domenica 22 marzo 2015

Con D'Alema ogni possibilità di ricostruzione della sinistra è perduta per 200 anni. Senza, solo per 100



Il progetto di Landini piace al 10% degli italiani
Un altro 24% lo segue con «qualche simpatia». Ma con l’Italicum l’interesse si ridurrebbe
di Nando Pagnoncelli Corriere 22.3.15

I l progetto di Coalizione sociale, lanciato da Maurizio Landini insieme ad alcune associazioni, si propone di rappresentare le istanze del mondo del lavoro e di dare voce a quella domanda di giustizia sociale che oggi non è ascoltata. Quasi un italiano su due (47%) pensa che sia un’iniziativa utile perché il nuovo soggetto si occuperebbe di temi considerati importanti ma privi di un’adeguata risonanza, mentre il 30% ritiene che, nel bene o nel male, se ne facciano già carico le attuali forze politiche e sociali e non ci sia bisogno di un nuovo soggetto. L’utilità del progetto viene riconosciuta da tutti gli elettorati, con valori percentuali molto simili, soprattutto tra gli elettori del M5S, di Forza Italia e del Pd.
Il consenso all’iniziativa non significa automaticamente riconoscere un ruolo politico al sindacato: infatti, solo il 32% ritiene che debba confrontarsi da pari a pari con le forze politiche mentre la maggioranza assoluta (53%) è di parere opposto. L’opinione pubblica sembra dunque avere le idee chiare: giudica opportuno rappresentare le istanze di giustizia sociale presenti nel Paese (i temi del lavoro e della protezione sociale sono ai primi due posti nelle priorità degli italiani), ma preferisce mantenere distinto il ruolo del sindacato da quello della politica. E Landini sembra esserne consapevole distinguendo tra «ruolo politico», che rivendica, e «soggetto politico», che sembra escludere, anche se i dubbi sulle sue vere intenzioni rimangono: non è chiaro se si tratti del tentativo di assumere la leadership della Cgil oppure se intenda dar vita a un nuovo movimento che si collochi alla sinistra del Pd e riunisca il frastagliato mondo dell’associazionismo, dei centri sociali e degli attuali piccoli partiti di sinistra.
In altre parole, un soggetto che si ispiri all’esperienza ellenica di Syriza, vincitrice delle elezioni greche nel gennaio scorso, o a quella spagnola di Podemos che i sondaggi danno in forte crescita.
Qualora Coalizione sociale dovesse diventare un partito, il 10% guarderebbe a esso con molta simpatia, il 24% con qualche simpatia mentre il 43% non avrebbe alcuna simpatia. I simpatizzanti sono fortemente caratterizzati in termini di età (sono soprattutto i più giovani e gli studenti), di istruzione (i laureati), di ceto professionale (in particolare i quadri e ceti medi impiegatizi) e di residenza (regioni settentrionali). I ceti più popolari e quelli più esposti alla crisi, a differenza di quanto registrato a novembre, non mostrano particolare simpatia per un eventuale nuovo partito di sinistra e le casalinghe fanno segnare il più elevato tasso di antipatia (oltre 60%).
Ancora una volta va ricordato che non si deve confondere la simpatia con il comportamento di voto. E gli orientamenti di voto possono cambiare in relazione alle coalizioni, ai leader che le guidano, al clima sociale ed economico e, soprattutto, alle leggi elettorali. Se si dovesse votare con il cosiddetto Consultellum (sistema proporzionale senza premio di maggioranza) un partito di sinistra potrebbe aspirare ad entrare in una coalizione di governo guidata dal PD, da tempo in testa nei sondaggi, allargando in tal modo l’elettorato potenziale. Viceversa, se venisse approvato l’Italicum che prevede il premio di maggioranza al partito che supera la soglia del 40% (o il ballottaggio) è probabile che un partito di sinistra, destinato all’opposizione, possa risultare poco attrattivo e demotivare gli elettori potenziali. Per questo i sondaggi, soprattutto a distanza dalle elezioni, vanno maneggiati con cura.



Esclusi senza rappresentanza
Terza società, l’amaro lascito della crisi

di Luca Ricolfi Il Sole 22.3.15

Il testo è un’anticipazione del discorso che Luca Ricolfi terrà a Biennale Democrazia giovedì 26 marzo 2015, alle 18, al Teatro Carignano di Torino.

Credo sia stato Alberto Asor Rosa, nel lontano 1977, il primo a parlare dell'Italia come di una società in cui convivevano, o meglio si contrapponevano e si scontravano, “due società”. Asor Rosa lo faceva, dalle colonne dell'Unità, reagendo vigorosamente (e coraggiosamente, dato il clima violento e intimidatorio dell'epoca) a un episodio che segnò profondamente la storia della sinistra negli anni '70: l'assalto, da parte del movimento studentesco e dei circoli proletari giovanili, al palco da cui Luciano Lama, segretario generale della Cgil, tentava di tenere un comizio.
Fu solo in quella circostanza che la sinistra prese coscienza, in tutta la sua drammaticità, della frattura che si era creata fra il mondo dei produttori, difesi e garantiti dal sindacato e dal Partito Comunista, e il variegato mondo degli esclusi, “fatto di emarginazione, disoccupazione, disoccupazione giovanile, disgregazione” (così lo descriveva Asor Rosa), privo di rappresentanza, sostanzialmente estraneo al mondo del lavoro, talora per necessità, spesso per scelta (sono gli anni del “rifiuto del lavoro”, dell'allergia al “posto fisso”, del primato dei “bisogni” più o meno proletari, come documenta una sterminata letteratura sociologica sulla condizione giovanile).
Fra la prima società (quella dei produttori) e la seconda (quella dei marginali) Asor Rosa opta risolutamente per la prima, vista come la sola capace di far uscire l’Italia dalla “crisi”.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e della divisione della società italiana in una Prima e una Seconda società non si è mai smesso di parlare, anche se in forme e con intenzioni diverse. La dicotomia di Asor Rosa, infatti, non sorgeva dal nulla, ma si innestava su un filone di ricerche che risaliva almeno alla fine degli anni ’60, quando si cominciò a discutere del “dualismo” del mercato del lavoro italiano. Per gli studiosi del mercato del lavoro la frattura non era esattamente quella, molto politica, messa a fuoco da Asor Rosa, ma quella, soprattutto economica, fra le fasce forti e le fasce deboli dalla popolazione: da una parte i lavoratori maschi adulti (o “nel fiore dell'età”, come allora ebbe a descriverli l’economista Marcello de Cecco), dall’altra i giovani, le donne e gli anziani, tendenzialmente esclusi dal mercato del lavoro in quanto meno produttivi.
Poco per volta, tuttavia, anche la letteratura sul mercato del lavoro ha preso una piega un po’ diversa. Più che sull’esclusione, si è insistito sulla piaga della precarizzazione, contrapponendo agli occupati garantiti, insediati in posti di lavoro sicuri, a tempo pieno, e protetti dai sindacati, il vasto arcipelago delle occupazioni a termine, prive di tutele e di stabilità, tipicamente riservate ai giovani e alle donne. La Seconda società, insomma, nel giro di venti anni ha cambiato pelle: all’inizio della storia (anni ’60) era la società degli esclusi, ma con il trascorrere dei decenni è diventata la società dei precari.
Io penso sia venuto il momento di prendere atto che, nell’Italia come è diventata in questi anni, di società non ne convivono due ma tre. C’è la Prima società, o società delle garanzie, fatta di dipendenti pubblici inamovibili e di occupati nelle grandi fabbriche, tutelati dai sindacati e dagli ammortizzatori sociali. C’è la Seconda società, o società del rischio, fatta di partite Iva, artigiani, piccoli imprenditori e loro dipendenti più o meno precari, accomunati dalla esposizione alle turbolenze e ai capricci del mercato. E c’è la Terza società, o società degli esclusi, fatta di lavoratori in nero (spesso immigrati), disoccupati che cercano attivamente un’occupazione, lavoratori scoraggiati che il lavoro non lo cerano solo perché hanno perso la speranza di trovarlo.
La novità è che, nel corso del 2014, le dimensioni della Terza società sono per la prima volta nella storia d’Italia divenute comparabili a quelle delle altre due: dieci milioni di persone, più o meno quante ne contano la Prima e la Seconda società. La grande svolta, secondo la ricostruzione storico-statistica della Fondazione David Hume, sembra essere intervenuta fra il 2004 e il 2007, giusto un istante prima dell’esplosione della grande crisi del 2007-2014. È allora che il tasso di occupazione delle fasce deboli (giovani e donne) ha cominciato a perdere colpi. È allora che il peso della Terza società ha cominciato a salire vertiginosamente, a colpi di mezzo milione di persone in più ogni anno. Ed eccoci, alla fine di questa triste galoppata, ad occupare la terz’ultima posizione fra i 34 Paesi Ocse: solo in Grecia e in Spagna la Terza società è più ampia che da noi (vedi grafico di sinistra).
Si potrebbe congetturare che, in fondo, il peso abnorme della Terza società sia una delle tante anomalie che all’Italia derivano dalla sua anomala storia economico-sociale: l’unità nazionale tardiva, il fascismo, l’industrializzazione accelerata degli anni ’50 e ’60. Ma questa lettura è incompatibile con i dati. Se andiamo indietro nel tempo, e ci chiediamo come stavano le cose mezzo secolo fa, fra la fine degli anni ’50 e l'inizio degli anni ’60, scopriamo che allora il nostro tasso di attività era, a differenza di oggi, perfettamente allineato a quello degli altri paesi (vedi grafico di destra). Su 24 economie di mercato, 12 avevano un tasso di attività più elevato del nostro, ma altrettante ne avevano uno più basso. Il che suggerisce che, allora, nel nostro Paese non si era ancora installata quella drammatica mancanza di posti di lavoro che è il più importante indizio con cui la Terza società segnala la propria presenza. La Terza società non è un retaggio del passato, ma un tratto distintivo dell’Italia contemporanea.
È importante, il fatto che le società siano tre e non due?
Sì, è molto importante perché pone un problema di rappresentanza nuovo. Storicamente, la Prima società ha avuto nei sindacati e nella sinistra i suoi paladini naturali, mentre la Seconda è stata, molto imperfettamente, tutelata dalla destra. La Terza società, per molti versi la più fragile e indifesa, non ha invece avuto mai una rappresentanza politica vera. E non ce l’ha nemmeno oggi che è diventata, almeno numericamente, altrettanto rilevante delle altre due. La sinistra-sinistra continua a guardare alla Prima società e al mondo dei garantiti, la destra-destra alle partite Iva e alla società del rischio, mentre il PdR, il Partito di Renzi, tenta con discreto successo di rappresentarle entrambe. Agli esclusi della Terza società, affamati di lavoro regolare prima ancora che di stabilità del posto, non sembra pensare nessuno.
Fino a quando?



D’Alema: nel Pd gestione arrogante Scontro tra minoranza e renziani
L’ex premier attacca il capo del governo: serve una rinascita, fondiamo un’associazione Bersani: parole sacrosante. Guerini: avete perso, dovete farvene una ragione

di Francesca Schianchi La Stampa 22.3.15

Dopo quasi sei ore di interventi, a metà pomeriggio l’ultimo a raggiungere il leggio è Gianni Cuperlo. In prima fila, nell’imponente Acquario romano attrezzato con maxi schermi e bandiere del Pd, in questa riunione di tutte le minoranze dem intitolata «A Sinistra nel Pd», sono Rosy Bindi, Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Stefano Fassina, più defilato c’è Pippo Civati; fino a poco prima c’erano Guglielmo Epifani, Roberto Speranza, Francesco Boccia («è la prima volta dopo il congresso che le diverse anime di sinistra decidono di mettersi insieme», introduce soddisfatto al mattino Alfredo D’Attorre). «Massimo, rispetto la tua storia, ma dovresti chiederti perché la sinistra ha ceduto culturalmente negli anni in cui siete stati al potere. Ci hai ammonito di stare insieme: ma se tu e altri lo aveste fatto un po’ prima, ora la montagna sarebbe meno alta da scalare», si rivolge, pacato ma durissimo, Cuperlo all’ex premier, lì a due metri da lui. Nel corso di questa giornata, è il secondo ex fidatissimo collaboratore a rispondergli per le rime: «Dispiace che dirigenti importanti per la storia della sinistra usino toni degni di una rissa da bar. Così si offende la nostra comunità», aveva twittato poche ore prima il già dalemiano Matteo Orfini – oggi leader dei Giovani turchi - rispondendo all’intervento di quello che è stato suo maestro in politica.
«Colpi, non ultimatum»
È la rivolta degli ex discepoli, in questo sabato che D’Alema trascorre alla riunione delle minoranze, da «extraparlamentare», ironizza, prendendosi la scena con il suo intervento all’ora di pranzo, pochi minuti punteggiati da continui applausi, per dire che il Pd è «un partito a forte conduzione personale che ha una certa carica di arroganza», un partito «non grande se stiamo al numero degli iscritti: 250 mila quando i Ds ne avevano 600 mila», ma con grande «forza di attrazione del trasformismo», in cui il saldo tra chi se ne va e chi arriva non è positivo. Ma ne ha anche per le minoranze lì con lui, che striglia ricordando che solo «un certo grado di unità nell’azione» può permettere loro di avere un qualche peso: bisogna definire i punti «invalicabili» e muoversi con «intransigenza»; altro che gli ultimatum pronunciati da Bersani e altri sulle riforme, «non si annunciano ultimatum, si danno dei colpi cercando di fare in modo che lascino il segno». Un discorso che provoca le reazioni di Cuperlo e Orfini, e come prevedibile dei renziani: «Renzi ha stravinto il congresso e portato il Pd al 41% per cambiare l’Italia dove altri non sono riusciti, qualcuno se ne faccia una ragione», twitta il vicesegretario Lorenzo Guerini. Agli atti, D’Alema lascia anche la proposta di fondare un’associazione «per il rinnovamento della sinistra», aperta a membri del Pd e non.
La ricerca dell’unità
È proprio alla ricerca di un’improbabile unità, per essere più incisivi nel rapporto con Renzi, che si riuniscono le minoranze. Ma le mediazioni non sono facili: Speranza esclude la scissione e Civati esordisce chiedendosi se «siamo compatibili col renzismo noi oggi, o il renzismo è compatibile con la sinistra». La Bindi annuncia che, se non cambia la riforma costituzionale, al referendum starà con chi la vorrà abrogare, perché «non possiamo rassegnarci a chiamare di sinistra un governo che non fa cose di sinistra»; Fassina propone un «coordinamento parlamentare» e Nico Stumpo fa sapere che invece «Area riformista va avanti per la sua strada». Bersani lancia l’idea di rivedersi «in estate», e conia la più chiara delle sue metafore: accettare il trasformismo «è come vendere casa per andare a stare in affitto». La risposta di Cuperlo è una proposta e una speranza: «E allora ricompriamocela, questa casa»

Cuperlo: “Massimo, io non ti rottamo ma anche tu hai fatto molti errori”
La critica al padrino politico: nel passato è mancato il coraggiointervista di F. Sch. La Stampa 22.3.15
Gianni Cuperlo, ma come, con il suo intervento ha rottamato anche lei D’Alema?
«Rottamare è un termine odioso e io verso D’Alema ho amicizia e stima. Ho fatto un ragionamento sulla storia che abbiamo alle spalle, che riguarda D’Alema, Bersani, ciascuno di noi. Era un discorso anche autocritico».
Cioè?
«Dobbiamo capire quali errori abbiamo fatto nel corso degli anni: se siamo a questo punto è perché c’è stato un deficit di coraggio e ambizione. Questa Europa non è stata capace di aggredire la crisi dal punto di vista dei bisogni delle persone. Se ora la strada è in salita è anche per la timidezza di chi aveva la possibilità di mettere in discussione tutto questo».
E qui si viene all’attacco a D’Alema: «Dovresti chiederti perché la sinistra ha ceduto culturalmente negli anni in cui siete stati al potere».
«Non si tratta di attaccare D’Alema, io ho fatto un discorso su come noi pensiamo di ricostruire la forza e la credibilità della sinistra dentro e fuori dal Pd. Ieri è stata una giornata per ragionare di questo. Ho fatto una riflessione sul passato e ho detto che le risposte non possono essere quelle di prima».
Lei ha collaborato a lungo con D’Alema, le è costato dovergli fare queste critiche?
«Non volevo personalizzare, ho parlato a lui e alla sinistra europea che però non era seduta in prima fila. Era il modo per capire perché il socialismo è così in difficoltà e perché il Pd ha grande consenso, ma su politiche che si allontanano spesso dai principi e valori di cui ci sentiamo parte».
In che rapporti siete oggi?
«Buoni, come tra persone che si conoscono da anni. La politica è bella perché devi poterti dire quello che pensi, in serenità. Io penso che D’Alema abbia fatto cose importanti, ma l’incontro di ieri riguardava il perché la sinistra è così in difficoltà con il suo mondo. La risposta che mi sono dato non mette in discussione la qualità dei singoli. Penso che dobbiamo imparare la laicità del confronto».
Gliele aveva mai fatte queste critiche a tu per tu?
«Le ho scritte in un libro del 2009, “Basta zercar”, che abbiamo anche presentato insieme, e non dubito che anche solo per questo lui sia stato tra i pochissimi ad averlo letto».
Però ieri non sarà stato contento del suo intervento...
«Non lo so. Ma è legittimo: quando si discute, si dicono cose che si condividono e altre meno. L’importante è essere sempre animati da uno spirito di lealtà. Io ho fatto un intervento che ritenevo giusto fare. Mi sono alzato, sono andato al microfono e ho detto quello che penso, così come ha fatto lui. E’ sempre un buon esercizio».
In questo incontro, come minoranza Pd, avete fatto dei passi avanti?
«Era giusto confrontarsi sui percorsi fatti finora. Sarà importante su alcuni passaggi costruire una posizione condivisa: non per impedire le riforme, ma per farle bene».

La poca memoria del «líder máximo»
Massimo D’Alema è stato bersagliato per anni a causa dell’atteggiamento un po’ prepotente che oggi «Baffin di ferro» rinfaccia al premier.di Gian Antonio Stella Corriere 22.3.15
Quella memoria corta dell’ex presidente del Consiglio allergico a ogni critica
«G li piace il premier che non deve chiedere mai, quello che usa “Arrogance”». Indovinello: l’ha detto D’Alema contro Renzi? No, la compagna Fulvia Bandoli contro Massimo D’Alema. Bersagliato per anni esattamente per l’atteggiamento un po’ prepotente che oggi «Baffin di ferro» rinfaccia al presidente del Consiglio.
Intendiamoci, capita spesso in politica che il bue dia del cornuto all’asino. Ma chi ha un pizzico di memoria non ha potuto trattenere una risata ascoltando ieri l’ex segretario, ex presidente della Bicamerale, ex capo del governo, ex candidato al Quirinale e poi alla carica di ministro degli esteri dell’Ue, lanciare contro il premier fiorentino l’accusa di avere «un certo grado di arroganza». E non perché sia strampalata, visto che l’insofferenza di Renzi alle critiche è stata più volte lamentata da altri. Ma per il pulpito da cui veniva.
Nessuno come «la volpe del Tavoliere» (copyright di Luigi Pintor) infatti, si è tirato addosso negli ultimi vent’anni la stessa critica. E spesso proprio da sinistra. In nome della quale, estrosamente scravattato, ieri parlava. «D’Alema ha un atteggiamento proprietario del partito», denunciava Gloria Buffo. «Ci vorrebbe un po’ di meno “io” e un po’ di più “noi”», attaccava Claudia Mancina. «Questi qui si sentono migliori del Paese che governano, dell’opinione pubblica, delle cosiddette parti sociali e, se mi posso permettere, degli intellettuali e dei professori», sbuffava Gianfranco Pasquino: «Un atteggiamento classico dei costruttori di regimi: il meglio è al governo, lasciateci lavorare». E Giulia Rodano riassumeva un intervento del «lìder màximo», con parole micidiali: «Il discorso suonava così: la leadership dell’Ulivo spetta alla sinistra e la sinistra sono me».
Ancor più da sinistra Fausto Bertinotti, infastidito dalle ironie sui suoi modi da primadonna, rideva: «In fatto di boria non mi metterei mai in competizione con lui: è il Massimo». E resta indimenticabile il corsivo de «la jena» su «il manifesto» dopo la presa di Palazzo Chigi da parte del Cavaliere nel 2001: «"Non temo il governo Berlusconi perché non credo riuscirà a realizzare quanto ha promesso. Temo piuttosto l’occupazione del potere, vizio antico", ha detto l’onorevole D’Alema. Preoccupazione fondata, tanto più se espressa da un esperto della materia».
Non diversamente la vedevano diversi compagni di strada. Come il socialista Roberto Villetti: «Parla come il capo di un monocolore». O Antonio Di Pietro: «Deve smetterla di pensare di essere un viceré circondato da attacchini o da portatori d’acqua». Finché, quando il luminoso destino al quale sembrava avviato cominciò a oscurarsi, Achille Occhetto e cioè la prima vittima dei suoi modi spicci da rottamatore («Mi disse: “Achille, sei tecnicamente obsoleto”») lo liquidò velenosamente così: «Se è solo non se ne può lamentare. Ha cercato questa solitudine, voleva le mani libere per esaltare le sue mirabolanti capacità…».
Difficile negare che l’allora astro nascente della sinistra avesse fatto di tutto per tirarsi addosso certe critiche. Lo stesso Francesco Cossiga, il primo sponsor del «giovane statista» («Sto diventando un dalemiano di ferro») che per lui meritava l’appoggio nella scalata a Palazzo Chigi, a un certo punto sbottò: «Complimenti vivissimi. Ormai non è più solo il leader del Pds. È anche il leader dell’Ulivo. E se va avanti di questo passo prima o poi diventerà anche il leader del Polo». Fino a spazientirsi: «Ha una vocazione alla totalità: lui al centro e gli altri satelliti. Vuole essere il tutto. E invece in democrazia si può essere solo una parte».
Lo stesso «Baffin di ferro» fece di tutto per tirarsi addosso certe accuse, certe diffidenze, certi sospetti. In particolare ostentando l’allergia a ogni critica. Battute e battutacce di cui gli archivi traboccano. «Una corrente non la voglio. Inesorabilmente avrebbe una maggioranza di stupidi». «Peggio della sinistra c’è solo la destra». «Non leggo Parlato in Italia, figuriamoci all’estero». «Tendo a pensare che i miei critici abbiano torto» «Mi piaccio, non lo nego. So di avere molti difetti ma nondimeno sono abbastanza soddisfatto di me». Fino ad alcune freddure che gli sarebbero state rinfacciate per anni. Come quella sull’incapacità di capire di Sergio Cofferati, ai tempi in cui era il leader indiscusso del sindacato: «Lo spiegheremo anche al dottor Cofferati…». O sugli alleati di governo: «La mia maggioranza? Un mezzo partito, cioè i Ds, e dodici virus». Al che l’allora verde Carlo Ripa di Meana saltò su invelenito: «È un uomo d’insopportabile arroganza. Giunto in età matura, continua a gettare molotov non più su poliziotti e carabinieri ma sugli alleati».
Ogni tanto, quando le critiche riprese dai cronisti (le famose «iene dattilografe») gli creavano problemi, si sfogava: «Non capisco davvero come si sia creata questa immagine di me». Fatto sta che il ritratto più feroce glielo fecero Gino e Michele, gli autori di «Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano» che proprio all’ Unità erano cresciuti: «Ormai Massimo D’Alema è così pieno di sé che sul cruscotto della sua auto ha messo una calamita con la foto di Gesù che lo guarda e la scritta: “Papà, non correre”».

Pd, D’Alema attacca Renzi “Gestione arrogante, va colpito ora rifacciamo noi la sinistra”
Bersani: parole sacrosante. Cuperlo lo critica Orfini: toni da rissa al bar Guerini: si rassegninodi Giovanna Casadio Repubblica 22.3.15
ROMAMassimo D’Alema non doveva intervenire. «No, Massimo non è iscritto a parlare». Garantisce Sesa Amici a apertura dell’assemblea delle sinistre dem all’Acquario Romano. Sinistre al plurale, perché ci sono varie correnti a sinistra nel Pd. Proprio dal disaccordo e dalle divisioni della minoranza interna, D’Alema comincia segnando lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo” nell’assemblea degli anti renziani. L’inizio è minimalista, con la proposta di Alfredo D’Attorre di un coordinamento dei gruppi parlamentari sulle riforme istituzionali per far cambiare opinione al premier. Ma si finisce con un’insurrezione contro Renzi, applausi a ogni “affondo”, critica e contestazione, a cui D’Alema dà il segnale di partenza.
Il leader “rottamato”, e perciò ormai della «sinistra extraparlamentare» - come ironicamente si autodefinisce - sfora di poco i 5 minuti previsti, ma colpisce con precisione millimetrica i bersagli. Attacca la stessa sinistra: «Questa parte del Pd può avere un peso solo se raggiunge un certo grado di unità nell’azione, altrimenti non avrà alcun peso». Secondo bersaglio è il PdR, il Pd di Renzi, «un partito a forte conduzione personale e con un certo carico di arroganza». L’arroganza è quella di Renzi a cui interessa una cosa sola e cioè vincere, perciò ha usato il metodo di tenere insieme il partito per eleggere Mattarella al Quirinale e non certo per afflato unitario. Ragione per cui «non servono ultimatum», stile quelli di Bersani, è il sottinteso, ma bisogna «essere in-tran-si-genti scandisce - e dare dei colpi quando è necessario, facendo in modo che lascino dei segni». Bordata anche sul partito che ha un terzo degli iscritti dei Ds: 200 mila nel Pd contro i 600 mila. E insomma serve «un’associazione per la rinascita della sinistra ». Non è un partito parallelo, però di sicuro l’invito a una scialuppa che, nel caso, possa portare anche altrove dal Pd. Si scatena la resa dei conti tra il lìder Maximo e quelli che in passato sono stati i suoi delfini. Matteo Orfini, ora presidente del Pd, twitta: «Usa toni degni di rissa da bar». Mentre Gianni Cuperlo sferra la stoccata: «D’Alema ha detto cose giustissime. Però dovresti chiederti perché la sinistra ha ceduto culturalmente negli anni in cui ha avuto il potere... se tu e gli altri aveste fatto il vostro dovere forse oggi la montagna sarebbe stata più facile da scalare».
Non basta la risposta con un tweet del vice segretario Lorenzo Guerini alle sinistre: «Renzi ha stravinto il congresso e portato il Pd al 41%, qualcuno se ne faccia una ragione». Nell’assemblea i toni si alzano. Ileana Argentin denuncia: «Non siamo vassalli di nessuno, la minoranza è stata silenziata sulle riforme, questo non è fascismo, di più». Un insegnante precario attacca la riforma della scuola che farebbe «bambini-balilla». Pier Luigi Bersani offre la riscossa: «Da D’Alema pa- role sacrosante, c’è tanto disagio». E soprattutto bacchetta: «Cercare voti a destra è come vendere la casa per andare in affitto». Sel è presente con Nicola Fratoianni. Due minuti di applausi per Rosy Bindi, quanti D’Alema, e non è da meno in bordate: «Il governo non fa cose di sinistra, se avesse fatte queste cose un altro governo non le avremmo votate». Annuncia che non voterà le riforme istituzionali se non saranno modificate e anzi aderirà al referendum per il “no”. La scissione è il convitato di pietra. S’indigna Roberto Speranza: «No, no e no scissione». Civati invita alla scossa: «Oppure l’ultimo spenga la luce». Fassina nega possa nascere un “correntone” dem. Infatti una linea comune proprio non c’è. E tocca a Cuperlo concludere: «Non capivo quando Pier Luigi diceva “il tacchino sul tetto”, ma oggi subito ho compreso la metafora della casa in affitto... quindi, riprendiamoci la casa».

Ma la contro-Leopolda divide i dissidenti
di G. C. Repubblica 22.2.15
ROMA Un’associazione per la rinascita della sinistra sarebbe dovuta nascere già tempo fa. Una contro-Leopolda. L’idea frulla nella testa di D’Alema da un paio d’anni e ieri la spiega così: «Il sistema Leopolda si va diffondendo, Renzi ha capito benissimo che si vince dall’interno e dall’esterno. Perciò noi dobbiamo trovare un modo creativo di organizzare, non di fare iscritti a correnti, ma di creare una grande associazione per il rinnovamento e la rinascita della sinistra».
Un modo per andare “oltre” il Pd, non per fare un partito parallelo o una galassia dei movimenti, pensato molto prima della “coalizione sociale” di Maurizio Landini. Certo un progetto insidioso per Renzi, che evoca possibili scissioni. Più ampio rispetto a Red - la corrente dalemiana durante la segreteria dem di Veltroni. Il rischio è che l’acronimo “Ars” si confonda con quello dell’Associazione di rinnovamento della sinistra di Aldo Tortorella.
Comunque la proposta è accolta dal gelo nell’assemblea delle sinistre dem. Piace a Pippo Civati, dato in uscita da mesi ormai dal Pd di Renzi: «Riferendomi alla proposta di D’Alema, vorrei dire che l’impegno dentro e fuori il Parlamento già lo faccio perché molti miei elettori alle primarie se ne sono andati dal Pd». Non dispiace a Barbara Pollastrini, che con Gianni Cuperlo ha fondato Sinistradem, e che infatti chiede un Pd attento a «quello che si dirà nella piazza» di Libera ieri a Bologna e del 28 a Roma per la manifestazione della Fiom, anche perché «il Pd senza la sinistra semplicemente non è». Ma il terreno è minato e scatena il “no” delle altre correnti. I bersaniani Alfredo D’Attorre e Miguel Gotor lanciano semplicemente un coordinamento dei gruppi parlamentari dem che, da ora alle regionali, individui un elenco di modifiche alle riforme della Costituzione e della legge elettorale. Un tavolo di lavoro anche con Renzi e la ministra Boschi.
Un po’ troppo poco secondo altri. Un po’ troppo invece per Nico Stumpo che, a nome di Area riformista la corrente di Roberto Speranza, frena: «No, non siamo d’accordo ». Nessuna briglia in pratica sul voto contro le riforme se non dovessero passare le modifiche. È l’ex segretario Pier Luigi Bersani - che più aveva puntato a un coordinamento politico come epilogo dell’assemblea delle sinistre dem - a cercare un seguito all’iniziativa di ieri: «Facciamo qualcosa in estate in un luogo che assomigli a un Palazzetto per lanciare alcune idee basiche». Ai bersaniani la cosa piace. Chiara Geloni, con orecchini-gufo (perché Renzi accusa gli anti renziani di “gufare”) pensa che bisognerebbe cominciare a organizzare. Vincenzo Vita, come tutti i civatiani, guarda piuttosto a Landini, e anche qui l’Ars dalemiana è scavalcata. ( g. c.)

Quegli ex dalemiani all’attacco del padre così va in scena l’autocoscienza dem
Gli affondi di Cuperlo e di Orfini, storici collaboratori dell’ex leader, all’assemblea Pd segnano una resa dei conti generazionaledi Filippo Ceccarelli Repubblica 22.3.15
ESISTONO riunioni politiche che anche senza volerlo finiscono per assomigliare a sedute di autocoscienza famigliare in cui padri, zii, figli, fratelli e nonni se ne dicono e se ne rinfacciano di tutti i colori senza che alcuno si senta in colpa, quando tutti invece sono colpevoli.
Di Massimo D’Alema, che ieri ha impresso il suo marchio incandescente sull’assemblea della minoranza Pd raccoltasi in un luogo che si chiama — oh, guarda un po’! — “l’Acquario”, ecco, dell’ex Leader Maximo si può pensare tutto il male possibile, ma non che sia un uomo ignorante.
Così quando ha cercato di sfondare Renzi aveva di sicuro in testa un celebre passo di Gramsci, di quelli che nelle scuole di partito si mandavano a mente: «Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza». E qui il giudizio del pensatore sardo si fa così tagliente da violare le logiche, i canoni e i tabù di classe: «È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere».
Il brano di Gramsci, poco solidale con i camerieri, ma molto acuto e parecchio calzante alle dinamiche della sinistra, attribuisce a colui che «rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente» un ruolo minore e perfino disprezzabile, quello dei “costruttori di soffitte”. I palazzi infatti li hanno edificati i padri, ma i figli li accusano di non averli fatti a dieci o a trenta piani: «Dite di esser capaci di costruire cattedrali — conclude Gramsci — ma non siete capaci che di costruire soffitte ».
D’Alema ha ottenuto i suoi applausi. Ma già Cuperlo, che per tanti anni è vissuto al centro del dalemismo reale, si preparava a prendere le distanze non tanto dal D’Alema di oggi, ma da quello che non ha fatto il suo dovere nel passato. E poiché anche Cuperlo ha letto Gramsci, la sua recriminazione vale almeno il doppio, e il suo ex capo se n’è dispiaciuto giudicandola insensata.
Matteo Orfini, d’altra parte, che di D’Alema pareva aver mutuato addirittura il timbro e l’eloquio, ieri nemmeno s’è affacciato all’”Acquario”. Renzi in effetti se l’è ben scelto come presidente del Pd e siccome il giovane turco ha capito rapidamente cosa ci si aspetta da lui, ieri ha fatto un tweet accusando D’Alema di aver usato “toni degni di una rissa da bar” — là dove l’antica consuetudine gli dava la certezza di avergli messo un dito nell’occhio.
Ora, Renzi la fa gramscianamente un po’ facile non solo con le soffitte, ma ci mette pure le cantine, il garage, gli appartamenti, la chiostrina, i lastrici solari e le antenne della tv. Stringi stringi, la sua migliore saggezza sta nel dire: io non c’ero. Perciò rottama chi gli pare, come gli pare, quando gli pare, e se ne compiace osservando i dilemmi di quella parte del Pd che lo contrasta: «Se si chiama minoranza, c’è un motivo ed è perché ha perso».
Non è carino dirlo. Ma non sarà né il primo né l’ultimo a pensarlo. Si può notare semmai che in questo genere di arroganza impetuosa e a tutto tondo, di puro potere, Matteo ricorda Fanfani e Craxi; mentre De Mita e lo stesso D’Alema si distinguevano piuttosto per una arroganza, o magari è superbia, comunque di tipo intellettuale, di cui Renzi è privo.
Qualche mese fa, forse un po’ pateticamente, Camusso è sfilata contro il governo indossando una maglietta con su scritto: «Arrogance, profumo di premier ». Sennonché, oltre a essere arrogante, quale prodotto dell’evoluzione della specie in un tempo di personalismo leaderistico e post-ideologico, spesso Renzi rivendica questo suo tratto. Meglio arrogante, dice, che vigliacco; meglio arrogante che disertore; meglio arrogante che arrendermi e così via, in un continuo di “ce ne faremo una ragione”, “non accettiamo lezioni” e altri plurali che in risposta alle critiche sulla decretazione d’urgenza fino all’uso del “Renzicottero” suonano sempre più majestatis.
Anche D’Alema, come si diceva, non è che ai suoi tempi e anche oggi sia da considerarsi un dilettante dell’arroganza. Esiste in proposito una vasta letteratura non priva di auto-ammissioni e di autentiche perle, alcune perfino “postume”, cioè elargite dopo la rottamazione. Una registrata a Napoli: “Sapete che ho un’alta concezione di me. Ho mediato tra israeliani e palestinesi, non sono venuto qui per mediare tra bassoliniani e anti-bassoliniani». L’altra, accogliendo quasi paterno il ciao di Serracchiani: «Cara, hai fatto la tua fortuna su di me».
Ecco, anche all’”Acquario” la fortuna è capricciosa. Ma con l’ausilio di Gramsci, la collaborazione di Cuperlo e la competenza di Orfini per una volta la dea bendata sembra che abbia ha poco a che fare con gli inevitabili psicodrammi del post dalemismo inter-famigliare e meta-generazionale.

Battaglia legittima ma senza proposta
di Emilia Patta Il Sole 22.3.15
Quando l’ex premier Massimo D’Alema propone alle minoranze del Pd di dar vita a «una grande associazione per il rinnovamento e la rinascita della sinistra che non sia e non voglia essere un nuovo partito ma si proponga di offrire uno spazio di partecipazione e riflessione ai cittadini, membri del Pd o no» non pensa certo a una futura scissione. Anche l’ex segretario Pier Luigi Bersani, che apprezza la proposta, parla di «una sinistra combattiva ma dentro casa nostra». I due ex leader della sinistra sono troppo accorti per lanciarsi in avventure a dir poco rischiose lasciando la casa madre che hanno contribuito a fondare. E hanno per di più poco a che spartire con la sinistra arrabbiata alla Landini. D’Alema e Bersani pensano a quegli elettori della sinistra del Pd che non hanno rinnovato la tessera e che in parte si sono rifugiati nell’astensione, e legittimamente vogliono dare loro voce dentro il partito. Certo, drammatizzare l'uscita dal partito del “popolo della sinistra” suona un po' stravagante a fronte dei risultati elettorali del Pd renziano, arrivato a superare il 40% laddove il Pd di Bersani si è fermato due anni fa poco sopra il 25%. Tuttavia il progetto lanciato ieri è del tutto legittimo, e i due leader pensano naturalmente a costruire una possibile alternativa in vista del prossimo congresso. D’altra parte lo stesso Matteo Renzi, quando era ancora sindaco di Firenze, ha preparato la sua scalata al partito dando vita alla Leopolda, un’esperienza del tutto nuova che guardava oltre i confini del Pd.
Quello che però la giornata di ieri evidenzia è la mancanza di una proposta politica alternativa, a parte le critiche agli ormai famosi capilista bloccati dell’Italicum. E una vera proposta politica alternativa a Renzi – lasciando possibilmente da parte gli attacchi al Pd renziano “ricettacolo di trasformismo”, parole che rischiano di far venir meno le ragioni dello stare insieme pur nella diversità di idee – non può nascere senza una riflessione seria su quanto accaduto negli ultimi anni. Innanzitutto le ragioni che hanno portato alla débâcle del febbraio 2013 di fronte al nuovo populismo del Movimento 5 stelle in un momento in cui l’avversario storico, Berlusconi, perdeva 9 milioni di voti. E non è che subito dopo Renzi abbia fatto un colpo di mano portando via alla vecchia dirigenza di provenienza diessina le chiavi della ditta. Ci sono state delle primarie molto partecipate che l’attuale segretario e premier ha stravinto mentre la lista guidata da Gianni Cuperlo e appoggiata sia da D’Alema sia da Bersani ha raccolto il 18%. Proprio ieri Cuperlo ha cominciato a ragionare sulle colpe dei padri ma sembra aver dimenticato quel 18% sotto il suo nome. La sinistra del Pd, a partire dai suoi componenti più giovani, non ha altra strada che ricominciare a fare politica uscendo dalla logica dell’accusa ai “padri” e dalla sfera della pura recriminazione che sfocia in giudizi personali e morali sul renzismo. E con i giudizi personali e morali, come insegna la decennale opposizione a Berlusconi, non si fa politica.

Riunite sì, unite mai, le sinistre Pd
Democrack. La convention delle minoranze dem a Renzi: ora un tavolo sulle riforme
Ma Guerini: Matteo ha stravinto, fatevene una ragione
I consigli del D’Alema «extraparlamentare». Cuperlo sbotta: pensa a quando eri al potere tu
di Daniela Preziosi il manifesto 22.3.15

Il leader: nel Pd io ho i numeri Non mi trascineranno in risse
di Maria Teresa Meli Corriere 22.3.15
ROMA Prima di diventare segretario del Pd Matteo Renzi aveva proposto: «Rottamiamo le correnti». Quando è diventato leader del partito ha capito che di tutte le imprese che si accingeva a compiere quella era la più improba. Perciò un mesetto fa si era limitato a questo appello: «Vorrei che fiorissero più idee e meno correnti». Ma non c’è stato verso di cambiare l’insopprimibile tendenza del Partito democratico a dividersi e ad attaccare il segretario di turno. Ieri ne ha avuto un esempio lampante. Massimo D’Alema è partito a testa bassa contro di lui. Gli ha dato dell’arrogante («detto da lui», ha ironizzato il presidente del Consiglio con gli amici) e poi giù un lungo elenco di accuse e l’incitamento alla rivolta della minoranza interna.
«Colpi della vecchia guardia» li ha definiti con i suoi il presidente del Consiglio. E ha aggiunto: «Mi si vuole provocare per trascinarmi in una rissa ma io non ho né voglia né tempo, devo occuparmi di cose concrete e non di polemiche». Cose concrete come la decisione che dovrà prendere sul ministero delle Infrastrutture. Il premier ha spiegato che terrà l’interim «per un breve» periodo. Il che non vuol dire brevissimo. Renzi infatti intende arrivare a una soluzione che dovrebbe comportare anche un ricambio dei sottosegretari di quel dicastero. Un vero repulisti. Parlerà di tutto questo, domani, con Mattarella. È comprensibile, quindi, che la sua attenzione sia rivolta altrove.
Ma il problema è che non c’è solo D’Alema a suonare la carica. Per quanto divisa, la minoranza, seppur con toni diversi, ha lasciato capire che non farà più sconti al segretario, né dentro il partito né in Parlamento. Il leader non vuole incendiare gli animi, anche se certi atteggiamenti non gli piacciono per niente: «La minoranza, ora che non c’è più il patto del Nazareno pensa di tenermi in ostaggio, ma non c’è la farà, i numeri nel Pd ce li ho io». Però tutte queste «manovre di posizionamento» non lo convincono per niente, anche in vista dei prossimi, importanti, appuntamenti, parlamentari. «Io – ha spiegato – ho vinto le primarie con il 68 per cento e alle Europee ho portato il Partito democratico al 41 per cento. Se qualcuno vuole cambiare il segretario dovrà aspettare il 2017 quando ci sarà il prossimo congresso del Pd, allora chi vuole potrà cercare di prendersi la sua rivincita. Ma adesso dovremmo lavorare tutti insieme perché le cose da fare sono tante e il Paese è a un punto di svolta importante».
Insomma, il premier non vorrebbe che si vanificasse ciò che è stato fatto finora per le beghe interne. «Peraltro — è il ragionamento che fa il segretario — la nostra gente non ne può più delle nostre divisioni. Vuole vederci impegnati a trovare soluzioni per i problemi degli italiani. Che senso ha sprecare tempo in polemiche sterili?».
Polemiche che, del resto, sembrano attraversare la stessa minoranza, divisa più che mai al suo interno. Una parte di quell’area sembra quasi propendere per la scissione, sebbene il presidente del Consiglio sia convinto che, nel caso in cui dovesse veramente nascere un soggetto politico guidato da Landini, «alla fine ci entrerebbero solo quelli di Sel».
Lo spettacolo di questo Pd in ordine sparso a pochissimi mesi dalle regionali non fa piacere al premier, che ha ripetuto più volte di «non pretendere obbedienza» dai parlamentari, ma «lealtà, sì». Senza quel collante, a suo avviso, una forza politica perde la propria ragione sociale. E proprio perché alla prossima tornata elettorale manca poco, Renzi dovrà, ancora una volta, fare affidamento sull’azione del suo governo che ha intenzione di rilanciare, dopo la battuta d’arresto del «caso Lupi». Anche per questa ragione vuole applicarsi seriamente a risolvere la questione del ministero delle Infrastrutture. 

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