sabato 21 marzo 2015

Il libro di Luciano Canfora su Augusto

Augusto figlio di Dio
Luciano Canfora: Augusto figlio di Dio, Laterza, pp. 567, e 24


Risvolto
Ottaviano, figlio adottivo di Cesare: è lui l’Augusto, già divo in vita, l’imperatore che fonda la sua egemonia facendo credere di restaurare la repubblica. Di questa raffinata finzione, della strategia di Augusto nel costruire il potere simulando di rinunciarvi, eliminando avversari e giocando d’astuzia: di questa fine trama Canfora svela l’ordito. E svelando rivela quale inganno nasconde la maschera del potere.
Questo libro salda un vecchio debito, acceso nel 1960. Anni fa scrissi un piccolo saggio intorno al colpo di Stato del diciannovenne Ottaviano realizzato, con tempismo impressionante, il 19 agosto del 43 a.C.. Atto eversivo ammantato di legalità, quella precoce conquista a mano armata della più alta magistratura della repubblica fu, per il giovanissimo e già più che maturo erede di Cesare, il presupposto fondamentale della successiva sua costruzione politica che segnò per secoli la storia del mondo.
La fonte più minuziosa, e molto sapida, intorno a quella vicenda è il terzo libro delle Guerre civili di Appiano di Alessandria, scrittore e funzionario imperiale vissuto nel secolo degli Antonini (95-180 circa), attivo a Roma e in Egitto. Questo colto funzionario, amico di Frontone, sentì il bisogno ad un certo punto della sua vita di scrivere una Storia di Roma, strutturata in un modo che a lui parve originale. In tale ambito, la storia delle Guerre civili – che per lui e per la sua fonte incominciavano con Tiberio Gracco – occupava circa un terzo dell’intero. Ne sono conservati solo i primi cinque libri. Per il periodo che va dalla morte di Cesare (15 marzo 44 a.C.) alla sconfitta di Sesto Pompeo (35 a.C.) è la nostra fonte più ampia e di gran lunga più completa.
Raccontando la «marcia su Roma» di Ottaviano, promettevo di dimostrare che in quei libri, in particolare nel III, noi leggiamo, tradotte in greco e più spesso compendiate o parafrasate, pagine dei Commentarii di Augusto. È giusto ora addurre prove.La domanda capitale è: come fa questo bravo dilettante a conoscere i più riservati dettagli e le situazioni più delicate e segrete di cui talvolta il solo Ottaviano fu testimone?


Augusto, il camaleonte spietato che si fece adorare dai Romani

Un testo di Luciano Canfora sul primo imperatore
di Giovanni Brizzi Corriere 20.3.15
L ibro ricchissimo, complesso e affascinante, Augusto figlio di Dio di Luciano Canfora (Laterza, pp. 567, e 24); che tratta di due non dirò eroi (l’autore, in una delle tante sue felicissime formule, ricorda come quella del periodo sia inevitabilmente, in Appiano, una «storia pragmatica e senza “eroi”, che “va al fondo delle cose”»), ma certo figure di riferimento per l’età delle guerre civili a Roma. Il primo in maniera solo indiretta, trattandosi di quell’Appiano che, circa due secoli dopo i fatti narrati, ha lasciato il resoconto più completo e prezioso degli anni fondamentali successivi alla morte di Cesare. L’altro, Ottaviano poi Augusto, protagonista vero, solo vincitore e (come proprio Appiano sottolinea) creatore del successivo regime monarchico.
Dopo aver fatto la storia dell’autore greco e del suo testo, a lungo dimenticati e talvolta sottovalutati ancor oggi, Canfora affronta, di Appiano, il metodo di lavoro; e rivela come questo «parassita» — così lo ha definito Giuseppe Giusto Scaligero —, il fucus che dei lavori altrui riporta, traducendole ad uso di un pubblico eminentemente greco, intere porzioni, abbia in realtà saputo scegliere assai bene le sue fonti, affidandosi, oltre che a Timagene, il discusso alessandrino suo conterraneo, a due opere preziosissime per noi perdute, le Historiae ab initio bellorum civilium di Seneca padre e i Commentarii de vita sua , le cosiddette Memorie di Augusto. La prima, che nel titolo stesso cercava un initium all’interminabile conflitto civile, risalendo fino ai prodromi graccani, era, su quei fatti, la fonte forse migliore e più indipendente; l’altra restituiva le preziose note personali del primo imperatore. Opere di segno opposto, dunque, che — pur non riuscendo sempre a conciliare — Appiano maneggia però con qualche attenzione critica.
Ma, per venire alla figura del secondo, gigantesco personaggio, e cioè di Augusto, occorre ora accennare al metodo non di Appiano, bensì di Canfora stesso, capace di un prodigioso (e oggi impensabile quasi per tutti…) lavoro di Quellenforschung , di paziente recupero storiografico. Per usare le sue stesse parole, si dovrà rinunciare «al vezzo di mescolare i dati delle fonti onde creare un (fittizio) racconto di “sintesi” anziché cercare di farle parlare distintamente, capirne le differenze ed eventualmente coglierne la consapevole contrapposizione». Proprio così si muove Canfora, sottoponendo il testo di Appiano ad un paziente confronto incrociato con ogni altro autore alternativo della letteratura antica, Dione e Velleio, Plutarco e Svetonio, i poeti augustei e l’infinito epistolario di Cicerone; e, grazie alle sue smisurate conoscenze, giunge non solo a proporre ipotesi acute e sempre puntuali circa l’origine degli asserti appianei, ma anche a far emergere un Augusto almeno in parte inedito; e, direi, talvolta quasi inatteso (come nel rapporto con Cicerone, forse davvero abbandonato al suo destino obtorto collo e non senza rammarichi…).
Del vincitore di Azio, Canfora viene costruendo un profilo complesso e affascinante nella sua fosca grandezza. Capace dei più acrobatici equilibrismi politici, poi giustificati sempre con estrema disinvoltura dialettica; pronto a piegarsi come un giunco, assecondando le situazioni, per riemergere ogni volta; spietato con gli avversari, della cui morte non esita a sincerarsi di persona; gelido e razionale sempre, persino con gli amici; mai esente da calcolo, Ottaviano Augusto — il «camaleonte», secondo l’azzeccata definizione che ne dà l’imperatore Giuliano — è, ben più del padre adottivo Cesare, il politico perfetto, capace di concepir la finezza di «“restaurare” la Repubblica nell’atto stesso di seppellirla per sempre» sotto il nuovo regime.
«Le analogie sono diagnosi compendiarie», osserva infine Canfora, proponendo un suggestivo raffronto tra la mummia di Lenin nel mausoleo sulla Piazza Rossa e il sidus Iulium , la cometa apparsa in morte di Cesare che fa di Ottaviano il Divi filius , anticipando non tanto il titolo di Augustus , quanto l’altro e più compromettente, il greco Sebastòs , «colui che deve essere adorato». È il preludio alla nascita del formidabile impianto ideologico che farà definitivamente di lui il «figlio di Dio», impianto e modello del quale resteranno ostaggi a lungo i successori.


Augusto alla guerra della memoria
Luciano Canfora, «Augusto figlio di Dio» da Laterza. Un libro indiziario che ricostruisce tra fonti antiche e analogiemoderne come il principe fece prevalere una versione depurata e trionfale della sua ascesa
La prima parte del libro è dedi­cata a una minuta ana­lisi della strut­tura, della for­ma­zione e della tra­di­zione dell’opera di Appiano: grande atten­zione filo­lo­gica è rivolta alle forme del libro antico, pun­tando a com­pren­dere il metodo di lavoro dello sto­rico e a rico­struire, nei limiti del pos­si­bile, le fonti (per noi per­dute) che egli ado­però. Tale mate­ria, già affron­tata da altri, viene rie­sa­mi­nata da Can­fora dia­lo­gando più volen­tieri con gli stu­diosi pas­sati che con i con­tem­po­ra­nei, i quali si meri­tano talora taglienti cri­ti­che (per esem­pio, la recente edi­zione dei Frag­ments of the Roman Histo­rians, 3 voll., Oxford 2013). Sono inda­gati così i mate­riali con­tem­po­ra­nei agli eventi che Appiano mise a frutto, ad esem­pio, per il suo docu­men­ta­tis­simo rac­conto delle san­gui­na­rie pro­scri­zioni volute dai trium­viri Otta­viano, Anto­nio e Lepido nel 43 a.C.: la «pagina nera» di Augu­sto (Appiano, Sto­rie di pro­scritti, Sel­le­rio 1990).
Gli anni tur­bi­nosi e vio­lenti seguiti all’assassinio di Cesare gene­ra­rono una grande quan­tità di scritti: una lunga bat­ta­glia per la memo­ria , com­bat­tuta anche dopo la fine degli scon­tri armati. La sug­ge­stiva rico­stru­zione di Can­fora, ricca di acri­bia non meno che di senso poli­tico, immerge il let­tore nel con­flitto che oppose i cesa­riani ai cesa­ri­cidi, e i cesa­riani tra loro: in quei mesi furono scam­biate molte let­tere e dif­fusi aggres­sivi pam­phlet, che rive­la­vano gli spe­ri­co­lati vol­ta­fac­cia com­piuti dai pro­ta­go­ni­sti (com­preso il vin­ci­tore finale) nella loro lotta senza quar­tiere. A distanza di tempo quel mate­riale divenne imba­raz­zante: come nel caso dell’epistolario di Cice­rone (vit­tima dei trium­viri), che fu pub­bli­cato post mor­tem con oppor­tune sele­zioni e fu usato da Augu­sto con spre­giu­di­cata abi­lità. Vi erano, sull’agonia della repub­blica romana, anche reso­conti sto­rio­gra­fici, «nar­ra­zioni incon­ci­lia­bili ed ovvia­mente faziose», diver­genti nelle inter­pre­ta­zioni e nelle ana­lisi delle colpe. Tra i testi­moni soprav­vis­suti e scri­venti c’era il cesa­riano Asi­nio Pol­lione (le cui Sto­rie sono ricor­date da Ora­zio in un’ode famosa: 2,11), o altri con­tem­po­ra­nei come Seneca padre, dalle cui Sto­rie, ine­dite per decenni e pure per noi per­dute, deri­vano le nume­rose e poco favo­re­voli noti­zie su Augu­sto che il figlio Seneca (il filo­sofo) dis­se­minò nella sua opera. Anche per la pre­senza di tali memo­rie non omo­lo­gate, la car­riera gio­va­nile del prin­ceps restò un argo­mento scot­tante: per­sino il rac­conto di un autore «inte­grato» come Tito Livio vi si con­frontò con dif­fi­coltà.
Di fronte a ciò, urgeva per Augu­sto «argi­nare le pul­sioni sto­rio­gra­fi­che e memo­ria­li­sti­che di alcuni ex-protagonisti o loro ammi­ra­tori», urgeva far pre­va­lere una ver­sione depu­rata e trion­fale, urgeva rimuo­vere le ambi­guità e tacere le vio­lenze, pre­sen­tan­dole come legali o camuf­fan­dole sotto la «neces­sità» della poli­tica. E per far que­sto biso­gnava che le voci dis­so­nanti fos­sero emar­gi­nate o taci­tate. Augu­sto, da vero mae­stro della comu­ni­ca­zione, con­trollò la sto­rio­gra­fia attra­verso intel­let­tuali a lui fedeli, ma anche in pro­prio. Le sue Memo­rie erano un’opera che «rive­lava det­ta­gli, sve­lava, a modo suo, arcana, met­teva sotto luce posi­tiva o nega­tiva dei viventi, dei pre­sunti o poten­ziali avver­sari, chia­riva epi­sodi». Un pro­getto deli­ca­tis­simo: anche a distanza di anni, e nono­stante la vigi­lanza del vin­ci­tore, le pas­sioni resta­vano vive. Lo mostra il caso di un ignoto ex-proscritto, che nell’elogio fune­bre della moglie ricor­dava con ran­core le sopraf­fa­zioni patite da Lepido, e il sal­vi­fico inter­vento di Otta­viano (Lidia Sto­roni Maz­zo­lani, Una moglie, Palermo 1982). Gio­vava allora affer­mare una memo­ria «teleo­lo­gica» del grande con­flitto civile, che facesse con­ver­gere l’intero tra­va­glio di un impero nella prov­vi­den­ziale affer­ma­zione del paci­fi­ca­tore, del restau­ra­tore della res publica (!), del figlio di dio. Tale, in quanto figlio del divi­niz­zato Cesare, s’intende: figlio devoto, la cui intera azione poli­tica appa­riva come la legit­tima «ven­detta» del padre e come l’assunzione di una ere­dità poli­tica (per la verità, con esiti diversi rispetto al modello: Augu­sto non voleva farsi ucci­dere, e fu più accorto). Ma «figlio di dio» anche in quanto oggetto di culto, e dif­fu­sore di una «buona novella»: pro­prio un euan­ghe­lion, indi­riz­zato ai popoli dell’impero, come narra un’iscrizione dell’Asia, valo­riz­zata da Santo Maz­za­rino in una pagina memo­ra­bile.
Al figlio di dio rin­via il titolo del libro, accat­ti­vante e in qual­che misura spiaz­zante, se il pro­ta­go­ni­sta com­pare in primo piano solo oltre la metà del volume. E certo, la ric­chezza dei temi e dei mate­riali discussi costi­tui­sce per il let­tore un note­vole impe­gno: la rico­stru­zione di opere per­dute, della loro ten­denza, dei loro mate­riali, è eser­ci­zio non facile. Esso chiede di orien­tarsi tra sot­tili ana­lisi di fram­menti, che recu­pe­rano molto dal poco che è super­stite, di pon­de­rare ipo­tesi e sot­tili infe­renze, che sono argo­men­tate per altro con chia­rezza. Del resto la sto­ria richiede anche imma­gi­na­zione, e la tem­pe­rie di que­gli anni inquieti è resa con imme­diata evi­denza, gra­zie anche alle pro­ie­zioni per ana­lo­gia, carat­te­ri­sti­che di Can­fora, e alle molte osser­va­zioni di «scienza poli­tica» che sol­le­ci­tano con­so­nanze e rifles­sioni. Così quando per spie­gare l’acquiescenza degli intel­let­tuali anti­chi verso i poteri tiran­nici si evo­cano i «pen­ti­menti» espressi sotto il fasci­smo per alle­viare con­danne e con­fini, o quando si discute la tipo­lo­gia del dis­senso, deri­vato ora da «insi­pienza», ora da auten­tica urgenza, talora dalla fidu­cia «che il potere … com­porti o tol­leri mar­gini (il che, del resto, è quasi sem­pre vero, pur se in certi limiti o con varianti da regime a regime)». Molte nota­zioni appa­iono istrut­tive ben oltre l’oggetto d’indagine: per chia­rire il peso della vul­gata impo­sta da Augu­sto sui con­tro­versi avve­ni­menti della sua gio­ventù, si nota che «la codi­fi­ca­zione di una fal­sità man mano impo­sta come verità (la cosid­detta ‘sto­ria sacra’) … per cer­chi con­cen­trici pro­duce ampli­fi­ca­zioni sem­pre più defor­manti». D’altra parte, si osserva, è ine­vi­ta­bile che si generi un sistema di men­zo­gne, giac­ché «la poli­tica è l’arte della parola non veri­dica: stru­mento che si con­si­dera legit­ti­mato dalla rile­vanza, quando dav­vero è tale, dell’obiettivo in tal modo per­se­guito». Il che riguarda non solo gli anti­chi che si ade­gua­rono alla pro­pa­ganda orche­strata da Augu­sto, ma anche i moderni: i tota­li­ta­ri­smi nove­cen­te­schi sono ancora un rea­gente pro­dut­tivo per ripen­sare la rivo­lu­zione romana.


Canfora e Augusto, la storia delle storie
di Elena Loewenthal La Stampa 10.6.15
C’è una storia, nel mondo antico ma anche moderno, che è la storia delle storie. Qualunque narrazione politica la richiama in sé, da Tacito a Shakespeare, perché è il genoma dell’occidente. Dura poco più di un decennio, dal 44 al 31 a.C., dalla morte di Cesare a quella di Antonio. Viene chiamata Guerra Civile Romana; in realtà è la fase finale della Rivoluzione Romana, in cui si produce un rovesciamento: dal governo dei più o meno presentabili molti si passa a quello di un solo uomo, all’inizio garante della continuità; l’orologio della storia riporta le sue lancette alla forma primitiva del governo umano, che i tirannicidi greci e i cesaricidi romani ritenevano di avere liquidato. Questa sorta di ora legale della storia, che l’occidente ripropone a ogni zenit del sole del progresso, a sua volta si ripete ciclicamente: la Rivoluzione Francese e Bonaparte; la Rivoluzione Russa e Stalin.
C’è uno storico del mondo antico, ma anche moderno, che ha studiato questa parabola nel suo prodursi e snodarsi lungo il corso degli evi. Luciano Canfora, osservatore partecipe della vicenda sovietica e del suo impatto sulla cultura politica del secondo Novecento, esperto di Cesare e Augusto quanto di Napoleone, ha vagliato con mente lucida gli archivi globali dell’antichità e della modernità. Ha ripercorso il labirinto, ne è uscito e ne ha fornito, in un ultimo e definitivo libro (Augusto figlio di dio, Laterza, 565 pp. 14 €), la prima mappa attendibile. La padronanza assoluta delle fonti e dei loro linguaggi gli ha permesso di illuminare l’affastellarsi di testimonianze, narrazioni, interpretazioni false e autentiche su cui si sono arrovellati per secoli i filologi e gli storici, i politici e i filosofi della politica, rendendole improvvisamente intelligibili al nostro tempo come se fossero contemporanee.
In fondo al labirinto, un’erma bifronte: da un lato ha il volto di un ragazzo, Ottaviano, che si fece principe; dall’altro quello di un uomo, Cicerone, che lo immaginò. Ricostruendo l’imprinting della politica occidentale Canfora ci rivela quale umana e terribile cittadinanza tra le forze della storia abbia il pensiero degli intellettuali, che ne sono sempre, e forse giustamente, le prime vittime. 

1 commento:

Mario Valente ha detto...

nel libro di Canfora su Augusto, figlio di dio, forse è assente la funzione politica e non solo della "cara" moglie Livia, artefice di efferati intrighi che condussero a morte prematura Germanico, Caio e Lucio Cesare, figli di Agrippa, Agrippa postumo. Come mai e perché Canfora ha preferito rifarsi soltanto ad Appiano e non si è misurato sulle fonti più vicine ad Augusto, ovvero a Suetonio e a Tacito che poterono usufruire degli Acta Senatus e degli Acta Imperii?