sabato 14 marzo 2015

Caporetto nel macello europeo della Prima guerra mondiale


Caporetto qui si disfa l’Italia 

Con la disastrosa battaglia del 1917 il Paese mostrò il suo volto peggiore: irresponsabilità della classe dirigente, inefficienza, retorica e disunione 

Alessandro Barbero La Stampa 13 3 2015

Nella Grande Guerra l’Italia ha compiuto uno sforzo organizzativo, industriale e umano sbalorditivo per un Paese così debole. Eppure nel mondo si ricorda un solo episodio della nostra guerra, il cui nome è diventato sinonimo non di sconfitta, ma di disfatta vergognosa e umiliante: Caporetto. È doloroso, e anche ingiusto, ma non possiamo incolparne gli altri, perché davvero a Caporetto furono vanificati anni di sacrifici e apparve la faccia peggiore dell’Italia. 

La colpa di Cadorna
Inefficienza, retorica, disunione, irresponsabilità della classe dirigente: retaggi da cui non siamo mai riusciti a liberarci, e che in quei giorni del 1917 si sono rivelati con paurosa evidenza.
Cominciamo col dire che, se nel mondo tutti ricordano Caporetto come il posto dove gli italiani sono scappati, la colpa è del nostro Comando Supremo: del rovinoso bollettino in cui Cadorna denunciava «la mancata resistenza di reparti della Seconda Armata, vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico». Il governo si accorse della follia di quel bollettino e ne bloccò la pubblicazione; ma troppo tardi, perché le copie per l’estero erano già partite. 
Cadorna era un uomo di grandissime qualità: eppure credeva davvero che i suoi soldati fossero scappati. Come poteva non crederci? Lui stesso alla vigilia dell’offensiva nemica aveva dichiarato che non c’era da aver paura: «Vengano pure! Li prenderemo prigionieri e io li manderò a passeggiare a Milano per farli vedere!». Cadorna era pronto; aveva persino informato i giornalisti che l’offensiva nemica, di cui si conosceva in anticipo ogni particolare, si sarebbe infranta contro le «imponenti» misure difensive da lui previste. E dunque, non c’era che una spiegazione al disastro: il nemico aveva sfondato perché i soldati non si battevano, perché la Seconda Armata minata dalla propaganda socialista aveva vigliaccamente gettato le armi e tradito il Paese.
Gli studi degli ultimi anni hanno fatto giustizia di questa leggenda. L’enorme lavoro di Paolo Gaspari sui memoriali degli ufficiali fatti prigionieri a Caporetto ha dimostrato che le truppe in prima linea combatterono dappertutto, e quasi sempre bene. Ma all’epoca furono in molti a crederci. Il 22 dicembre 1917 un prigioniero che si trovava a Mauthausen fin dall’anno precedente scrisse a casa raccontando che erano arrivati i prigionieri catturati a Caporetto. La lettera è piena di insulti «contro questa maledettissima Seconda Armata, che ha abbandonate le armi», ma lascia anche capire che fra gli uomini rimasti presi nella catastrofe l’idea del «tanto peggio tanto meglio» era affiorata eccome. «Bisogna vedere con quale spudoratezza si erano presentati qui i primi giorni. Vi abbiamo portato la pace, dicevano. Speriamo che i tedeschi arrivino a Milano ed anche a Roma!!!». 

«È finita la camorra!»
Perché il fatto è che le brigate in prima linea si batterono bene; ma nella ritirata ordinata da Cadorna l’intero esercito fu sul punto di sfasciarsi, e si sfiorò l’otto settembre con 26 anni di anticipo. Le testimonianze su quello che si sentiva dire tra la folla degli sbandati in ritirata da Caporetto e tra le mandrie dei prigionieri avviati verso i Lager sono rivelatrici di un Paese dalla schiena fragile. Un tenente lombardo grida: «Adesso me ne vado a casa: sono stufo di battermi per i Veneti!». Una parola d’ordine diffusa, «È finita la camorra!», traduce l’amara soddisfazione per il collasso di un esercito di cui troppi hanno sperimentato soprattutto l’inefficienza, la corruzione, i favoritismi, il classismo. La stessa amara soddisfazione circola nel Paese, fra chi si dice che almeno è finita la follia della guerra; come in quella lettera spedita da Barletta a un soldato prigioniero, che lo rassicura con la notizia di Caporetto: «Dunque state tranquilli che la vittoria è di Austria il nostro Re perde».

«50 anni di bastone»
Non meno rivelatrice delle condizioni del Paese è l’ammirazione generalizzata dei giovani ufficiali per i tedeschi, efficienti, pratici, che fanno tutto bene, come non si fa in Italia. Dai tedeschi ogni sottufficiale è un professionista, munito di ottime carte topografiche: «Da noi neanche gli ufficiali avevano la carta», commenta amaro un testimone. Qualcuno, come Carlo Emilio Gadda, sottotenente degli alpini, anche lui prigioniero a Caporetto, pensava che l’italica arretratezza fosse colpa soprattutto dei capi, a partire dal disgraziato generale Cavaciocchi, comandante del IV corpo annientato fra Plezzo e Tolmino: «I tedeschi hanno evidentemente dei generali meno Cavaciocchi dei nostri», commentava ferocemente Gadda. 
Ma altri pensavano che la colpa fosse piuttosto del popolo, e che quel popolo avesse bisogno di essere raddrizzato col pugno di ferro. Il pittore Ottone Rosai, futuro squadrista, s’infuriava per i troppi soldati che marcavano visita con qualunque pretesto, e annotava nel suo diario: «Il medico di battaglione deve riceverne tutte le mattine delle frotte, ma l’ordine è di non riconoscere in loro alcun male, e l’olio di ricino e il bastone han trovato lavoro». Era il 1917, ma il futuro si stava già materializzando. Anche la lettera da Mauthausen che abbiamo citato anticipa senza saperlo discorsi che di lì a poco diventeranno attualissimi: «È doloroso ma purtroppo noi siamo un popolo che abbiamo bisogno di 50 anni di bastone!». Ricacciati indietro per un istante dalla botta d’orgoglio ferito con cui l’esercito e il Paese reagirono alla disfatta, tacitati in apparenza dalla resistenza sul Piave e dalla riscossa di Vittorio Veneto, questi umori traboccheranno di nuovo nel dopoguerra della disoccupazione e della vittoria mutilata. 



Grande Guerra, una festa per i corvi 
In mostra i disegni di Giuseppe Cominetti dal fronte: la realtà più forte delle ingenuità interventiste 

Maurizio Assalto La Stampa

Ci sono fanti all’attacco, dilaniati dalle bombe, colpiti dai gas. Fanti che cavalcano, lanciano granate, trasportano feriti. E aerei in fiamme, rifugi allagati, mine che esplodono, reticolati a cui restano impigliati soldati e animali. Tutta un’umanità e una natura che gridano la propria stupefatta sofferenza dai disegni a carboncino di Giuseppe Cominetti, realizzati sui fronti della Grande Guerra e esposti fino al 2 giugno nella Villa Contarini a Piazzola sul Brenta, nel Padovano, a cura di Beatrice Buscaroli.
Nato a Salasco Vercellese nel 1882 e formatosi artisticamente a Torino, in una sensibilità divisionista e simbolista, a Parigi Cominetti era stato contagiato dalle idee di Marinetti, aderendo al primo Manifesto del futurismo pubblicato il 10 febbraio 1909 sul Figaro. E appunto in uno slancio avanguardistico-futurista prende parte con entusiasmo, fin dal 1914, dapprima sulle Ardenne e poi sul Grappa, alla «guerra, sola igiene del mondo, sola igiene degli artisti che il suo furore dinamico e la sua molteplicità fisica e psichica allenano ad una sintesi rovente», come proclamerà il suo mentore, ancora nel 1929, presentando una selezione dei suoi disegni. «Io sono un dinamico, materialmente e spiritualmente, e credo al continuo divenire delle cose», confermerà lo stesso artista. Dinamismo, movimento: sono le stesse caratteristiche per cui già Tucidide aveva scelto la guerra del Peloponneso come argomento della sua storia.
Ma la realtà che Cominetti trova al fronte supera ogni ingenuità interventista. I suoi disegni, che per certi versi ricordano le incisioni di Der Krieg di Otto Dix, in un filone artistico che rimonta ai Disastri della guerra di Goya, per così dire parlano da soli, anche al di là delle intenzioni. E sono macchie scure da cui le forme emergono a fatica, quasi a suggerire il senso di una generale regressione del mondo a uno stato di informità primordiale, «brancolii di volumi spossati ricurvi», come scrive il poeta soldato Clemente Rebora. I fanti con le maschere antigas perdono ogni riconoscibilità e diventano emblemi della disumanizzazione bellica, i soldati in marcia sono cupe figure spettrali che richiamano gli omini allucinati di Munch e già sembrano evocare un destino di morte.
Anche qui c’è un urlo, come nelle tele del pittore norvegese, ma è un urlo corale che accomuna tutto il creato, che passa dagli uomini agli animali. Cavalli trafitti, buoi mitragliati. Solo i corvi, che volteggiano neri pascendosi dei cadaveri, paiono godere. E fanno venire in mente il loro simile letterario, al quale è intitolato un celebre poemetto di Poe, con quella parolina lugubre ripetuta come un refrain (che in questo caso suonerebbe inutile): «nevermore», mai più.

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