e proprio per questo più intimamente sacra.
Non credo che quello di Bevilacqua, nello scrivere questo libro, sia stato un esercizio di ordine teorico e culturale, tantomeno filologico, quanto piuttosto un ritornare alle radici di un percorso fatto che oggi ci appare quasi naturale e che, invece, avrebbe potuto prendere un’altra direzione, oltreché fornirci indirettamente punti di riferimento di lavoro politico.
Dovremmo ripartire dalla sacralità dei rapporti umani e con la natura; quella sacralità che, diventati moderni, abbiamo gettato nel repertorio delle cose inutili, insieme alle lucciole simbolo di una «bellezza improduttiva».
Ma che c’entra Pasolini con la «decrescita»?
Jaca Book affida al guru Serge Latouche una collana sui precursori del suo «prim itivism o» felice Spiazza la lista, con gli strani om aggi al regista e a Berlinguer incluso perchè «sobrio e austero»
21 mag 2015 Libero TOMMASO LABRANCA
Don't believe the hype. È il titolo di un singolo dei Public Enemy del 1988 diventato un modo di dire anglo-sassone molto diffuso. Vuol dire «non credere a quanto ti fanno credere i guru di discipline autoinventate, alle mode del momento diffuse da certi media, alle sirene del marketing». Perché tra poco tempo ti diranno di fare esattamente il contrario.
Agli inizi del Novecento si doveva credere nella certezza che non ci sarebbe mai stato un limite al progresso. Alla fine del Novecento ci hanno detto: mettiamo in pausa il progresso, riduciamo le spese imposte dal consumismo, pensiamo a quanto era bello lavarsi una volta a settimana prendendo l’acqua al pozzo. Portavoce di questo neoprimitivismo fu un economista francese, Serge Latouche; entrò presto nel Pantheon degli intellettuali con autista che esaltano la lentezza e delle signore chic che fremono al pensiero del chilometro-zero. L’editoria non si lasciò sfuggire la miniera d'oro di questa ennesima circonvenzione di incapace. Peccato che Latouche da una parte esaltasse «il rifiuto della televisione», ricavato dalle teorie del suo faro, l'antitecnologico teologo francese Jacques Ellul, e dall’altra fosse una presenza fissa dei salotti catodici di Raitre insieme all'altro lagnoso paladino dell'iprocrisia riduttivista, José Bové. Peccato che quell'invito a frenare i consumi fosse esploso pochi anni prima della grande crisi; con gli stipendi decurtati, suonava crudele beffa leggere della sofisticata indiana che rinunciava all'acqua minerale imbottigliata. Insomma, don't believe the hype. E la decrescita altro non è se non l'ennesima hype, l'ennesima follia urlata da un pubblico che accetta bovinamente tutto il pacchetto estetico. La crisi, si diceva. La crisi è una decrescita obbligata che rende del tutto inutili gli scritti di Latouche. Il quale per stare a galla ha avuto una bella pensata: una serie di librini pubblicati dalle Éditions le passeger clandestin ( e sorprendentemente ripresi in Italia da Jaca Book) dedicati ai precursori della decrescita. Un po’ come ha fatto George Lucas che, quando le idee scarseggiavano, si dedicò ai prequel di Star Wars.
Le note editoriali precisano: «Una collana che vuole dimostrare come il concetto di decrescita sia assai lontano dalla sua rappresentazione caricaturale: un tessuto di elucubrazioni di qualche arretrato fanatico desideroso di “tornare alla candela”». Obiettivo non raggiunto. L'impressione che se ne ricava è sempre quella di un fastidioso desiderio di importi il «ritorno alla candela», col cotè di certe emulazioni latouchiane, tipo i paladini del No Tav che dall' odio verso l'alta velocità scivolano in una esibizione circense. Ma a sbalordire in questa collana sono i nomi cui sono stati dedicati gli ultimi libretti. Si era iniziato correttamente con il già citato Jacques Ellul e con il filosofo e psicanalista francese di origine greca Cornelius Castoriadis. Si prosegue, in maniera perplimente, andando a cercare padri della decrescita tra i contemporanei di Beethoven (come Charles Fourier) o in Tolstoj, ovvero persone che agivano quando non era ancora cominciata la crescita, pensatori lontani cui puoi mettere in bocca qualsiasi idea. Si resta infine allibiti davanti alle scelte recenti: tra i padri della decrescita sono stati inseriti Enrico Berlinguer e Pier Paolo Pasolini! Pasolini è diventato un jolly. Tutti lo evitavano da vivo, tutti lo vogliono dalla loro parte da morto. Destra, sinistra, centro, cattolici e laici: il suo pensiero è un prisma dal quale ognuno ricava il colore che serve. Da qualche parte avrà pur detto qualcosa che si adatta a Latouche. Per esempio quando attaccava la modernità, si struggeva per la scomparsa delle lucciole, sputava su borghesia e proprietà privata. Che su Pasolini e decrescita non vi fosse alcunché da dire lo dimostrano le scelte tecniche: rispetto al volumetto su Ellul qui il corpo è maggiorato, l'interlinea esasperata, la foliazione ridotta.
Con il libretto dedicato a Enrico Berlinguer si sfiora il ridicolo. Ci si basa essenzialmente sui discorsi che il segretario del Pci fece nel 1977 a intellettuali e operai sull’austerità. E su caratteristiche personali, espresse a pagina 15: «Berlinguer fu un leader sobrio, timido e austero. Fu carismatico senza cedere al narcisismo, e al culto dell'immagine. La sua postura fisica era il contrario di ciò che ci si aspetta oggi da un leader politico: gracile, misurata, non ostentata, severa, per nulla ammiccante». Ora, mi aspetto nuovi librini dedicati ad altri improbabili padri della decrescita, come Adriano Celentano, l'Ellul della via Gluck. O Topo Gigio, la cui fondamentale anticapitalistica «Strapazzami di coccole» potrebbe essere l'inno della decrescita.
E Latouche arruola Tolstoj tra i profeti della decrescitadi Massimiliano Panarari La Stampa 2.6.15
Una genealogia che vuole essere una «contro-storia» delle idee. E una
collana decisamente militante, con la finalità di ricostruire il
pantheon degli antenati - e, dunque, di puntellare ed esibire i «quarti
di nobiltà» - di una delle più travolgenti mode culturali di questi
nostri tempi. Che sono neoliberisti e, quindi, per converso, hanno visto
crescere in maniera considerevole la popolarità delle dottrine
schierate contro l’«ideologia produttivistica» e la «megamacchina» della
«crescita infinita».
Proprio il loro esponente più noto (e mediatico), l’economista
anti-utilitarista Serge Latouche, è il direttore di una collana
originale e, a suo modo, intrigante (anche se, come nel caso di chi
scrive, non se ne condividono affatto fondamenti né, men che meno,
prospettive), vale a dire quella dei «Precursori della decrescita», che
Jaca Book pubblica dal 2014 insieme con le francesi «Editions Le
passager clandestin». In questa galleria di capostipiti (nella quale
sono stati inseriti, tra gli altri, l’anti-industrialista Charles
Fourier, il Pasolini anticonsumista, il Berlinguer dell’austerità e
Tiziano Terzani), si può trovare anche, ultimo arrivato, un Tolstoj in
versione decrescista.
In questo Lev Tolstoj. Contro il fantasma dell’onnipotenza (pp. 82, €
9), lo studioso di filosofia Renaud Garcia antologizza brani tratti
dalle opere più famose (Anna Karenina e Guerra e pace) e da saggi assai
meno conosciuti (come Il denaro e il lavoro, Al popolo lavoratore, Lo
schiavo moderno, Piaceri crudeli), che illustrano la sua contestazione,
di matrice ruralistica, dell’ideologia del progresso (sia nella visione
liberale sia in quella marxista) e la radicale messa in discussione dei
meccanismi dell’economia politica. Nell’anarchismo cristiano e
non-violento a cui lo scrittore russo approda in età avanzata (in
occasione di una sorta di conversione morale che lo porta a rigettare la
propria precedente esistenza come «non autentica»), il denaro non
rappresenta un mezzo neutro per effettuare scambi e transazioni, ma uno
strumento di dominio dell’uomo sull’uomo e di una classe sociale sulle
altre.
Il conte Tolstoj (divenuto vegetariano per compassione nei confronti
degli animali, componente essenziale del creato) rivendica di fatto -
per ricorrere alla terminologia di Karl Polanyi - il senso «sostanziale»
dell’economia contro quello «formale», perora la causa della
riorganizzazione del lavoro (liberando tempo ed energie per il meditare e
il conversare) e si conferma un durissimo critico della volontà di
potenza, a cui oppone la sua interpretazione dell’ascetismo e della
saggezza. E quindi, di sicuro, in questo pantheon antisviluppista ci sta
comodamente.
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