sabato 7 febbraio 2015
Quando Lacan diventa Alberoni, ma più bello
Quei ragazzi terroristi in fuga dalla libertà
di Massimo Recalcati Repubblica 7.2.15
LA
LIBERTÀ non è solo possibilità di espressione, alleggerimento della
vita da vincoli oscurantisti, emancipazione dell’uomo dal suo stato di
minorità, come Kant aveva classicamente definito l’illuminismo. La
libertà è anche una esperienza di vertigine e di solitudine che comporta
il rischio di vivere senza rifugi, senza garanzie ultime, senza
certezze imperiture e fuori discussione. Lo stesso Nietzsche, che fu uno
dei maggiori sostenitori della libertà del soggetto di fronte a ogni
verità che pretende di porsi come assoluta, insisteva costantemente nel
ricordare che la libertà suscita angoscia, spaesamento, che il navigare
in mare aperto può generare una seduttiva nostalgia per la terra ferma. È
in questa luce che la psicoanalisi ha interpretato la psicologia delle
masse dei grandi sistemi totalitari del Novecento. Psicologia delle
masse e analisi dell’Io (1921) di Freud, Psicologia di massa del
fascismo (1933) di Reich e Fuga dalla libertà ( 1941) di Fromm
costituiscono una sorta di fondamentale trilogia sul fenomeno sociale
del fanatismo di massa e dei suoi processi identificatori che hanno
costituito il cemento psicologico di tutti i totalitarismi
novecenteschi.
UNA tesi generale ritorna in questi tre testi: non è
vero che gli esseri umani amano senza ambivalenze la loro libertà; essi
preferiscono anche rinunciarvi in cambio della tutela autoritaria della
loro vita. Se la libertà comporta sempre la possibilità della crisi,
dell’incertezza, del dubbio, del disorientamento, è meglio fuggire da
essa per ricercare in un Altro assoluto una certezza granitica e
inamovibile sul senso della nostra presenza al mondo e del nostro
destino.
Questo ritratto della psicologia delle masse sembra aver
fatto — almeno in Occidente — il suo tempo. La nuova psicologia delle
masse non si fonda più, infatti, sullo sguardo ipnotico del
Padre-padrone, sul leader come incarnazione farneticante dell’Altro
assoluto e sulla esaltazione acritica della Causa (la Natura, la lotta
di classe, la Razza). La cultura patriarcale, di cui il totalitarismo fu
l’apoteosi più aberrante e crudele, si è lentamente dissolta. Al centro
dell’Occidente non è più la dimensione tirannica della Causa ideale che
mobilita alla guerra le masse, ma quella dell’individualismo
esasperato, della rincorsa alla propria affermazione personale,
dell’ipertrofia narcisistica dell’Io. Al cemento armato dei regimi
totalitari si è via via sostituita una atomizzazione dei legami sociali
causata dalla decadenza fatale della dimensione dell’Ideale rispetto a
quella cinica del godimento. Il culto pragmatico del denaro ha
sostituito il culto fanatico dell’Ideale. Il nichilismo occidentale non
sorge più dalle adunate delle masse disposte a sacrificare la vita per
il trionfo della Causa, ma dal capitalismo finanziario e dalla sua
ricerca spasmodica di un profitto che vorrebbe prescindere totalmente
dalla dimensione del lavoro. Il nichilismo contemporaneo non si
manifesta più nella lotta senza quartiere contro un nemico ontologico,
ma come effetto di una caduta radicale di ogni fede nei confronti
dell’Ideale. E’ il passaggio epocale dalla paranoia alla perversione.
Gli ultimi drammatici fatti che hanno investito la Francia e l’Europa
comportano però un ulteriore cambio di scena. La critica che la cultura
islamica più integralista muove all’Occidente è una critica che tocca un
nostro nervo scoperto: il nichilismo occidentale non è più in grado di
dare un senso alla vita e alla morte. Il dominio del discorso del
capitalista ha infatti demolito ogni concezione solidaristica
dell’esistenza lasciando orami evasa la domanda più essenziale: la
nostra forma di vita collettiva è davvero l’unica forma di vita
possibile? L’idolatria nichilistica per il denaro ha davvero reso
impossibile ogni altra fede? La nostra libertà è riuscita veramente a
rendere la vita più umana? Il fatto che l’Occidente che non sia più in
grado di ripensare consapevolmente le sue forme (alienate) di vita, ha
spalancato la possibilità che la critica all’esistente abbia assunto le
forme terribili di un ritorno regressivo all’ideologia totalitaria. È un
insegnamento della psicoanalisi: quello che non viene elaborato
simbolicamente ritorna nelle forme orribili e sanguinarie del reale.
L’Islam radicale non è forse l’incarnazione feroce di questo ritorno? Il
suo rifiuto dell’Occidente, fanatico e intollerante, non si iscrive
proprio nello spazio lasciato aperto da una nostra profonda crisi dei
valori condivisi? L’integralismo islamico costituisce il ritorno alla
più feroce paranoia di fronte alla perversione montante che ha assunto
il posto di comando in Occidente. Alla liquefazione dei valori si
risponde con il loro irrigidimento manicheo. Mentre la perversione sfuma
sino ad annullare i contrari, destituisce ogni senso della verità,
confonde i buoni con i cattivi, mostra in modo disincantato che tutti
gli esseri umani hanno un prezzo, la paranoia insiste nel mantenere
rigidamente distinti il bene dal male, il buono dal cattivo, il giusto
dall’ingiusto offrendo l’illusione di una protezione sicura
dall’angoscia della libertà.
In due importanti libri dedicati
all’Islam radicale ( La psicoanalisi alla prova dell’Islam, Neri Pozza
2002, Dichiarazione di non sottomissione , Poiesis 2013) lo
psicoanalista francotunisino FethiBeslam, professore di psicopatologia
all’Università di Parigi-Diderot, ci ricorda come la sottomissione
all’Altro salvi e distrugga nello stesso tempo. Essa offre l’illusione
di un mondo senza incertezze, chiedendo però in cambio la rinuncia
totale alla libertà. La potenza seduttiva dell’integralismo islamico
consiste infatti nel proporsi come la sola interpretazione possibile
dell’Origine, della voce di Dio, dell’unico Dio che esiste, del Dio
“furioso” e giustiziere implacabile. Si tratta di una ideologia
identitaria che comporta la sottomissione come unica possibilità di
rapporto alla verità fondandosi sulla cancellazione dell’alterità di cui
la rimozione della femminilità è l’espressione più forte ed
emblematica. L’amore per la Legge sfocia così fanaticamente
nell’auto-attribuzione del “diritto di vita e di morte su ogni cosa”. E’
la forma più terribile di blasfemia: uccidere, sterminare, terrorizzare
nel nome di Dio. L’Occidente che ha dato prova di aver saputo superare
la stagione delirante dei totalitarismi, non ha ora solo il compito di
difendersi dal rischio del dilagare della violenza paranoica dell’Islam
radicale, ma deve soprattutto provare a rifondare laicamente le ragioni
della nostra cultura per evitare che il culto perverso di una libertà
senza Legge sia solo l’altra faccia di quello paranoico di una Legge che
annichilisce la libertà.
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