Augusto alla guerra della memoria
Gli anni turbinosi e violenti seguiti all’assassinio di Cesare generarono una grande quantità di scritti: una lunga battaglia per la memoria , combattuta anche dopo la fine degli scontri armati. La suggestiva ricostruzione di Canfora, ricca di acribia non meno che di senso politico, immerge il lettore nel conflitto che oppose i cesariani ai cesaricidi, e i cesariani tra loro: in quei mesi furono scambiate molte lettere e diffusi aggressivi pamphlet, che rivelavano gli spericolati voltafaccia compiuti dai protagonisti (compreso il vincitore finale) nella loro lotta senza quartiere. A distanza di tempo quel materiale divenne imbarazzante: come nel caso dell’epistolario di Cicerone (vittima dei triumviri), che fu pubblicato post mortem con opportune selezioni e fu usato da Augusto con spregiudicata abilità. Vi erano, sull’agonia della repubblica romana, anche resoconti storiografici, «narrazioni inconciliabili ed ovviamente faziose», divergenti nelle interpretazioni e nelle analisi delle colpe. Tra i testimoni sopravvissuti e scriventi c’era il cesariano Asinio Pollione (le cui Storie sono ricordate da Orazio in un’ode famosa: 2,11), o altri contemporanei come Seneca padre, dalle cui Storie, inedite per decenni e pure per noi perdute, derivano le numerose e poco favorevoli notizie su Augusto che il figlio Seneca (il filosofo) disseminò nella sua opera. Anche per la presenza di tali memorie non omologate, la carriera giovanile del princeps restò un argomento scottante: persino il racconto di un autore «integrato» come Tito Livio vi si confrontò con difficoltà.
Di fronte a ciò, urgeva per Augusto «arginare le pulsioni storiografiche e memorialistiche di alcuni ex-protagonisti o loro ammiratori», urgeva far prevalere una versione depurata e trionfale, urgeva rimuovere le ambiguità e tacere le violenze, presentandole come legali o camuffandole sotto la «necessità» della politica. E per far questo bisognava che le voci dissonanti fossero emarginate o tacitate. Augusto, da vero maestro della comunicazione, controllò la storiografia attraverso intellettuali a lui fedeli, ma anche in proprio. Le sue Memorie erano un’opera che «rivelava dettagli, svelava, a modo suo, arcana, metteva sotto luce positiva o negativa dei viventi, dei presunti o potenziali avversari, chiariva episodi». Un progetto delicatissimo: anche a distanza di anni, e nonostante la vigilanza del vincitore, le passioni restavano vive. Lo mostra il caso di un ignoto ex-proscritto, che nell’elogio funebre della moglie ricordava con rancore le sopraffazioni patite da Lepido, e il salvifico intervento di Ottaviano (Lidia Storoni Mazzolani, Una moglie, Palermo 1982). Giovava allora affermare una memoria «teleologica» del grande conflitto civile, che facesse convergere l’intero travaglio di un impero nella provvidenziale affermazione del pacificatore, del restauratore della res publica (!), del figlio di dio. Tale, in quanto figlio del divinizzato Cesare, s’intende: figlio devoto, la cui intera azione politica appariva come la legittima «vendetta» del padre e come l’assunzione di una eredità politica (per la verità, con esiti diversi rispetto al modello: Augusto non voleva farsi uccidere, e fu più accorto). Ma «figlio di dio» anche in quanto oggetto di culto, e diffusore di una «buona novella»: proprio un euanghelion, indirizzato ai popoli dell’impero, come narra un’iscrizione dell’Asia, valorizzata da Santo Mazzarino in una pagina memorabile.
Al figlio di dio rinvia il titolo del libro, accattivante e in qualche misura spiazzante, se il protagonista compare in primo piano solo oltre la metà del volume. E certo, la ricchezza dei temi e dei materiali discussi costituisce per il lettore un notevole impegno: la ricostruzione di opere perdute, della loro tendenza, dei loro materiali, è esercizio non facile. Esso chiede di orientarsi tra sottili analisi di frammenti, che recuperano molto dal poco che è superstite, di ponderare ipotesi e sottili inferenze, che sono argomentate per altro con chiarezza. Del resto la storia richiede anche immaginazione, e la temperie di quegli anni inquieti è resa con immediata evidenza, grazie anche alle proiezioni per analogia, caratteristiche di Canfora, e alle molte osservazioni di «scienza politica» che sollecitano consonanze e riflessioni. Così quando per spiegare l’acquiescenza degli intellettuali antichi verso i poteri tirannici si evocano i «pentimenti» espressi sotto il fascismo per alleviare condanne e confini, o quando si discute la tipologia del dissenso, derivato ora da «insipienza», ora da autentica urgenza, talora dalla fiducia «che il potere … comporti o tolleri margini (il che, del resto, è quasi sempre vero, pur se in certi limiti o con varianti da regime a regime)». Molte notazioni appaiono istruttive ben oltre l’oggetto d’indagine: per chiarire il peso della vulgata imposta da Augusto sui controversi avvenimenti della sua gioventù, si nota che «la codificazione di una falsità man mano imposta come verità (la cosiddetta ‘storia sacra’) … per cerchi concentrici produce amplificazioni sempre più deformanti». D’altra parte, si osserva, è inevitabile che si generi un sistema di menzogne, giacché «la politica è l’arte della parola non veridica: strumento che si considera legittimato dalla rilevanza, quando davvero è tale, dell’obiettivo in tal modo perseguito». Il che riguarda non solo gli antichi che si adeguarono alla propaganda orchestrata da Augusto, ma anche i moderni: i totalitarismi novecenteschi sono ancora un reagente produttivo per ripensare la rivoluzione romana.
Canfora e Augusto, la storia delle storie
di Elena Loewenthal La Stampa 10.6.15
C’è una storia, nel mondo antico ma anche moderno, che è la storia delle storie. Qualunque narrazione politica la richiama in sé, da Tacito a Shakespeare, perché è il genoma dell’occidente. Dura poco più di un decennio, dal 44 al 31 a.C., dalla morte di Cesare a quella di Antonio. Viene chiamata Guerra Civile Romana; in realtà è la fase finale della Rivoluzione Romana, in cui si produce un rovesciamento: dal governo dei più o meno presentabili molti si passa a quello di un solo uomo, all’inizio garante della continuità; l’orologio della storia riporta le sue lancette alla forma primitiva del governo umano, che i tirannicidi greci e i cesaricidi romani ritenevano di avere liquidato. Questa sorta di ora legale della storia, che l’occidente ripropone a ogni zenit del sole del progresso, a sua volta si ripete ciclicamente: la Rivoluzione Francese e Bonaparte; la Rivoluzione Russa e Stalin.
C’è uno storico del mondo antico, ma anche moderno, che ha studiato questa parabola nel suo prodursi e snodarsi lungo il corso degli evi. Luciano Canfora, osservatore partecipe della vicenda sovietica e del suo impatto sulla cultura politica del secondo Novecento, esperto di Cesare e Augusto quanto di Napoleone, ha vagliato con mente lucida gli archivi globali dell’antichità e della modernità. Ha ripercorso il labirinto, ne è uscito e ne ha fornito, in un ultimo e definitivo libro (Augusto figlio di dio, Laterza, 565 pp. 14 €), la prima mappa attendibile. La padronanza assoluta delle fonti e dei loro linguaggi gli ha permesso di illuminare l’affastellarsi di testimonianze, narrazioni, interpretazioni false e autentiche su cui si sono arrovellati per secoli i filologi e gli storici, i politici e i filosofi della politica, rendendole improvvisamente intelligibili al nostro tempo come se fossero contemporanee.
In fondo al labirinto, un’erma bifronte: da un lato ha il volto di un ragazzo, Ottaviano, che si fece principe; dall’altro quello di un uomo, Cicerone, che lo immaginò. Ricostruendo l’imprinting della politica occidentale Canfora ci rivela quale umana e terribile cittadinanza tra le forze della storia abbia il pensiero degli intellettuali, che ne sono sempre, e forse giustamente, le prime vittime.
1 commento:
nel libro di Canfora su Augusto, figlio di dio, forse è assente la funzione politica e non solo della "cara" moglie Livia, artefice di efferati intrighi che condussero a morte prematura Germanico, Caio e Lucio Cesare, figli di Agrippa, Agrippa postumo. Come mai e perché Canfora ha preferito rifarsi soltanto ad Appiano e non si è misurato sulle fonti più vicine ad Augusto, ovvero a Suetonio e a Tacito che poterono usufruire degli Acta Senatus e degli Acta Imperii?
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